Molti anni dopo, quando oramai la lingua l'avevo imparata a sufficienza, avrei ripensato a quella mattinata di febbraio, all'isola d'Elba, quando vidi una cosa straordinaria senza fare altro che aprire una finestra mezza sgangherata. Mi stava accadendo, in quegli anni, qualcosa che mi faceva parecchio piacere; avendo ormai preso la licenza liceale ed essendomi iscritto all'università (ero proprio al primo anno, se ben mi ricordo), potevo tornare all'Elba in mesi insoliti e ben lontani dall'estate di prammatica; così quel febbraio.
Ho da sempre, col mese di febbraio, un rapporto strano. In linea di massima, essendo o dovendo essere il mese più crudo dell'inverno, lo detesto; però è anche il mese che precede immediatamente la primavera, in cui si può dire che il peggio sia quasi passato proprio mentre lo si sta vivendo e, inoltre, vi sono nate alcune persone che hanno avuto una grande importanza nella mia vita; nel bene, nel male e, come è naturale che sia, in entrambe le cose. S'innesta così l'odi et amo catulliano; e quindi non passa praticamente anno in cui non gli dedichi qualcosa, al febbraio il cui nome non ha proprio nulla a che vedere con la febbre. Il nome par esser derivato infatti dal verbo latino februo, che significa "purificare". A sua volta proveniente da un *bre-bruo, antico verbo "a raddoppiamento" dalla radice indoeuropea *bhre- dal significato generico di "purezza". Così la si ritrova, ad esempio, nel greco φρέαρ "pozzo, cisterna" (ovvero: contenitore di acqua pura) e in tutte le parole germaniche della "sorgente": antico alto tedesco brunno, tedesco moderno Brunnen. Probabilmente collegato è anche il verbo germanico del "bruciare", tedesco brennen, inglese burn: il fuoco, come si sa, purifica (ed in conseguenza di ciò parecchi sono saliti sul rogo). Il nome latino del mese ha comunque a che fare con la festa dei Lupercali, che vi si svolgeva; durante quel mese, infatti, il popolo costumava fare ai numi sacrifizi di espiazione, come si legge in un decrepito dizionario etimologico in mio possesso.
Quella mattina all'Elba, dicevo, mi svegliai infagottato nelle coperte di camera mia; dalla persiana filtrava una spada di luce nella quale volteggiava, fittissimo, il pulviscolo che solo in quel modo si può vedere bene. Dovete sapere che la strada che passa per il Formicaio si chiamava, già da parecchi anni allora, via delle Ginestre; e m'ero sempre chiesto come mai, visto che di ginestre non ce n'era manco mezza. Oleandri quanti se ne vuole, piante di finocchio selvatico, gli immancabili fichi e persino qualche ulivo; ma ginestre proprio no. Lo capii quella mattina, il perché; evidentemente, non doveva essere qualcosa che accadeva troppo spesso ma, quando accadeva, era un'esplosione.
Aprii la finestra, nonostante non facesse di certo un gran caldo; era una mattinata magnifica, di quelle per le quali si possono sprecare senza remore aggettivi come "gloriosa", o "sontuosa". Un cielo pazzescamente azzurro; e, tutto all'intorno, un delirio di ginestre fiorite. Oltre il campaccio davanti casa, su per dove si cominciava a salire alle Coste Grande, ai Salandri e a Galenzana; nel macchione fitto inframezzato dagli agglomerati di pini; vicino al capanno in muratura che poi è stato buttato giù per farci una casetta. Il mondo era diventato giallo vivo. Le ginestre avevano deciso di fiorire tutte insieme il venti di febbraio, in quell'angolo di mondo; rimasi come istupidito. Incantato, perdendo la cognizione d'ogni cosa. E siccome le ginestre fiorite non si limitano al colore, nell'aria si sentiva, seppure non fossero propriamente vicine alla casa, un profumo che sollevava da terra. Quando mi ripresi, non mi chiesi mai più perché avevano dato quel nome alla strada.
Se allora avessi conosciuto bene la lingua greca moderna, avrei capito bene anche una sua curiosa parola che mi capitò di conoscere anni e anni più tardi, ascoltando un canto cretese dei tempi della guerra d'indipendenza del 1821, dalla voce del grande Nikos Xylouris. Si chiama, il canto, Πότε θα κἀμει ξαστεριά, viene da tempi aspri ed è di una violenza più unica che rara. Vi si parla tranquillamente di sterminare senza pietà tutti i turchi presenti a Creta; il canto (il cui titolo significa: Ma quando farà un giorno sereno?) prevede infatti che si salga sul monte Omalòs, sulla strada di Moussoura, col fucile in spalla e che non si risparmi nessuno; né uomini, né donne e né bambini.
