martedì 31 marzo 2009

Lontano come Margidore


Per chi abita o è nato in una grand'isola, come la Sicilia, la Sardegna, la Corsica o Creta, l'Isola d'Elba potrà apparire al massimo come uno scoglio; e, in effetti, gli elbani stessi, specie quando si trovano a viverne lontani, la chiamano proprio così: Lo Scoglio. Addirittura una rivista che si pubblica all'Elba si chiama in questo modo; eppure, nemmeno tanti e tanti di quegli anni fa, c'eran dei vecchi e delle vecchie che fuori dal loro paese non avevano mai messo il naso, e che non conoscevano niente di quello Scoglio al di fuori delle dieci case che avevano davanti agli occhi, e del pezzo di mare che diceva loro il mondo. E bisogna capirli, perché di strade ce n'erano poche e malagevoli, e anche se c'erano si trattava di farsi ore di carretto, a dorso di mulo o a piedi. Al Poggio, ancora negli anni '30, c'era la Spesina; siccome in paese di negozi o di spacci non ce n'erano, le altre donne del paese la pagavano perché andasse a fare la spesa a Marciana Marina. La sera prima le davano i soldi, e la mattina presto partiva a piedi. Comprava tutto quel che c'era nella lista e se ne tornava al Poggio, in salita, e salita dura per i sentieri, carica come un somaro, con la roba nelle borse e nel grembiale (all'Elba si dice grembiale, non grembiule). A volte le lasciavano il resto dei soldi, ma lei preferiva tenersi qualcosa della spesa, ché la zuppa di soldi non è buona: un pezzo di cacio, tre acciughe salate, un po' di baccalà, la verdura per farsi la minestra o per condirsela con l'olio e il sale. Ma questa è una storia vera. Della Spesina esiste persino una fotografia. La storia che vo a raccontare, invece, non lo so se è vera. Me l'hanno detta così, con poche parole, due o tre frasi rotte da risate e meraviglie; e allora, stanotte, questo blog doventa (all'Elba si dice doventa, non diventa) il portico di casa mia, dove sto da solo a raccontarmela.

In ogni isola, anche se è uno Scoglio, esistono dei posti lontanissimi, irraggiungibili. Posti favolosi di cui si sa soltanto il nome, e dove nessuno è mai stato. A Marina di Campo, qualche vecchia, se vuol parlare d'un posto remoto, dice: è più lontano di Margidore. Margidore è una spiaggia e tre case nel comune di Capoliveri, sul Golfo della Stella, sì e no a cinquecento metri da Lacona; da Marina di Campo, ora, in macchina ci si va in venti minuti. Ai tempi di questa storia, invece, doveva essere lontana per davvero, anche perché per la vecchia strada militare ci potevano passare, appunto, soltanto i militari. E non soltanto era lontana: era in una zona che, allora, era palustre, una specie di Maremma in sedicesimo dove si diceva ci fossero degli zanzaroni che mangiavano la gente. Lo stesso nome del posto sembra derivare dal latino Marcitorium, che non ha bisogno di traduzione; si aggiunga che, nello stesso comune, c'è un'altra spiaggia che si chiama Straccoligno ed il cui nome par invece venire da Sterquilinium, ovvero “merdaio”. I capoliveresi, poi, come sanno tutti all'Elba, sono matti da legare e fanno cose strane: i loro posti li chiamano putridume e merdaio, e insomma c'erano tanti ottimi motivi perché Margidore fosse la quintessenza della lontananza.

A Margidore viveva, sembra, una famiglia ch'era fatta da due sposi ancora belli giovani e che avevano già messo al mondo tre figlioli; a quindici o sedici anni una ragazza era già da marito, portava in dote tre pentole e il corredo fatto a mano dalla mamma e dalla nonna, e il viaggio di nozze non c'era perché, invece, c'era da lavorà. Nei campi, in mare, nel bosco, in culo o dove capitava. A un certo punto, poi, maritato o non maritato che fosse, un giovanotto si imbatteva all'improvviso in quella cosa che quando ti fa pagare le tasse si chiama Stato, e quando ti manda a crepare in guerra si chiama Patria; e toccava partire per andare a a ammazzare e a farsi ammazzare un po' più lontano di Margidore, tipo essere inchiodati a un filo spinato sull'Isonzo. A Oreste, così m'han detto che si chiamava, gli toccò d'andare non si sa dove, in fanteria benché venisse da un'isola. La moglie, invece, non me l'hanno detto come si chiamava; lei la guerra, doppia, dovette farsela in casa e nel campo.

Quando Oreste partì, sicuramente ci fu una frase tipica che non fu pronunciata. Quella della moglie in lagrime che, abbracciando il consorte che va al reggimento, gli dice: “Scrivimi!”. Non si poteva scrivere un accidente di niente, perché lui non sapeva scrivere e lei non sapeva leggere. Niente lettere. Non si poteva nemmeno farsele scrivere da qualcuno, le lettere, a Margidore, ché magari qualcuno a Oreste le avrebbe lette; a Margidore c'erano nove o dieci abitanti tutti rigorosamente analfabeti. E allora nulla. Passa un anno. Ne passano due. Dopo due anni e mezzo, per qualche motivo che non si sa, arriva a Margidore il prete di Capoliveri, a piedi, accompagnato da un carabiniere pure lui a piedi. So' stanchi come capre e chiedono da bere. Cercano la moglie di Oreste. Il resto, naturalmente, ve lo immaginate; a que' tempi, quand'arrivavano il prete e il carabiniere a cercare la moglie d'un soldato, era per dirle ch'era diventata una vedova. E quella povera donna, e con lei il figliolo più grande che capiva, si fecero i su' pianti e si misero il lutto. Però era d'estate, e faceva un caldo boia; il nero non s'addice a quella stagione, specie se il pianto c'è da asciugarselo in un campo a faticare, perdipiù con quel ragazzetto di undici o dodici anni che, come si vuole nelle campagne, morto il babbo già s'atteggiava a omo di casa e dava comandi.

La vedova d'Oreste aveva, allora, e sempre così m'hanno detto, ventott'anni. Ora, a ventott'anni, si è ragazze. Anche a quaranta o quarantacinque s'è ancora ragazze o giovani donne. Allora, a ventott'anni e con tre figlioli s'era donne e basta. Passava di lì il contadino o il pescatore di Capoliveri o dell'Acona (si diceva così: L'Acona), un po' più in là cogli anni e che in guerra non ce l'avevano mandato, e vedeva una donna di ventott'anni sulla terra ch'è bassa. Magari le diceva due parole. Magari la nonna era pure morta e non stava quindi a rompere i coglioni. Magari c'erano tre figlioli con uno stomaco che, con un'ardita variazione rispetto a' posti dove questa storia si svolge, si potrebbe paragonare al Ginnungagap, al cosmico baratro vuoto dell'Edda antica. Le cose eran presto fatte. Si combina il matrimonio, un pianto alla vigilia per il primo marito morto, altre du' pentole di dote e, porca miseria, prima di ritornare a zappare il mattino dopo, finalmente si ritromba. Anche questo è un aspetto che va lievemente, benché rudemente, considerato.

