lunedì 24 ottobre 2016

Motoseghe



Oramai tanti anni fa, mi ero messo a fumare una sigaretta fuori dall'uscio di casa, in una notte di marzo. Ci avevo da ragionare sull'inverno che se ne stava andando, mentre ora sta arrivando. Guardavo i tre maestosi pini nel giardino sopra casa mia, e l'aggettivo "maestosi" non era sprecato; in un cielo terso, la luna piena.  Avevo persino, ad un certo punto, fatto una fotografia ai tre altissimi pini e alla luna; senza sapere che, di quei tre alberi, non sarebbe restata che questa immagine.

Pochi giorni fa, si sono presentati degli operai di una qualche ditta specializzata, con tutta l'attrezzatura necessaria: furgone, imbragature, motoseghe. Non so quanti anni avessero quei tre pini, che erano cresciuti fino a superare  l'altezza del condominio antistante. Sì, perché se ne stavano in un terreno condominiale, agghiacciantemente condominiale. Qualcuno li aveva fatti piantare, chissà, per fare ombra o per purificare l'aria; oppure c'erano già quando il palazzone era stato tirato su. 

Un mio amico, che fa il giardiniere, dice che piantare pini (e pini di quella fatta, specialmente) in città è praticamente un delitto. Sono alberi da pinete, non da città. In città soffrono, si ammalano e muoiono. Sono alberi fragilissimi: vanno giù a un colpo di vento un po' più forte degli altri. E siccome si arrampicano su verso il cielo, se cadono sono pure molto pericolosi. E così, in questa città come in tante altre, se non ci pensano le malattie o il vento, ci pensano le motoseghe preventive. Comunque vada, vengono sterminati.

Me ne stavo, in quell'oramai lontana notte di marzo, a guardarli incantato mentre la luce della luna li faceva risplendere. Immobili, in una periferia che con una luna e tre alberi innalzava un grido di bellezza, e di quella bellezza che non si sa mai dire né troppo bene, e né troppo forte. Erano sempre lì, come di guardia, in qualsiasi momento del giorno e della notte. Erano lì quando uscivo e quando rientravo. Erano lì se mi andava di fumarmi un'altra sigaretta o far correre un pensiero. Erano lì la sera quando sono uscito per ritrovarmi, la mattina dopo, in un ospedale; erano lì quando sono tornato. 

Erano lì col gatto che provava, da piccino, a scalarli; erano lì la mattina che il gatto è stato schiacciato da una macchina, proprio di fronte al loro condominio. Erano lì e basta, come fratelli, come amici che aspettavano qualche volta un abbraccio. Sono stati abbracciati, infine, dagli operai che li hanno abbattuti per ordine superiore. Stando in un terreno condominiale, sarà bastata una riunione dei condòmini. Malati non sembravano di certo, tutt'altro; un po' piegati, perché quando si nasce pini ad un certo punto si pende da qualche lato, come la torre di Pisa. Però nessuno ha mai abbattuto la torre di Pisa perché pende da un lato, naturalmente.

Di che cosa avranno avuto paura, quei condòmini? Che alla prima ventata i pini cascassero loro sul groppone? Ci avranno avuto delle relazioni tecniche? Sarà stata una paura fondata o infondata? Non lo so. Non so proprio nulla. Non erano inclinati verso casa mia. Lo fossero stati, forse ci avrei avuto un po' di paura anch'io perché non voglio buttare croci addosso a nessuno. Ed è cominciato allora il sabba infernale delle motoseghe; via prima le chiome immense, i rami alti. Poi sono rimasti i tronchi, che anche da tronchi nudi incutevano ancora rispetto e meraviglia. Poi, via anche quelli, pezzo per pezzo. 

Legna da ardere, bella resinosa, dalla cui vendita ci si potrà un po' riprendere dalle spese. Monetizzazione. E lo spettacolo degli operai acrobati, arrampicati a venti metri d'altezza, coi pensionati e i bambini a guardarli mentre le motoseghe non fanno campare dal rumore. Hanno terminato pochi minuti fa: non c'è più niente, solo cataste di legna da portare via e immagazzinare. I tre pini hanno terminato la loro esistenza; quello che sto scrivendo, è la loro pietra tombale.

Gliela sto scrivendo perché stavano davanti a casa mia, perché erano un frammento di me e della mia vita. Perché erano una quotidianità. Perché, alle volte, mi allietavano senza chiedermi nulla in cambio. Perché, quando c'era un po' di vento, si muovevano e cantavano. Perché, assieme alla loro amica luna, mi hanno fatto alle volte brillare i miei occhi di orso peloso. Per tutte queste cose, e per altre ancora. 

