mercoledì 7 settembre 2011

Mettons que Livio


!
"La Cavana: vicoli senza uscita (che qui si chiamano
androne), miserie piccole e grandi, case mezze diroccate, gente che va e gente che viene. Coi suoi capelli spettinati da folletto mai stanco, Livio mi racconta che in quel quartiere c'era una concentrazione di bordelli impressionante."
(Appunti liberi di un Gucciniano a Trieste)

Livio, già. Trieste. Trieste dicono sia una città di destra, addirittura fascista; non mi sono mai piaciute queste etichette trancianti. Trieste è una città di mare, e le città di mare sfuggono a ogni cosa; Trieste, poi, sa essere una città di follia mista a vento. Vento forte. Bere può diventare una necessità; e non è questione, qui, di scontrosa grazia. Trieste osa incontrare la disgrazia e l'ironia, e sta qui il nucleo; il resto, la Mitteleuropa, Italo Svevo e la Triestina in serie C, è contorno. C'è più Trieste in un'osmizza con gli ovi duri che in Carlo Michelstaedter. Più Trieste in un vecchio solo che s'arregge ai corrimano da bora, che in tutte le cazzate di Paolo Rumiz e dei suoi invii speciali. Ecco, Livio era tutto questo. Mi tocca dire era. L'ho visto due, tre volte; a Trieste e a Livorno. Me lo aveva fatto conoscere una triestina dagli occhi color del mare, segaligno, nervoso, le braccia di legno, lo sguardo che sembrava un coltellino piccolo sí, ma micidiale. Ci si perde, poi, o così sembra; una sera arriva un messaggio sul telefonino, e mi si informa che Livio è morto. Subentra, qui, la mia esigenza di osservare il più rigoroso silenzio e, al tempo stesso, d'inviare a Livio che viaggia uno scarno rigetto della solitudine e della morte; e ardisco dire, con ragionevole certezza, che tutta la vita di Livio dev'essere stata tesa a andare clamorosamente in culo alla cosiddetta interruzione dei parametri vitali.

Mettiamo che Livio (mettons que Livio, Livio Metòn) ora sia tornato a com'era in quella foto nell'orto inviatami dalla Meerfarbäugige di cui sopra; come tutti i triestini pazzi, cioè proprio tutti ivi compresi i neonati e quelli nati in Ghana, scriveva poesie. Le poesie sono cose da pazzi, lasciatemelo dire. Smettono di scriverne i noiosi rinsaviti e gli obbrobriosi granitici. E, allora, vorrei mettere qui sotto un paio di poesie scritte da Livio. Io non dirò che sono belle o non belle; dirò solo che sono lui. Come me lo ricordo e come me lo ricorderò. Se una poesia ha un gusto, oltre che un suono, è quello di una gigantesca e pestilenziale radice di rafano che mi portò ad acquistare in un supermercato di Sezana, in Slovenia. Delle poesie, una è in triestino.

Io nasco e muoio.

Io nasco e io muoio,
nel frattempo però,
amo la vita,
o chissà,
l'amerò.

Io amo e io odio,
io mangio e io sputo,
io bevo e io rutto,
io vomito il mondo
con tutto quel
che mi sta attorno.

Io creo,
io distruggo,
tutto quel che mi sta accanto,
tutto quel che io vedo,
tutto quel che mi sta amando.

Nel frattempo però,
io amo la vita,
e ancor più l'amerò.

Veciaia.

Vivemo e soratuto volemo viver,
ma par intanto le zornade e le stagioni se ingruma
drio de le nostre spale,
e quel che ne resta se consuma
senza inacorzerse,
come 'na candela.