E d'anni ne passarono un altro paio, le cose andavano un po' meglio, il figliolo grande aveva smesso di fare l'omo di casa e di voler comandare beccandosi una scarica di calcinculo da lasciarlo con una chiappa a dir “merda” all'altra, e di figlioli n'era venuto un altro, anzi un'altra. E andò che la guerra finì pure a Margidore, che così si ritrovava a partecipare dei sacri destini della Patria, invitta e con un abitante in meno. Quel che stava per succedere, però, coi sacri destini non ci ha proprio nulla a che vedere; piuttosto, coi destini bizzarri d'un posto bruciato dal sole; ché nel Mediterraneo siamo fatti sovente all'incovercio.

Ché, poi, di bizzarro non è nemmeno che ci abbia tanto. Di soldati dati per morti e tornati vivi a casa son piene le cronache, le canzoni popolari e gli archivi militari. Così pure di mogli risposate, il cui secondo matrimonio, sebbene con nessuna conseguenza penale data la “forza maggiore”, veniva annullato. Cassato. Invalidato. Con tanti saluti al secondo marito che ci aveva pure un figliolo (legalmente riconosciuto), e spesso con un'indimenticabile scarica di legnate alla moglie, da parte ovviamente del primo marito che l'accusava di non essere stata fedele alla sua memoria, d'essersi subito data da fare e via discorrendo; e la moglie aveva voglia, mentre su di lei si abbatteva l'ira del legittimo consorte, a dirgli che non c'era da mangiare, che i figli avevan bisogno d'un padre, che l'altro portava tre somari, una vigna, una barca e un maiale. Tutte considerazioni più che ragionevoli e giustificate, ma che non servivano ad evitare il massacro da parte del becco redivivo. Insomma, per farla breve, c'era stato uno sbaglio. Era morto un altro Oreste del comune di Capoliveri, dal cognome simile; e in quel momento, in quel preciso momento, altre lacrime, altro dolore in un'altra casa.

Qui, nel portico della mia mente, da solo, per quanti sforzi faccia non mi riesce proprio d'immaginarmela, la scena. Tentativi a vuoto. Dunque: Oreste torna a casa, la moglie (probabilmente) sviene o roba del genere, c'è il secondo marito bianco come un cencio, i figlioli piccoli non capiscono bene e quello grande corre a abbracciare il padre. Fin qui ci siamo. Poi c'è un vuoto incolmabile, quel momento in cui, ad una persona qualsiasi di questa terra, viene inviata l'antimateria. Può toccare a tutti quanti, sapete. Può toccare al più grande genio dell'umanità come al contadino soldato di Margidore tornato vivo a casa dalla guerra quando lo si credeva morto.

Non riuscendo a mettere niente in quel vuoto, salterò solo a due altri anni dopo. C'era una casa, a Margidore, posto lontanissimo da Marina di Campo, Isola d'Elba, dove vivevano in santa pace, d'amore e d'accordo, un marito di nome Oreste; una moglie, il cui nome ignoro; un altro marito, seppure non più per il Padreterno e per la legge ma chi se ne fotte, del Padreterno, e ancora meno della legge; e quattro figlioli, tre maschi e una femmina. S'arrangiavano tutti quanti a lavorare; mangiavano tutti insieme; la notte, boh, facevano a turno, facevano tutta una lettata, più spesso dormivano stanchi come bestie, oppure infila tu che infilo io. Quello che volevano. Gli altri scarsi abitanti di Margidore si facevano, come dice Severino Boezio nel De Consolatione Philosophiae, una caterva di cazzi propri; e al prete che veniva a benedire casa per Pasqua si regalavano du' bottiglie di vino, e che se le bevesse ben bene se non voleva che gli fossero rotte sul capo. Sarebbe stata un'indicibile disgrazia, perché il vino era buono.

C'è che a Oreste, tornato a casa dalla guerra, Qualcuno aveva mandato un savio consiglio d'amore, che avrà elaborato, nella sua testa, nelle semplicissime forme che sono proprie delle cose più alte; e quel Qualcuno, ognuno lo chiami come gli pare. Io sono morto, però sono vivo. Sono tornato a casa, e la mi' moglie, che era vedova, s'è risposata e ha fatto bene, l'avrei fatto anch'io. Però non sono morto, sono vivo, e questa è ancora la mi' moglie. Saòsa? Ci si mette tutti insieme, morti rinviviti, vivi, figlioli, maiali, barche, vigne, somari e topa, e vaffanculo, ma che ci si pole stà a ammazzare pe' una cosa del genere? Dovrei ammazzà la mi' moglie? Dovrei ammazzà quel brav'omo? N'ho vista anche troppa di morte, dio sagrataccio.

Madonna, che bellissima nottata nel portico. Dev'essere proprio arrivata la primavera. Sto qui, apro la porta e guardo verso in là. Guardo lontano. Lontano come Margidore.

lunedì 30 marzo 2009

L'Icosaedro della Paura


Prima di iniziare questo spaventoso post, chiedo sommessamente umana comprensione. Per scriverlo, infatti, avrò bisogno di ritirar fuori le mie residue -e oltremodo scarse- conoscenze in campo geometrico; in effetti, già ai tempi del liceo, quando venivo comandato alla lavagna a cercare di dimostrar teoremi euclidei, rimediavo quasi sempre delle figure che definire meschine è un gentile eufemismo. Però l'ora è grave, e ad essa si confà anche il ricorso ad una disciplina che non mi ha mai annoverato tra i suoi cultori; tanto più che, nel post, non si parlerà affatto di Euclide, ma di un nuovo tipo di geometria che, attualmente, va per la maggiore sui giornali italiani in genere, e fiorentini in particolare: la geometria pauritaria.

Sotto questo termine, che sinceramente è stato inventato dal sottoscritto (però suona bene, eh!), si nasconde quel che tutti i lettori -anche non particolarmente attenti- di quotidiani e stampa in genere di una data città ben conoscono: i famosi, celeberrimi, irrinunciabili, imprescindibili quadrilateri della paura. La geometria pauritaria ha infatti questo di particolare, e che la distingue da ogni altro tipo di geometria creata dai più alti geni delle scienze matematiche: si basa esclusivamente sul quadrilatero. Nessun'altra figura piana è contemplata: mediante le infinite combinazioni offerte dal quadrilatero, il GG (Giornalista Geometrico) riesce a creare nei lettori (e in larghe fasce della popolazione) tutta la paura necessaria per invocare più sicurezza, più intervento dello Stato, più tolleranza zero, più controlli, più giri di vite; specialmente in periodi di campagna elettorale, dove il tema della sicurezza la fa ovviamente da padrona a prescindere dai cosiddetti “schieramenti”, la geometria pauritaria assume un ruolo davvero preponderante.