Forse sarò un nemico della tecnologia sfrenata, ma sono almeno felice di aver preso quella fotografia di tanti anni fa. Non rimarrà altro di loro. Niente più sigarette fuori dall'uscio. Niente più notti di marzo. La luna si dovrà contentare, in questo infinitesimo granello di mondo, di risplendere su ordinari palazzoni di una periferia e su un campo sportivo. 

Mi era venuto di pensare che, magari, si ripianteranno da soli sulla luna. E poiché, come è noto, sulla luna ci stanno pure i gatti che hanno terminato le loro sette vite, si faranno pure riarrampicare dal mio con la sua coda nera lunghissima. Che si viva di sogni e di favole potrà anche sembrare bizzarro, ma alla fin fine i sogni e le favole sono ciò che non scompare mai, e che ti chiudono gli occhi, al momento in cui la motosega tocca a te, con uno scarabocchio di indomita dolcezza. Quei sogni e quelle favole, sei stato tu. Quei tre pini, sei stato tu.

Vorrei dedicare loro questa vecchia canzone, che li accompagni nel nulla. Parla di un altro albero come loro. Addio amici, non vi scorderò.







LA GRANDE QUERCIA 

‎ 

Lei viveva laggiù, in lande forestiere, 
non era affatto un arboscello da cantiere, 
la gran quercia che mai, dall'alto dei suoi rami, 
dové temere falegnami... 
‎ 
Ed avrebbe trascorso dei giorni spensierati, 
senza vicini inopportuni e ineducati: 
delle canne invidiose, neanche dei bambù, 
che proprio non le andavan giù. 
‎ 
Dalla sera al mattino, questi virgulti incauti 
nemmeno buoni a fabbricarci quattro flauti, 
le cantavano sempre l'odiosa ninna nanna 
della gran quercia e della canna. 
‎ 
E malgrado lei fosse del legno più imponente, 
la favola non la lasciava indifferente. 
Ed accadde così, che stanca di subire, 
decise un giorno di partire. 
‎ 
A fatica, strappò la radica sepolta 
e se ne andò senza voltarsi mai una volta... 
Ma soltanto io so come fu amareggiata 
quando lasciò la patria ingrata. 
‎ 
Al confine, trovò due bei fidanzatini 
che le proposero se con i coltellini 
gli lasciasse intagliare i loro nomi lì... 
e la gran quercia disse sì! 
‎ 
Solo dopo che i due viandanti innamorati, 
si sbaciucchiaron tanto da essersi stancati, 
ascoltarono allora la Grande Quercia che, 
piangendo, raccontò di sè! 
‎ 
‎“Grande Quercia, se tu vorrai venir con noi, 
le nostre canne non faranno i fatti tuoi... 
Ed avrai in casa nostra un comodo soggiorno, 
abbeverata ogni giorno!” 
‎ 
Oh, com'eran contenti, come'erano felici, 
la grande quercia insieme ai suoi due nuovi amici! 
E ciascuno dei due teneva in mano un ramo, 
dicendosi “Amor mio, ti amo!” 
‎ 
La piantarono ai piedi della loro bicocca! 
Capì che le promesse eran tornate in bocca; 
l'annaffiava, di rado, soltanto il nubifragio 
e la pipì di un can randagio.


Con le sue belle ghiande ci hanno sfamato i porci, 

con la sua scorza ci hanno fatto i tappi agli orci 
e ogni volta che c'era un nuovo condannato, 
lei ereditava l'impiccato. 
‎ 
Quel duo di traditori, vandalico ed abietto, 
la tagliò in quattro parti e ne produsse un letto. 
Ed aveva tanti amanti, l'orribile megera, 
che la consunse per intera. 
‎ 
Ed un giorno quel duo d' ipocriti dappoco 
la passò per la scure e la gettò nel fuoco, 
come legna da cassa e -che amaro destino!- 
la quercia perì nel camino. 
‎ 
Nella nostra città, un prete tanto pio 
non crede che il suo fumo s'alzi fino a Dio... 
Come fa quel tappetto ad essersi deciso 
che non ci sono querce in paradiso? 
‎ 
‎...che non ci sono querce in paradiso?‎