Qualche giorno fa parlavo di cose che ci dividono irrimediabilmente dai greci; ascoltando e capendo quel che si dice in questo canto, si pensa immediatamente alla pulizia etnica (e la guerra di indipendenza greca del 1821, che infiammò allora tutti i cuori che anelavano alla libertà, lo fu in gran parte e fin da subito). Però, in Grecia, questo canto è considerato un simbolo assoluto di libertà, e lo stesso Xylouris, che era un antifascista fieramente avverso alla dittatura dei Colonnelli, non esitò un istante a prendere la sua lira e andare a cantarlo, rischiando di essere ammazzato, al Politecnico di Atene, davanti agli studenti in rivolta, nel novembre del 1973 prima che tutto fosse schiacciato nel sangue dai carri armati del regime.
Novembre 1973: Nikos Xylouris tra gli studenti del Politecnico
Nel canto, peraltro, è presente (nel secondo verso) quella
parola curiosa di cui parlavo prima. E' un verbo; il canto inizia chiedendosi, come nel titolo, "quando farà un giorno sereno" e "quando finirà l'inverno"; e per "finire l'inverno", il greco ha la possibilità di utilizzare il verbo φλεβαρίζω (si legge
flevarízo).
Nella diglossia che ha afflitto il greco fino al 1974, e che ha ancora parecchi riverberi sulla lingua parlata e scritta, i nomi dei mesi dell'anno, come migliaia di altre parole, hanno una variante "colta", derivata dalla lingua "pura" classicheggiante (la καθαρεύουσα) e una variante "popolare" (o "demotica"). Così, ad esempio, il mese di aprile è απρίλιος nella lingua "pura" e απρίλης in quella popolare; e la cosa ha conseguenze del tutto greche. Ad esempio, sarebbe stato fuori questione che la giunta militare, per celebrare il colpo di stato del 21 aprile 1967, usasse la variante popolare del mese (e con Papadopoulos che si sforzava di
parlare addirittura in greco classico); sugli innumerevoli cartelli propagandistici di quella data si trovava infatti scritto così, come avranno notato tutti coloro che, in quegli anni, si trovavano a attraversare il canale di Corinto:
Utilizzare le forme popolari, come il nome del paese scritto Ελλάδα e la data scritta 21 απρίλη, sarebbe stato considerato semplicemente sovversivo.
Per il mese di febbraio, quindi, esiste la variante colta, φεβρουάριος [fevrouários], e quella popolare, φλεβάρης [fleváris]; la quale, peraltro, mostra interessanti fenomeni fonologici di dissimilazione e metatesi. In tutto questo potrebbe anche rientrare una paretimologia, con la consueta tendenza a riportare le parole intese come "difficili" ad altre comunissime; in questo caso, φλέβα [fléva], che significa "vena".
Ancor più particolare, però, è che dal nome popolare del mese di febbraio sia stato tratto, in greco, un verbo. Non mi risultano altri casi del genere nelle lingue europee, anche se ovviamente potrei sbagliarmi; in greco, "l'inverno finisce" o "arriva la primavera" si dice "febbraizza" o "febbraia": φλεβαρίζει. Chiaro che un verbo del genere non potrebbe mai esistere in svedese o in russo, sebbene anche in certe parti della Grecia, in febbraio, faccia un freddo da pelare; e, infatti, il verbo è di origine squisitamente cretese. A Creta, in febbraio, finisce l'inverno; e deve finire in modo sufficientemente regolare per aver giustificato la nascita di un verbo del genere, tratto dal nome del mese. Finisce l'inverno, con tutte le implicazioni che comporta ivi compreso che il termine della stagione fredda comporti liberarsi dalla Turcocrazia di secoli sterminando persino i bambini, oppure andare a cantare tutto questo a degli studenti che di lì a poco sarebbero stati massacrati dai soldati in un Novembre (mese che, peraltro, ha pure le sue brave due varianti: la colta νοέμβριος e la popolare νοέμβρης che si usa naturalmente per ricordare la rivolta: η επανάσταση του Νοέμβρη).
Me ne rammentai proprio di quella mattina all'Elba, ascoltando il canto cretese. Mi rividi spalancare una persiana mezza rotta una mattinata di febbraio, e scoprendo le ginestre in fiore sulle pente davanti ai miei occhi. Quel giorno, in cui non avevo ancora vent'anni, aveva febbraiato, είχε φλεβαρίσει, anche all'Elba; mi ritengo fortunato d'avervi potuto assistere almeno una volta, e non so se mai mi risuccederà.