lunedì 27 febbraio 2012

Δε θα περάσουν


La foto che si vede sopra l'ho scattata in Valsusa. Ci sono andato, alla manifestazione di sabato; ma quella fotografia proviene dalla casa di una coppia di amici e compagni valsusini che mi ospitavano, assieme ad altri. Vorrei parlare di quella casa.

E' un posto raggiungibile con molta difficoltà, almeno per chi è abituato a guidare per le tangenziali o per le vie cittadine. C'è da salire, da Bussoleno, veramente su pe' monti. La strada, che è già stretta e infernale fino a una piccola borgata, dopo di essa diventa sterrata; un vero e proprio tratturo. Poi, un paio di vecchissime case di montagna. Una è semidiroccata; nell'altra, rimessa con le proprie mani, abitano i due compagni, lui e lei.

Nessuno dei due è nato in Valsusa; lui è toscano di Siena, lei calabrese. Ma stanno là da una vita e hanno perso le rispettive parlate. Sono valsusini e hanno le loro storie, che sono comuni e dure al tempo stesso. Prima di andare a una manifestazione, seppur grande, seppure enorme, è stato bene sia conoscerla dall'alto, la Valsusa, sia conoscere chi abita e combatte lassù tra le pietraie.

Poiché sono del tutto alieno dal fare racconti che abbiano anche un minimo di "folklore", voglio dire subito che in quel posto, seppur bellissimo, non mi riuscirebbe abitare nemmeno se mi ci pigiassero. E' una scelta, e probabilmente in quella scelta c'entrano parecchie cose a me sconosciute. Non ho nessunissima pretesa di conoscere delle persone in due giorni, neppure quelle che mi sono piaciute "a pelle".


Ci hanno messo sul tavolo un pezzo di pane nero, una toma düra come la lotta di quella valle e ci ho aggiunto una cartolina del movimento NO TAV con Obelix. Quand'ero ragazzo, a volte mi chiamavano Obelix anche se, sinceramente, non mi sono mai sentito di quelle dimensioni e di quella forza. Però me ne sono ricordato con un mezzo sorriso. Dal pensile di risulta che c'era in cucina comparivano le zampe di una gatta nera che dormiva. La gatta si chiama Venaus.


La mattina dopo, quella che dovevamo scendere poi di nuovo giù a Bussoleno per il corteo, non era primavera. Si era passati direttamente all'estate. Mi sono accorto di dove avevo parcheggiato il furgone, e m'è preso un brivido gelato: mezzo metro più avanti, l'abisso. La valle intera. Montagne altissime ancora innevate. I paesi, l'autostrada, le statali, la ferrovia, i campi. Di nuovo, come quando abitavo in Svizzera, m'è presa la mia "famosa" sindrome del marinaio in montagna, con tutti gli amori e tutti gli odi che comporta. Non sarà mai un posto "mio", la montagna; ma stando lassù, in due minuti di sguardi tutt'intorno ho capito tutta una serie di perché che non sto a dire. E ho capito definitivamente perché stavo là.


Uno fra i tanti, e anche fra i tanti che di quella valle non sono e non saranno mai abitanti. Uno che quella valle non dirà mai di avercela genericamente nel cuore o roba del genere, sparando roboanti espressioni di "solidarietà" che durano lo spazio di un'ora, o di un post. Uno che ha visto la passione umana, civile e combattente di chi, da anni e anni, sta lottando per i propri luoghi e per la propria vita devastata da un sistema bastardo composto di bastardi. Uno che ha capito che Valsusa può essere tutto, basta che lo decidano per i loro sudici interessi. Valsusa può essere qualunque cosa che ami e che sta per essere distrutta. Può essere la tua città. Può essere l'isola d'Elba o la campagna dove hai appreso e consumato i primi sogni in solitudine. Può essere la casa che ha raccolto le tue disperazioni, o anche semplicemente il luogo insignificante che poteva cambiarti la vita, e che magari te l'ha cambiata davvero. Può essere il tuo groviglio di relazioni e di scambi. Può essere la fontana rossa col secchio, o una semplice pietra. Può essere una strada che si perde in un bosco o un'idea che si perde nella foresta dell'esistenza. Può essere qualunque cosa che sei disposto a difendere ad ogni costo, perché appartiene a te e a chi è come te. E nessuno, nessuno, NESSUNO ha il diritto di togliertela.