(traduzione italiana di Salvo Lo Galbo)


venerdì 7 ottobre 2016

Tu se' di quella razza




Tu se' di quella razza che sta fin troppo bene,
che un dì fece la fame, e or ci ha le tasche piene.
Lo posso gridà' forte, ed esser roboante:
Da' mòccoli alla Bibbia, da Woytilaccio a Dante.
Tu se' di quella razza che s'è certo evoluta,
Che fa far tre risate, incassa e poi saluta.
Eppur la storia insegna, e che lo si sentenzi:
Prima lo davi a i' sardo, ora dai i' culo a Renzi.
Di storie come queste ce ne son state tante,
Se l'era ancora vivo, lo davi ad Almirante.
Tu se' di quella razza che ci ha fregati a tutti,
Tu ce l'hai sciolto i' corpo, va', con que' farabutti.
Quella razza sei tu, è inutile far finta,
T' ha trombato il potere, e sei rimasto incinta.

mercoledì 5 ottobre 2016

Elena Ferrante sono io


Da un po' di tempo non scrivevo nulla su questo blog. Avevo cose più importanti da fare, come si scoprirà qui di seguito.

Giunge, ad un certo punto della propria vita, il momento di rivelare la verità a tutto il mondo (la quale, come si sa, è sempre e comunque rivoluzionaria, scordando che le migliori e più riuscite rivoluzioni sono state costantemente fatte con tonnellate di meravigliose menzogne). Qualcuno, mi è stato detto, lo aveva già sospettato; altri, invece, si sono dilettati di attribuire fantasiose identità a un pittoresco e assai variegato campionario di figure (impiegate delle poste, mogli di scrittori, boscaioli umbri, Mauro Corona, giornaliste di "Libertà" di Piacenza...), arrivando persino ad ipotizzare con un certo grado di ragionevolezza che si trattasse -naturalmente- di Roberto Saviano. Oggi, 5 ottobre 2016, mentre sulla stampa imperversa l'ennesima attribuzione certissima assieme agli A.A. (Appelli Accorati) affinché non sia violato il diritto all'anonimato (o meglio, all' "assenza"), sarà invece ricordata come la data in cui a questa vicenda viene finalmente messa la parola "fine", dato che dell'anonimato mi sono sinceramente un po' stufato e ho una maledettissima voglia di presentarmi con la mia facciazza al Premio Strega, al Premio Campiello, al Premio Bancarella, a Premium TV, al Premio Nobel e possibilmente anche anche a un Gran Premio di Moto GP per buttare fuori pista quello stronzetto di Marc Márquez. Ebbene sì, Elena Ferrante sono io.  Ma questo lo avevate, spero, già letto nel titolo.

Ora però, su, non mi venite a dire di essere poi poi così sbalorditi. Se ci pensate bene, non era difficilissimo capirlo. Che, comunque, io avessi una certa qual dimestichezza con la scrittura lo avevate già visto anche mentre mi dilettavo di emerite bojate sugli antichi newsgroups, sulle decrepite "mailing list" e, poi, sui primi tentativi (abortiti) di blog ed infine su questo che perdura oramai da un bel po' di anni. Era palese che nessuno credeva alla mia presupposta squattrinatezza cronica, al fatto che io vivessi in un garage ristrutturato in via dell'Argingrosso (mi ero inventato pure il numero, "65/C"), alle mie macchine scalcagnate, alle anarchie e a tutto il resto; vi sto scrivendo dalla mia lussuosissima villa, avvolto in una preziosa vestaglia di seta leggera, dove mi sto godendo -naturalmente- i milioni di euri che mi piovono addosso grazie ai diritti d'autore; e pensare -ah ah-, che qualche volta mi ero divertito a scrivere persino dei post dove dicevo peste & corna della SIAE!

Invece è dal 1992, da quando ho pubblicato presso le edizioni E/O il mio primo romanzo, L'amore molesto, che mi sto facendo lucrosissime beffe di tutto il globo terraqueo (lo vedete che so scrivere? Voi, senz'altro, ignoranti che non siete altro, avreste scritto terracqueo). Non è mica che avrete pensato -no?- che, con tutto quel che raccontavo sulle mie condizioni finanziarie, io fossi ancora qui bel bello senza essermi suicidato! E che diàmine, in questi anni si sono suicidati fior d'imprenditori, direttori di banca, alti funzionari...santiddìo, avevo già pubblicato L'amore molesto (che, prima o poi, mi dovrei pure decidere a leggere...) che si era suicidato persino Raul Gardini con tutto il Moro di Venezia e le strambate di bolina, e pensavate che uno nella situazione che andava via via raccontando non si fosse ancora deciso a buttarsi da un quindicesimo piano o a ingerire un decottino di aconito napello? Però, dài, sono stato bravo, no? Scrivevo romanzi, pubblicavo, pure un saggio e un libro per bambini, amiche geniali, figlie oscure, frantumaglie e quant'altro, facendo così, ed assai sapientemente, nascere il mito di Elena Ferrante; intanto però, tale "Riccardo Venturi" vi pigliava per i fondelli sull'Internèt cianciando di centri sociali, di manifestazioni, di "NO-TAV", di lingue & linguaggi (in realtà conosco solo l'italiano, ma con le legioni di traduttori sparsi in tutto il mondo che ho, mi posso tranquillamente permettere di farmi tradurre in ogni momento qualche frasetta ad effetto), di famiglie elbane, di varia umanità...