Per creare un quadrilatero della paura, gli elementi necessari sono pochissimi. Vi è però una condizione assolutamente irrinunciabile: quella che in una data via (preferibilmente del centro, ma in alcuni casi vanno bene anche certe periferie ritenute “calde”) si sia verificato uno o più dei seguenti fatti:

a) Incrinatura di una vetrina con un oggetto qualsiasi. La vetrina però deve essere preferibilmente di un esercizio commerciale di poco conto (merceria, pizzicagnolo, giornalaio ecc.) per creare la paura nel cittadino comune. La mattonata a una gioielleria potrebbe essere scambiata per un comune e rassicurante tentativo di rapina, quindi funzionerebbe meno; se invece viene colpita la merciaia, il cittadino potrà pensare: Ma allora può toccare davvero a tutti!

b) Tentativo di scippo ai danni della povera vecchietta che esce dall'ufficio postale appena incassata la magra pensione. A tale riguardo lo scippatore dev'essere forzatamente un drogato (la dizione “politically correct” di “tossicodipendente” sembra perdere terreno), essere in motorino e possibilmente essere intercettato da un bravo extracomunitario (in questo modo è possibile respingere le accuse di razzismo, anche se lo scippatore è a sua volta un extracomunitario). Evento ambitissimo è il grave ferimento o addirittura la morte della sventurata vecchia; un caso del genere riesce a creare picchi, oltre che di paura, di indignazione con relativo assembramento minaccioso di fronte alla caserma dei Carabinieri, il regolare tentativo di linciaggio, gli articoli del tipo Fino a quando dovremo sopportare?, eccetera.

c) La presenza più o meno consistente di extracomunitari abusivi che “strangolano il commercio legale”; è una specialità, questa, dei “centri storici”. Lo strangolamento consiste per lo più nella vendita per strada di paccottiglia varia, statuine, orologi falsi (ma che bisogno ci sarà dell'orologio quando tutti hanno sofisticatissimi telefonini che riportano persino l'ora di New York, di Sydney o di Vladivostok, e quando a ogni angolo di strada c'è un orologio pubblico?); ovviamente, i centri storici invasi da pizzattàglio, negozietti di cianfrusaglie ad usum turistae et ad expennandum pullum che non hanno nulla da invidiare a quelli venduti per la strada, no, quelli non sono strangolati...

d) Turista giapponese/canadese/irlandese/svedese/lodigiana, meglio se anziana, spintonata e tirata a terra da una banda di abusivi in fuga, ovviamente dal vigile urbano o da altro tutore dell'ordine colà inviato per salvaguardare la sicurezza. Ora mi chiedo: ma se 'sti fior fiore di tutori dell'ordine, invece di stare a perdere tempo dietro al venditore di collanine o di elefantini, se ne stessero -che so io- a pattugliare gli uffici delle finanziarie, o gli studi dei notai, o i quartier generali delle aziende di grande distribuzione, tanto per fare qualche esempio a caso...? Così gli abusivi non scapperebbero e le anziane turiste canadesi potrebbero godersi la gita in santa pace, ché probabilmente a loro dei venditori di elefantini non importa una beata mazza. Forse importerebbe loro ben di più di non vedersi presentare un conto di 40 euro per due caffè, tre paninacci irranciditi e una bottiglietta d'acqua...

e) Varie ed eventuali, i cosiddetti “condimenti”. Sono di ogni specie: dalle famose buche, ai lavori interminabili, al tentativo di stupro della studentessa americana (le avete mai viste, in centro, quelle sciamannate completamente ebbre che danno finalmente libero sfogo a tutto quel che, evidentemente, nel Paese della Libertà non possono fare? Con questo, ci mancherebbe, niente e nessuno autorizza a cercare di approfittare della loro virtù; ma se s'imbriacassero di meno nei localini forse ci sarebbero meno problemi).

Stanti questi elementi, la Geometria Pauritaria può cominciare. Si procede così. Uno o più di uno dei succitati episodi accade in via X; il giornalista “accorre” (= se ne resta nel suo ufficio bello al caldo, sfruttando un modello preconfezionato di articolo) e stabilisce il quadrilatero della paura formato, appunto, dalla via X, e dalle adiacenti vie W, Y e Z. A tale riguardo, però, va detto che la Geometria Pauritaria può creare quadrilateri alquanto bizzarri; spesso si legge di quadrilateri delimitati da cinque, sei, dieci lati; figure sghembe, irregolari, a volte extradimensionali. Non importa: è sempre un quadrilatero. Il massimo è stato raggiunto qualche mese fa su un quotidiano locale, che nello sparare un titolone a nove colonne su un quadrilatero dietro la stazione centrale, lo ha riportato in piantina delimitato da un cerchio. Qui, altro che Medaglia Fields; la Geometria Pauritaria può portare direttamente al Nobel, nel senso però di inventore della dinamite. È infatti dinamite ciò che maneggiano questi signori; e un giorno o l'altro, farà un bùm che neanche ci immaginiamo.

Il giorno dopo, sul quotidiano compare la paginata contenente, oltre al quadrilatero, i seguenti elementi: a) cittadini esasperati che “non vivono più” (ma che emigrino, una buona volta!); b) interviste ai commercianti che denunciano; e poi si parla di crisi del commercio. Passano il tempo a denunciare, ma mai che lo facciano nei confronti delle loro associazioni di categoria, delle compagnie e/o cooperative di grande distribuzione, di politiche dissennate, dei loro idoli che promettono meno tàsse per tùttiii....; c) notizia sulla costituzione del “Comitato” con relative “pubbliche assemblee”; d) invocazione solenne alla maggiore sicurezza.

E così, come la Geometria Pauritaria riesce a arrotondare il quadrilatero, riesce anche nei suoi due veri intenti, quelli che tutti sanno ma che non si possono dire: da una parte, la sicurezza, quella vera, quella che si ha quando si vive liberi da false paure precotte, va a farsi benedire definitivamente; dall'altra si possono ancor di più ridurre le città a guarnigioni militarizzate, a terreno di pattugliamento, a coacervi di telecamere ed altri marchingegni che ci tengono d'occhio, ci spiano, ci inquadrano.

Infine, mi sono chiesto a volte come mai la Geometria Pauritaria abbia scelto, come sua figura centrale, proprio il quadrilatero. Le spiegazioni che mi sono dato sono decisamente imperfette. Il quadrilatero, certo, può essere evocativo dal punto di vista storico; ma in un paese i cui, oramai, la Storia è vista come una grave bestemmia, chi si ricorderà mai delle fortezze del Quadrilatero (Peschiera del Garda, Mantova, Verona e Legnago)? “Quadrilatero” è, certamente, anche un bel parolone “pieno”, che fa presa; ma come mai non un triangolo, ad esempio? Eppure, acciderba, anche il triangolo ne ha un bel po' di implicazioni simboliche! Ma non funziona; ha assonanze più da film o romanzo dell'orrore, c'è il Triangolo delle Bermude, e inoltre potrebbe anche avere accezioni boccaccesche che sarebbero fuori luogo: v'immaginate un Triangolo della Paura dove si potrebbe pensare che, in realtà, il casino notturno nel quartiere è dovuto a un marito incazzato che ha scoperto la consorte a ravanare con l'amante...?