E allora ci sono andato, alla manifestazione, disposto a scarpinarmi tutto il percorso con addosso uno zaino che sembrava un fardello militare. In un venticinque febbraio che sembrava giugno inoltrato, e il vento caldo e forte di favonio che scendeva giù di caduta dalle montagne. Camminando e urlando, senza retoriche e senza facili entusiasmi. Assistendo a pochi metri a dei ragazzi che stracciavano dei "fogli di via", e assistendovi assieme a quelle signore bianche lassù in cima, verso le quali ho rispetto proprio perché non sono mie. Accentuando anche il mio accento forestiero, perché valsusini lo si è lo si deve essere ognuno al suo posto, nella sua terra, nella sua lingua.



E vedere le case, case normali, case di gente e di vita, condannate a scomparire lungo il percorso. Case che sembrano lottare anche loro per l'esistenza. E pensare alle case dei distruttori, dei devastatori, dei questori, dei pennaioli prezzolati, degli stupidi "opinionisti", dei potenti. Le case, anche loro, parlano.

E vedere, ascoltare, toccare una fiumana di persone venute da mezzo mondo, perché quella valle lo sta riassumendo tutto, così com'è ora e così come lo stanno uccidendo.

E non indulgere mai a pensieri del tipo "sentirsi parte di una rivolta", perché la rivolta non è un corteo sia pur maestoso. Scacciare via a pedate ogni gratificazione personale, ogni divertimento, ogni facile allegria perché bisogna avere coscienza del motivo per cui si è là. Stamani stanno facendo gli espropri. Stamani un militante NO TAV della valle è in fin di vita perché, per una lotta, si sale anche su un traliccio e ci si fa fulminare dalla corrente a alta tensione. Si è disposti a questo e ad altro. Ci si assume le proprie responsabilità, singolarmente e collettivamente. E questo dicevano in quel corteo, dicendolo soprattutto ai luridi damerini della repressione, ai braccetti armati, ai democratici dei manganelli, delle reti e dei cantieri. C'eravamo tutti, e tutti abbiamo fatto le stesse cose. Questo dicevano.

E vedere, e capire, e sentire che nessuno si fermerà fino alla vittoria.

E capire senza nessun bisogno di altoparlanti o di notizie che i media di regime hanno la cacaiola, una merda che cola da ogni loro poro e che si esprime, ovviamente, cercando di ignorare o sminuendo quel che sta accadendo. Non sanno nemmeno più a quali pozzi di ridicolo attingere; li hanno seccati tutti, come le falde acquifere delle valli dove hanno voluto infilare le loro Truffe a Alta Velocità.

Il titolo di questa cosa, in lingua greca, è la traduzione di "No pasarán". Qualcuno mi ha fatto presente che li metto spesso, titoli in greco, e che non si sa mai come leggerli. Si legge De tha peràssun.

Come leggerlo, sicuramente, lo avrebbero saputo i greci presenti in Valsusa alla manifestazione, con le bandiere del loro paese. Ce n'erano tanti. Una bandiera nazionale che diventa simbolo di lotta universale, e come tale percepita da tutti, senza bisogno di nessuna spiegazione. La Valsusa è in Grecia, la Grecia è in Valsusa. I signori qua sotto venivano uno da Salonicco, l'altro da Monemvasià.


E poi, alla fine, tornare lassù dove dormivamo, la sera, e di nuovo la valle viva con le sue luci e il suo respiro.

E sapere di che cos'era accaduto alla stazione di Torino, dove non c'era nessun lupo che non perde il vizio. C'era semplicemente un servo obbediente, tale Spartaco Mortola, che continua a fare il suo lavoro, sempre agli ordini.

E la mattina, svegliarsi con uno strano incendio boschivo appiccato in più punti, là accanto, come già era successo; e fiamme, e fumo, e cattivi pensieri.

E, al ritorno, vedere sull'autostrada, da Torino fino quasi a Bologna, una lunghissima teoria di truppe che salivano su in forze, coi blindati. Andavano a espropriare. Andavano a allargare il cantiere. Ciò che stanno facendo in questo momento.

A sarà düra. Sí, ma per tutti.

Perché non passerete.