Nel frattempo ricevevo manifestazioni di stima persino da Barack (ci diamo del tu da tempo, a dire il vero mi avrebbe più volte anche invitato a prendere un teìno con lui e Michelle alla Casa Bianca, ma ho sempre risposto di no perché non mi piace granché il tè, mica perché "non volevo apparire"...), la rivista Foreign Policy mi ha "definita" tra i pensatori più influenti al mondo e via discorrendo...beh, per Giove, ci voleva pure la rivistina americana per capirlo! Di essere tra i pensatori più influenti al mondo, lo sapevo già anche come Riccardo Venturi ortonimo e come titolare di un blog dal nome strampalato assai. Come sempre, negli Stati Uniti d'America arrivano dopo la musica.

Certo, non è stato sempre così facile mantenere l'anonimato; o meglio, a volte ho dovuto fare un po' di acrobazie. Fare la donna scrittrice, in primis; ma penso tutto sommato di essermela cavata benino. Sarà per quella mia certa e pronunciata "componente femminile", e forse anche per la mia storica facilità nell'assumere personalità molteplici (cosa che, in passato, mi ha provocato non poche pene ma che, almeno dal 1992, mi ha anche fatto fare quattrini a carrettate). Più difficile è stato fare la napoletana; non perché abbia qualcosa contro Napoli, ci mancherebbe altro, ma perché confesso candidamente che, tuttora, Napoli è la città che meno conosco al mondo a parte qualche frammento di comune vulgata, un paio di volte che ci sono stato giurando di non azzardarmi mai più a guidarci la macchina e un tentativo di traduzione della Tammurriata Nera. Inutile anche pensare di farmi dare qualche lezione di napoletano; la mia -oramai confessata- incapacità con qualsiasi genere di lingua straniera me lo avrebbe impedito in partenza. Però, inutile negarlo, per questo genere di cose ci vuole Napoli. Napoli fa sempre un'audience tremenda, e questo -dev'essere riconosciuto- va sempre a suo onore. No, dico io, ve lo immaginate se Saviano avesse ambientato Gomorra a Treviso? Eppure, anche a Treviso ci sarà un po' di malavita organizzata....ma lasciamo stare Treviso, neppure Milano e Roma non avrebbero funzionato così (Roma, poi, era stata già presa dalle vicende della Banda della Magliana). E così, vi immaginate Elena Ferrante che traspone nelle sue opere un'atmosfera, un'aura, un background dell'Isolotto? L'amica geniale in via Pio Fedi? I giorni di chi fugge e di chi resta sulla Passerella delle Cascine? La figlia oscura a Villa Vogel? Le cronache del mal d'amore in via Torcicoda, i giorni dell'abbandono in piazza Batoni al capolinea del 9 (che però, in effetti, spesso abbandona tutti saltando le corse)? No, dài, non si poteva proprio. E Napoli fu, sempre col costante dubbio che alcuni scoprissero qualche vaga incongruenza. Forse anche in questo risiede il fatto che io abbia avuto maggior successo all'estero che in Italia; fondamentalmente, Obama sa una sega di Napoli come la sa di piazza Batoni all'Isolotto. La pizza? In via del Sansovino c'è il Pizzaman, va bene lo stesso per un mio lettore del Kentucky.