Si devono poi scartare recisamente altre possibilità:

  • Il Pentagono della Paura sarebbe una grave offesa all'Alleato Americano, alla nostra Eterna Amicizia che con esso abbiamo, alla gratitudine per averci liberato dal nazifascismo (e lo si vede, per la miseria!). Cassare.

  • Il Rombo della Paura non funzionerebbe, troppo “rumoroso” sebbene, a rigore, il rombo sia un quadrilatero. Casomai potrebbe essere utilizzato per eventuali schiamazzi notturni di motociclisti, ma non creano paura e voglia di sicurezza. Cassare.

  • Il Rettangolo della Paura: troppo regolare per funzionare. Certo, più quadrilatero di un rettangolo...però bisognerebbe fare le cose ammodino, circoscrivere ordinatamente, verificare la correttezza degli angoli retti; col rettangolo, insomma, si potrebbe avere paura soltanto se muniti di goniometro. Cassare

  • La Losanga della Paura. E che è, una Fisherman's Friend? Cassare.

  • L' Esagono della Paura. Nulla da fare: scatenerebbe il risentimento delle autorità francesi, visto che la Francia è popolarmente chiamata “L'Hexagone”. Si scatenerebbero querelles diplomatiche, Sarkozy ci chiamerebbe “il Dodecagono della Monnezza” e s'andrebbe avanti così fino alle più complicate figure piane.

A questo punto appare chiaro come mai la Geometria Pauritaria e tutti i suoi teoremi che questa società avanzata ha recepito in toto, abbia bisogno del Quadrilatero. In un incubo da me avuto qualche tempo fa, mi sono visto, in una sordida notte e tempestosa, solo e abbandonato in qualcosa di inimmaginabile, che nemmeno la mente di Lovecraft con tutti i suoi grandi Cthulhu, Yog-Sothoth, arabi pazzi e Necronomicon sarebbe riuscita a concepire: l'Icosaedro della Paura. Con campi Rom smontabili, task forces per il rapimento di bambini in fasce, venditori di falsi di orologi già falsi, cataste di turiste canadesi spinte per terra da terribili abusivi armati, Comitati di cittadini spettrali, un Graziano Cioni a cinque teste (il cosiddetto “Pentaciònicon”)...mi sono svegliato sudato con un urlo di raccapriccio.

Ma la luce del giorno mi ha portato la dolce certezza della realtà: L'Icosaedro della Paura non esiste! E, inoltre, perdio, l'icosaedro non è una figura piana, ma un solido! Cinguettavano gli uccellini e l'incubo era svanito; potevo tornare alla rassicurante, consueta locandina del Quadrilatero. Come si dice da queste parti: Chi si contenta gode (disse quello che metteva la cravatta al maiale).

Post Scriptum. Non molti giorni fa mi sono trovato del tutto casualmente nel centro storico; e dico casualmente perché ci vado poco, il meno possibile, impegnato come sono nell'esplorazione capillare ed attenta del mio spicchio di periferia. Ad un certo punto mi sono ritrovato a percorrere un isolato, sicuramente di forma quadrangolare, dove, in ordine inesorabile e fitto, mi si sono parate davanti: la Cassa di Risparmio, la Deutsche Bank, la Banca Intesa, il Credito Cooperativo di Nonsoccosa; svoltato l'angolo, la Banca Antonveneta, il Banco di San Geminiano e San Prospero, il Credito Agricolo; svoltato di nuovo l'angolo, la Barclay's Bank, il Banco di Sicilia, la Banca di Roma; svoltato l'ultimo angolo, un isolatissimo Credito de' Crediti o roba del genere. A giudicare da quanto hanno combinato negli ultimi tempi, ma anche in tempi meno ultimi, ritengo che sia questo l'autentico quadrilatero della paura.


giovedì 26 marzo 2009

Necessaria (e gradita) precisazione

Una precisazione (e correzione) necessaria e gradita, in riferimento al post scritto ieri 25 marzo a proposito della pagina Feisbuk di Adriano Sofri.

Pochi minuti fa, la giornalista di Repubblica Laura Montanari, autrice del "blog d'autore" Altre Frequenze da cui è tratta la notizia che mi ha spinto a scrivere il suddetto post, ha fatto esattamente quella famosa cosa tanto semplice e tanto difficile al tempo stesso: ha afferrato la cornetta del telefono (ammesso che i telefoni abbiano sempre le cornette, ma questo è un altro discorso) e mi ha chiamato sul quel numero che, sotto il titolo di questo blog, campeggia in bella mostra e pronto all'uso da parte di chiunque lo desideri (anche per insultarmi; qui dentro, a differenza di "Facebook", si può anche esprimere disapprovazione, ed in modo del tutto libero; basta farlo con nome e cognome, e per telefono. O addirittura di persona: abito a Firenze, in via dell'Argingrosso al numero 65/C, quartiere Isolotto).

È stata, invero, una telefonata assai gentile ed amichevole, durante la quale Laura Montanari ha tenuto a dirmi che, per scrivere il blog, non prende manco un soldo; in pratica, lo tiene come una sorta di attività di volontariato.

Ne prendo volentieri atto; e poiché le ho lanciato un'accusa non vera, lo dichiaro a chiare lettere chiedendole scusa; e, assieme a lei, anche ai suoi colleghi che tengono analoghi "blog d'autore". Mi sembra il minimo che posso fare.

Con tutto, rinnovo il ringraziamento a Laura Montanari per il suo gesto che mi ha fatto veramente un enorme piacere; e me lo avrebbe fatto anche se mi avesse telefonato in modo meno gentile.


mercoledì 25 marzo 2009

Facebucchi & Sofribucchi, Inc.


Cliccate sull'immagine per ingrandire e vi apparirà una sorpresa.

Tra un paio di mesi, questo blog compie due anni di vita. Quando è nato, dopo due tentativi andati a vuoto, si era in pieno « blogghismo »: tutti ce lo avevano, il blog; sui giornali (cartacei e online) le notizie sulla « bloggosfera » erano quotidiane, si parlava di qualcosa come sessanta milioni di blog aperti in tutto il mondo. Nasceva persino un motore di ricerca, Technorati, dedicato appositamente ai blog; insomma, il blog era la New Frontier « à la page ».