Ugo Ferrante.
Devo a tutti voi, però, una sia pur breve spiegazione sul come io mi sia scelto, come nom de plume, quello di "Elena Ferrante". "Elena" è dovuto all'allora fidanzata di un mio vecchio compagno di classe del liceo (sì, il liceo l'ho fatto ma, ovviamente, ero un'autentica schiappa in latino e greco e credevo che l'aoristo fosse un famoso piatto di carne della cucina spartana, l'aoristo al forno). Costei, dal cognome decisamente slavo, è divenuta nella sua vita un'ottima storica, e mi capitò verso il '92 di leggere un suo breve saggio, pur avendola persa di vista da tempo. E così mi decisi per Elena. "Ferrante", invece, è un'omaggio alla mia ben nota passione calcistica e, in particolare, all'ultimo scudetto vinto dalla Fiorentina (e che resterà l'ultimo), nel lontanissimo campionato 1968-'69. E' il cognome del roccioso e biondissimo difensore Ugo Ferrante, indimenticabile gladiatore di quella squadra invincibile, purtroppo scomparso nel 2004 in ancor giovane età per un brutto male. Che il Labaro Viola garrisca al vento nel suo nome che ha commosso milioni di lettrici e lettori in tutto il mondo grazie ai miei romanzi! 

Starnone.
Così mi sono presentato al mondo delle lèttere grazie all'ex fidanzata di un mio compagno di classe e al libero della Fiorentina del '68-'69; il quale, va detto, pure lui ci aveva assai poco a che fare con Napoli, visto che era di Vercelli. Non giocò mai nemmeno nel Napoli, ma terminò la sua carriera nel Lanerossi Vicenza. Insomma, capirete che adesso la verità è finalmente rivelata, e che Repubblica può pure smetterla con tutte le notizie e contronotizie pubblicate da giorni in prima pagina. Ora dico io, pure le analisi patrimoniali del Sole 24 Ore, il quotidiano della Confindustria; d'accordo, va bene, capisco di essere anch'io una risorsa, un'eccellenza di questo paese al pari degli stilisti di moda, delle Ferrari e del lardo di Colonnata, però, sinceramente, mi è un po' dispiaciuto che, per colpa mia, degli esperti di finanza siano andati a rompere le scatole e a ficcare il naso nei conti di una povera innocente, moglie di un altrettanto incolpevole scrittore dal cognome decisamente galliforme. Ma insomma, mi dite un po' che colpa hanno questi due poveri cristi? Quella povera donna che magari si è beccata, meglio per lei, un'eredità dallo zio Piero o dalla zia Guendalina? Ma il Sole 24 Ore non avrà di meglio da fare? A questo punto, non nascondo che la mia decisione di svelare finalmente al mondo la vera identità di Elena Ferrante è stata presa anche per tutelare un po' il diritto alla privacy di una cittadina di specchiata onestà e di buoni costumi. 

In questi ultimi mesi, dicevo all'inizio, sono stato/a un po' assente da questo blog. La stesura del mio ultimo romanzo ferrantiano, intitolato (ed è un'anteprima che, penso, farà notizia) Storia di un orsacchiotto bisunto - L'amica geniale volume quinto, mi ha assorbito completamente. La pubblicazione è prevista per la primavera del 2017 e, inutile dirlo, sarà la prima in cui comparirà anche il mio vero nome accanto a quello di "Elena Ferrante". Mie care lettrici, miei cari lettori, sono certo che non mancherete di dimostrarmi, come sempre, il vostro interesse e il vostro affetto; garantisco però che, una volta libero dalle fatiche della letteratura, tornerò ad essere il vostro Riccardo Venturi senza il becco d'un quattrino, che vive all'Isolotto in un vecchio garage, che va alle marce NO TAV, a i' Rovo e alle occupazioni. Ma anche lì, prima o poi, ne vedrete (anzi, ne leggerete) delle belle; ho già in mente il prossimo romanzo, L'amica geniale al Next Emerson. Naturalmente dovrò dire alla Ann Goldstein di far capire a Obama che cosa sia il Next Emerson; figuratevi un po' se faranno presidente Trump.

Post Scriptum. Poco prima di pubblicare questo Post Rivelatorio, è stato giocoforza informarne, per telefono, la mia compagna, che era sempre rimasta all'oscuro di tutto. Glielo dovevo, senz'altro, anche perché la poveretta, in tutti questi anni, è dovuta veramente venire a trovarmi nell'ex garage dell'Isolotto e prendere l'autobus alle 22.05 da piazza Batoni (sempre lei!) per arrivarci. In realtà ho dovuto confessarle di avere due ville enormi a Portofino, un loft vicino a Times Square, una Rolls Royce e persino l'Aston Martin usata per i film di James Bond. Inutile dire che si è dimostrata sì molto felice, ma che mi ha anche mandato sonoramente in culo. Cercherò di farmi perdonare dedicandole il prossimo romanzo di Elena Ferrante.