Ripensavo a volte alle tante new frontiers che mi era stato dato di conoscere da quando frequento la Rete; ripensavo ai primi « instant messengers », al vecchio ICQ (chi se ne ricorda?), alle chat, ai newsgroup Usenet, alle mailing list, a tutti gli antesignani della « socialità » internettara; poi, ad un certo punto, venne sua maestà il Blog. Il blog « d'autore », Beppe Grillo, i finti blog ospitati dai quotidianoni e tenuti dai loro giornalaj, il blogghino della ragazzina con le foto degli scamarci, il bloggone del post-rivoluzionario, tutto quanto. Sembrava d'essere arrivati alla fine di un percorso, e di potersi finalmente accomodare a scrivere in santa pace di tutte le coglionate che s'avevano in testa; macché.

Ci sono ancora, certo, i blog; ma non fanno più nessuna notizia. Sono nella fase della normalità acquisita, qualcosa che c'è perché c'è, come la televisione, come la lavatrice. Più nessuna « spinta propulsiva », tanto per riprendere una vecchia definizione data da uno che conoscevo a proposito di una mailing list. Se ne aprono ancora, ma se ne chiudono a migliaia; oppure vengono lasciati lì a dormire un sonno eterno senza più essere aggiornati. Poveri blog, anche a loro toccherà la fine di ICQ e dei newsgroups; un giorno saranno coltivati e frequentati solo da pochi & fedeli appassionati, decisi a non far morire la fiaccola della blogghìa.

Penso che sarò fra quelli; come forma di espressione in Rete, mi è consona, del tutto dimensionata. Da quando ho deciso di far sparire i commenti, poi, mi ci trovo ancor meglio: ho eliminato ogni pretesto. Scrivo soltanto per il gusto di farlo e perché mi sento qualcosa da dire, in modo ragionato, senza preoccuparmi più di nient'altro. Se « piaccia » o « non piaccia ». Se sia « originale » o « banale ». Se sia « intelligente » o « idiota ». Forse, tra non molto, verrò considerato come quegli irriducibili che nell'anno di grazia 2009 ancora si ostinano a non volere usare il telefonino; addirittura, un giorno, come un altro curioso tizio che conosco, il presidente di un'associazione del volontariato di cui faccio parte, che sempre nel 2009 non ha manco il computer e usa ancora la macchina per scrivere. Erano rimasti in due: lui e Bernardo Provenzano, che scriveva a macchina i « pizzini »; ora mi dicono però che Provenzano ha cambiato macchina, dalla Lettera 32 alla 41 bis. Un bel casino, per lui.

Come tutti sanno, l'attuale New Frontier retajola è Facebook. Ovviamente si sta ripetendo quel che a suo tempo è avvenuto per i blog e, ancor più indietro, per le chat e per i forum: la convivenza mondiale sembra regolata dall'invenzione del sig. Zuckerberg (« monte di zucchero », in tedesco o meglio in yiddish). L'edizione online di « Repubblica » la si potrebbe oramai definire « Facepùbblica »: ogni giorno che Manitù mette in terra ci sono quattro, cinque, dieci notizie su quel che accade su Facebook. Va da sé che, mettiamo fra due o tre anni, qualcun altro inventerà un'altra cosa per perdere tempo a far finta di « socializzare » in rete, e che pure Facebook sarà via via dimenticata; nel frattempo, però, il qui presente che ha deciso di fermarsi coscientemente ad un dato stadio evolutivo, rimanendo nel suo blogghino sotterraneo a osservare il mondo come e quando può, scopre ogni giorno nuove perle facebucchiane.

L'ultima, ed eclatante, porta nientepopodimeno che la firma di Adriano Sofri; se ne ha notizia, come dubitarne, su questa pagina (proveniente nominalmente da un finto "blog d'autore", scritto ovviamente a comando da una giornalista retribuita) dell'edizione fiorentina online di « Repubblica ». E mi viene da pensare: come poteva mancare Adriano Sofri su Facebook? A parte il fatto che, con buona probabilità, desiderio inconfessabile di Sofri sarebbe che il « social network » si chiamasse « Facesofri » o « Sofribook », la sua presenza con la regolare paginona la davo per scontata e attendevo soltanto che qualche giornale ne desse nuova. Così, senza minimamente farne parte e schifando oltremodo la cosa, do per scontate altrettante paginone di tutta l'intellighènzia « generazionosa », i bifiberardi e compagnia cantante. Tutti quelli che, naturalmente, si tengono strettamente all'avanguardia delle « nuove forme di comunicazione » riuscendo peraltro magicamente a fare quel che hanno sempre fatto, vale a dire non comunicare assolutamente un cazzo e risultando sovente incomprensibili persino a se stessi. Ma forse sono io ad essere troppo poco intellighènte; pazienza.

Ma, tornando al Sofri Adriano, mi sono autenticamente gustato il suo panegirico di Facebook. Lo voglio riportare per intero, come denso campionario delle più acrobatiche cazzate che mi sia stato dato di leggere ultimamente a proposito del « social network ». Eccolo in tutto il suo splendore:

La scrittura di Facebook è la più vicina alle cose scritte sull’acqua, come il nome di Keats sulla sua tomba alla Piramide, o almeno sulla sabbia che l’acqua viene a cancellare: naturalmente, la velocità non depone sempre per la solidità del pensiero, ma è un buon allenamento, e la prontezza di riflessi quando non diventa un espediente serve a tenersi al passo, e per ripensarci su c’è ancora tempo”.

Autenticamente grandioso. Dunque, analizziamo un pochino queste parole di Sofri, perché senz'altro lo meritano; anzi, invece di una noiosa anàlisi, facciamone una traduzione dal sofrese in italiano, ché mi riesce meglio:

« La scrittura di Facebook, lo ammetto, è una collezione di stronzate insignificanti e inutili, anche se tirare in ballo Keats aggiunge un tocco di classe (ed io, accidenti, ne ho da vendere di classe, ivi compresa la lotta). Quel che vi si scrive sono praticamente scoreggine che vengono portate via da un soffio di vento, più o meno come i miei articoli sul 'Foglio' di Ferrara (a proposito: mi hanno detto che, date le dimensioni, Ferrara su Facebook si è fatto dodici pagine); naturalmente so bene che, a causa della velocità, scrivo delle puttanate demenziali che non depongono manco un uovo marcio, altro che pensiero; però così mi alleno a scriverne di altre, ché tanto, oh, io sono Adriano Sofri e quindi posso permettermelo certo di essere notato, pubblicizzato come 'fenomeno interessante' e 'appuntamento fisso'; mi tengo al passo dei tempi, cioè del nulla sottovuoto spinto, e per ripensarci ho tutto il tempo che voglio perché tanto non faccio un cazzo dalla mattina alla sera. »

Piaciuta la traduzione? Non lo saprò mai, perché, pappappero, se volete dirmelo dovete darmi un colpettino di telefono o, tutt'al più, mandarmi un messaggino SMS. In questo mondo di « socialità » il telefono sembra tornato ad essere una barriera insormontabile; in più mi chiamo Riccardo Venturi e potrei anche essere il famoso capitano dei RIS, no?

Nel frattempo, non posso che concludere ancora che con le parole di Adriano Sofri. Sì, perché nell'articolo riportato sulla « Facepùbblica Online » fiorentina ve ne sono altre. Sulla pagina Facebook di Sofri « si diàloga » (o bella! o quando mai Sofri avrebbe « dialogato » con qualcuno?) a proposito di « politica e attualità », ma anche di stagioni. E che cavolo! Proprio da un ragionamento sofriano sulla primavera traiamo questa considerazione:

« Oggi, se fossi ricco e libero, comprerei il piccolo ippopotamo svizzero, finché pesa solo cento chili, e andrei a vivere con lui a Comacchio. »

Per favore, per favore. Togliete Sofri da quel cazzo di arresti domiciliari o che roba è. Li-be-ra-te-lo, ché non se ne pòle più. Mi assumo volentieri anche l'onere di organizzargli un collettone per renderlo ricco e comprargli l'ippopotamo svizzero (santo cielo, eppure in Svizzera ci sono stato tre anni e di ippopotami non ne ho mai visti, a parte qualche contadino friburghese...), a condizione che si trasferisca immediatamente a Comacchio rigorosamente privo di qualsiasi connessione Internet; ché tutti 'sti cialtroni son sempre a ragionare di ritirarsi da questo mondo di merda, a Comacchio in primavera, sull'isoletta greca, a Sant'Albano in Val Mignotta o su Marte, e invece, alla sera, eccoli tutti quanti a spippolàr spippolè spippolero, tastierina e via, "esprimi approvazione" e diàloga tu che diàlogo io.

Magari, oltre all'ippopotamo svizzero, l'Adriano conoscerà pure un'anguilla ferrarese o gli si presenterà in sogno Valeria Marini, che proprio a Comacchio ebbe a girare il suo indimenticabile Bàmbola. Ché in fondo questo son diventati i Sofri & compagni: cretineria modaiola allo stato brado. Ci fu una generazione che dovette rispondere di tutto, e ad un certo punto emise alfine la risposta: Oh yeah, very cool!

martedì 24 marzo 2009

Prào deve chiudere (Atto secondo)


Atto secondo: sì, perché, a Prào, evidentemente, un solo atto non basta. Non sono bastati i (quasi) giornalieri piagnistèi dalle colonne polipartisan di mezza stampa regionale e nazionale: dal “Tirreno” (che passa per essere di “sinistra”) alla “Nazi/One”, dal “Giornale della Toscana” fino a tutti i quotidianelli del gruppo “Poligrafici Editoriale”, quello che pubblica anche il “Piccolo” che persino i non propriamente sinistrorsi triestini chiamano affettuosamente “il Bugiardello”.

Stavolta, il praèse d'ordinanza è riuscito a esportare i piagnistèi persino da Michele Santoro. Sapete, il Santoro, quello che un tempo voleva “servire il popolo”, quello che cantava “Bella Ciao” con la sua voce che -decisamente- non ricorda quella di Lauri Volpi o di Di Stefano. Insomma, alla sua trasmissione “Annozero” è magicamente comparso nientepopodimeno che l'imprenditore praèse, non sappiamo se invitato o autoinvitatosi. E qui, prima di procedere, è necessario fare una doverosa precisazione.

Di questo 'mprendihòre, che per la crònaha si chiama Renato Cecchi ed è il padrone (anche se lì lo chiamano, chissà perché, patròn, della Santo Stefano), è stata riportata un'affermazione, precisamente dalla “Nazi/One”. Ora, chiunque conosca il blob giornalaro rappresentato dal “Quotidiano Nazionale” (QN) di cui la suddetta testata, assieme al “Giorno” e al “Resto del calzino Carlino”, è una componente, sa bene che qualsiasi cosa ivi riportata ha la stessa concretezza e credibilità dell'arsenale nucleare di Saddam Hussein e delle sue arcinote armididistruZZionedimassa. Comunque, l'articolajo della Nazi/One menziona la frase che segue, la quale sarebbe stata pronunziata dall'imprenditore in questione, che ci pregiamo di tradurre nel praèse in cui senz'altro è stata eventualmente concepita:

'E s'è alla 'hanna d'i' gàsse, 'e s'è disperahi. E la 'horpa 'e gliè de' governanti che c'hanno venduto alle Logihe d'i' Commercio.

Ripetiamo: non avendo visto la trasmissione, poiché la televisione è MERDA, si deve prendere la cosa con le molle; certo è che se il Cecchi Renato entrepreneur si fosse fatto scappare di bocca una mostruosità del genere, Prào non solo dovrebbe chiudere nonostante le bandierone itagliane da record, ma dovrebbe essere fatta chiudere a colpi di bomba al neutrone. Ve lo immaginate, voi che eventualmente leggete questa cosa, un “imprenditore” che accusa dei non meglio precisati “governanti” di aver la colpa di “vendere alle logiche del commercio”? E di che cosa dovrebbe essere fatta, una qualsiasi attività imprenditoriale, se non di “logiche del commercio”? Di beneficienza? Di fede, speranza e carità?

Peraltro, le “logiche del commercio” in salsa praèse sono notissime e ben utilizzate; e, nonostante la disistima che nutro verso governi e governanti in genere, qui non mi sentirei proprio di attribuire a costoro i fondamentali demeriti della distruzione in corso del distr(u)etto tessile pratese. Distruzione che dev'essere attribuita in toto alle politiche demenziali, egoistiche, antisindacali, meschine e fratricide che ho sempre visto porre in opera da quelle parti; e pur non essendo granché quanto a preveggenza, sono anni ed anni che m'aspettavo un botto del genere. Non solo: mi aspettavo il botto e mi aspettavo anche i relativi piagnistèi contro governanti, cinesi, sindacati e chi più ne ha, più ne metta.

Si noti bene fra le altre cose: gli attuali piagnistei contro i governanti sono fatti rigorosamente e scrupolosamente senza nomi né cognomi; naturalmente, se al governo ci fosse stato ancora il Mortadella, i nomi e i cognomi si sarebbero sprecati (visto che il Mortadella aveva colpa anche dell'11 settembre, delle fosse di Katyn, dell'attacco a Pearl Harbor e del proditorio passaggio in armi del 38° parallelo). Poi ci sono gli ovvi cinesi; a tale riguardo, si deve notare come la cosa sia stata immediatamente “adottata” dall'etrusca destrònzia che vede qui un'ottima occasione per il tanto agognato ribaltone (e che invece, oso ipotizzare, lo prenderà nuovamente nel kiùlo -com'è giusto che sia).

Mi è capitato, una mattina in cui per indisponibilità della mia scassata autovettura ho dovuto svenarmi per affrontare un viaggio in taxi, di beccare giustappunto un tassista de derecha che era sintonizzato con l'autoradio di bordo su “Radio Studio 54”. Ospite era il sen.(zavergogna) Achille Totaro, un tizio fatto rimanere per centocinquant'anni “studente universitario” per fare il dvcetto dei destr'giovinott' e da lì “promosso” parlamentare. Ad un certo punto della trasmissione interviene un “ascoltatore” -singolarmente d'accordo con il Tota(n)ro e ancor più singolarmente lasciato in onda per mezz'ora quando -usualmente- a chi interviene in trasmissioni consimilari con il politicante di turno viene a malapena lasciato il tempo di una domandina. L' “ascoltatore”, che si qualifica come praèse, inizia immediatamente con la geremiade sui cinesi; al che, il sen.(zapudore) fascista prorompe in un'accorata esclamazione con tono da fare invidia al fu Mario Merola: Madonna mia! Certo che v'hanno davvero schiantato, rovinato questi cinesi! Risparmio il seguito, anche perché è facilmente immaginabile. Prào, come qualsiasi cosa in Toscana, è un boccone troppo ghiotto per questi cialtroni; un boccone che gli 'mprendihori alla Cecchi, quelli che accusano i governanti, stanno cercando di servire su un piatto d'argento alla fascisteria locale, cavalcando la crisi e cercando soprattutto di attribuirla a tutti quanti fuorché ai veri colpevoli: loro stessi.

Ce l'hanno coi sindacati: ma quali sindacati, quale spauracchio della sindacalizzazione che avrebbe contribuito, a loro dire, allo sfacelo attuale? Sembra di risentire il famosissimo luogo comune che fa il paio coi “negri col ballo nel sangue” o col “non esistono più le mezze stagioni”: sono i sindacati, la colpa della rovina. I sindacati che, per essere elusi, scansati, messi a tacere, bypassati (per usare un termine “in”), hanno dovuto ingoiare la frammentazione dell'intero tessuto economico, le dittarelle con meno di quindici impiegati al di fuori dello Statuto dei Lavoratori, la riduzione a “concertatori”, anzi, peggio, a aiuto-concertatori. Se c'è una colpa, vera, che i sindacati hanno è proprio questa: essere stati proni alle politiche dissennate di un'intera classe imprenditoriale le cui azioni al limite del criminale sono finalmente venute a galla.

Se Prào vuole davvero vivere, se da questo “Prào” che uso volutamente a dispregio vuole ridiventare Prato, con la “t” e con la qualifica di città (che mi ostino a far corrispondere alla “polis” prima greca e poi toscana), si liberi prima di questi loschi figuri, di questa classe di crassi mascalzoni che prima fanno i loro comodi finché la barca va, e che poi, quando la barca affonda, non trovano niente di meglio che organizzare finte manifestazioni strappalacrime col bandierone e lanciare accuse strampalate. La loro Prào deve chiudere, e non riaprire mai più; nasca invece una Prato diversa, consapevole, davvero autrice del proprio destino e senza più piagnistei razzisti o razzismi piagnoni.

sabato 21 marzo 2009

Topa ghèrl


Comunque la si voglia mettere, piaccia o non piaccia, lo si legga o non lo si legga (ah, a proposito: un gran saluto all'Olmoti Giorgio! Comunque 'e gli è inutile che tu faccia: fra i cazzoni e le cazzonesse planetarie di Feisbuk io non ci vengo), sarà ben difficile che questo blog sia frequentato da quindicenni o altre bimbette in età (pre)puberale. Ma, per una volta, sarà bene fare un'eccezione è trasformare momentaneamente l'Asocial Network dal nome grecheggiante in Topa Ghèrl.

A che cosa mi riferisco? Ad un episodio, avvenuto qualche giorno fa, e che è stato peraltro abbondantemente ripreso sia in rete che altrove. Lo sintetizzo in poche parole. Top Girl, rivista edita da Mondadori (e tutti sanno a chi appartenga attualmente la Mondadori) ed il cui bersaglio (sempre bene tradurre alla lettera le parole inglesi, tipo appunto target) sono giustappunto le italiche adulescentulae di età compresa, diciamo, tra i dieci/undici e i sedici/diciassett'anni, ha pubblicato di recente un “reportage” intitolato così: La carica dei neofascisti. La rivista, com'è facile immaginare, si occupa generalmente di sentimenti, bellezza, bonazzi & mode: e 'sti neofascisti che fanno la carica, e che carica, rientrano senz'altro nel novero delle mode di quest'ultimo tempo. In mezzo alle tonnellate di pubblicità presenti sulla rivista, la direttora (tale Annalisa) ha infilato ben sei pagine, corredate di foto, su quei bravi e fighi ragazzotti di Forza Nuova presentandoli come giòvini che danno un senso alla loro vita; e giù ammiccanti accenni ai loro vestitini, ai loro tatuaggi, agli occhialoni da sole che portano; insomma, per farla breve, una giustificazione in piena regola alla loro violenza, allo squadrismo visto più o meno come un'attività sportiva, alla donna vista come mogliemmàdre, agli immancabili valori. Uààààu! Una roba proprio cool, 'sto nazifascismo. Ci sarebbero naturalmente tante cose da rispondere a questi cialtroni, a queste cialtronesse; un modo senz'altro efficace e ben argomentato lo ha scelto ad esempio Femminismo a Sud; il link è d'obbligo.

Qui, invece, si è leggermente più merdoni. Proprio per questo si è voluta questa temporanea trasformazione in Topa Ghèrl, e proprio il giorno dopo in cui quei ragazzi tanto cool (ma vadano tutti a fa' in cool, giustappunto!) hanno, proprio da queste parti, devastato il centro sociale “Il Pozzo”, nel quartiere delle Piagge a Firenze, che fa capo ad un parroco cattolico, don Santoro, da anni impegnato per l'integrazione e contro il razzismo e l'emarginazione; due sere prima, invece, a Lucca (città dove i ragazzi che danno un senso alla loro vita sono ben presenti con tanto di sede), la libreria Baroni è stata ugualmente mezza devastata con tanto di svastiche, slogan omofobi ed altri bellissimi valori del genere. Senza contare, nei mesi scorsi, le aggressioni neofasciste a Prato e Pistoia, peraltro piuttosto ben protette dalle fozzedellòddine.

Trasformiamoci quindi in Topa Ghèrl e indirizziamo un messaggio comprensibile alle figliolotte che, eventualmente, comprano quella puttanata di rivista che le vorrebbe tutte standardizzate, tutte dedite esclusivamente allo Scamarcio di turno, tutte pitturate come mercato vuole, e magari, perché no, future fidanzatine e mogliettine di màschi italici giovinotti, pronte poi ad essere pestate a sangue e stuprate tra le mura domestiche da chi organizza e fa il pogrom contro il rumeno.

Ehi, dunque, topa ghèrlz! V lo diko io ki sono qs merdosi squadristi, kn le loro testoline di kzz + o – rasate, koi lr vlr tradizionali, koi loro antiaborti ke srbb stt meglio se l'aborto lo avessero ftt le loro mmcc troje ingravidate dai loro bb bekki. Sn gli stss di tnt e tnt anni fa. Di qn gli stss raga, mgr kn meno tatuaggi ma kn la stss violenza abbinata a 1 qznt di intelligenza pari a qll di un karciofo, si dvrtvn a fr le stss kose di ora: pestare devastare bruciare incendiare imbrattare. Smpr gli stss al srvz dl solito potere di mrd, ke i lr valori sn qll di essere i servi del padrone. Servi ubbidienti, gnz, fiki, kn le belle monturine, il lr dio di mrd sempre in bkk, la sopraffazione, e soprattutto kose vekkie kome il mondo presentate kome nuove. Se st tlment idiote da kaskarci ankora 1 volta, se st tlmnt rinkretinite da sbavare x qst koglioncelli ke, x altro, al 1° kasino vero skppn kome konigli, beh, nn sppm ke dirvi; se, poi, st kosì fave persino da komprare qll rivista ke v vrrbb trasformate tutte in oggettini pronti per essere preparate al trombìo prokreativo (e zitte snnò iddìo vi fùrmina) kn la skusa delle mode, del tatuaggino e del panta a vitabassa ke + bassa nn si può, kominciate a (ri)fare 1 kosina ke, tempo fa, tnt e tant vs koetanee facevano: ribellatevi.

Ché, per fortuna, non siete tutte quante così. Ché, nonostante tutto, di ragazze di quindici o diciassett'anni che invece di comprare Topa Ghèrl lasciano un sabato sera di soldini per darli a dei compagni denunciati perché attaccano dei manifesti, mentre i ragazzotti valorosi che pestano e devastano viaggiano non solo a piede libero, ma ben protetti dagli sbirri, ce ne sono ancora, e tante. Lasciatela nelle edicole, quella rivista del cazzo che vi imbruttisce come ragazze e come esseri umani; ché la bellezza non è nell'essere al top di lorsignori, ma nell'essere se stesse e nel gridarlo al mondo.

Nella foto: una delle immagini pubblicate da "Top Girl" ritoccata da alcuni militanti antifascisti.



martedì 17 marzo 2009

Ratescant in pace




Magari sbaglio, perché è una cosa che -sicuramente- tocca tutti quanti; chi più chi meno, ma ci dobbiamo fare i conti (in senso traslato e in senso proprio). Di che cosa sto parlando? Ma della famosa crisi, ovviamente; tanti bei conti in tasca, abitudini -almeno così si dovrebbe- più morigerate, le targhe automobilistiche che prima cambiavano una lettera al mese e che ora la cambiano ogni quattro o cinque, gli hard discount non più frequentati soltanto da immigrati...insomma, tanti segnali, piccoli e grandi, che 'sta crisi c'è sul serio, e la si vede.

Detto questo, a me quasi sta cominciando a garbare, e non poco. Sarà senz'altro perché il sottoscritto, in crisi (finanziaria, monetaria, economica eccetera) c'è sin dall'età delle figurine e delle prime, timide pippette: una consuetudine inveterata allo sparagno, all'accontentarsi a volte di una bella giornata e d'una matita, ai vestitacci del mercatino. Singolarmente, la mia crisi eterna si è venuta almeno un po' a mitigare proprio nel momento in cui il mondo spendi-e-spandi s'è ritrovato a dover meditare seriamente sulla grande, enorme importanza di avere dodici telefonini in famiglia, cinque macchine per quattro persone, le vacanzine alle Mardive, le settimane bianche con annessa frattura esposta tibia e perone, e diverse altre cosine tolte le quali una famiglia in tempi di dopiguerre avrebbe campato non bene, non agiatamente, ma addirittura da nababbo. Così è, ed anche se sento già nell'aria parolette magiche tipo ragionamento semplicistico, debbo confessare che, ultimamente, mi sta riuscendo di tornare a certe semplicità che, per un motivo o per un altro, avevo perso; adelante a la reconquista, e pure con mucho gusto.

Ci sono poi, perché no, le cose divertenti in questa crisi. Quelle, insomma, che fanno godere i' popolo. Certo, le godurie del popolo vanno prese sempre con le molle, perché a volte gode nel linciarti, nel metterti alla gogna, nel bollarti come mostro; però non bisogna neppure rifiutarli a priori, 'sti godimenti popolari. In un modo o in un altro sono sempre dei segnali, e spesso ben precisi; più precisi di tante approfonditìssime anàlisi. A meno che non siano pompate ad arte (come nel caso della sicurezza, fomentata già da ben prima dell'attuale crisi) -cosa sempre possibile e grama-, le reazioni popolari, se genuine, sono un'indicatore che sarebbe sbagliato sottovalutare o, peggio ancora, snobbare.

Così, ad esempio, bisognerebbe tenere nel giusto conto l'autentica goduria che tutti quanti (anche quelli che hanno fatto finta di no) hanno e abbiamo provato nel vedere gli eleganti giovinotti e le signorine in taièr sortire dalla Lehman Brothers con in mano gli oramai celeberrimi scatoloni di cartone; addio stipendi da favola (erogati per non fare generalmente una sega, peraltro), addio appartamenti prestigiosi a Manàtta (manàtte ner muso!), addio squòsh, addio Botox, addio ferrarine nel box (che fa pure la rima). Sembra che un manipolo di giòvini spose di ex manager americani abbia messo su un blogghe, nel quale le suddette si lamentavano della povera vita che si sono ritrovate a dover fare da un giorno all'altro, vista la decurtazione satanica degli stipendi dei consorti e, in frequenti casi, anche la decurtazione a zero. Il blog, inutile dirlo, è stato fatto chiudere a tonnellate di insulti. Quando ho visto quella scenetta in tivvù ci ho provato a dirmi: ma poveracci, ma poverine, sono pur sempre gente che si ritrova senza lavoro. Poi ho ripensato al cinquantaduenne che perde un posto alla fresa per milleduecento euro al mese; ho ripensato a una città delle dimensioni del Cairo che potrebbe essere riempita soltanto coi precari di questo paese; ho ripensato alle finanze creative, alla niù ecònomi e a tutto il resto e mi sono messo a berciare come un assatanato, stappando una bottiglia di spumante del Lidl (euro 1,45); e ancora doveva arrivare la vicenda di quel tizio della megatruffa del millennio, quello dello schema Ponzi, i' Madòffe insomma.

Gli scatoloni della Lehman Brothers mi servono oramai per prendermi certe carognesce soddisfaziuncielle, specie con dei tipini ben vestiti per i quali una persona è definita dalla giacchina di marca, dalla camicina Tommy Hilfiger, dalle scarpette da 200 euro a paia. Mi è capitato non molto tempo fa, peraltro con un poveraccio che deve vestirsi a quella maniera perché fa il portiere d'albergo ed al quale voglio tutt'altro che male anche se dice d'essere di destra. Appena varcata la soglia l'ho diacciato: Bàdalo lì bellino! Ti ci manca lo scatolone e tu sembri uno della Lèman Bràderz! E' rimasto lì, con la mano alzata in un cenno di saluto, l'aria inebetita. Mi pento amaramente. Faccio pubblica ammenda. Ma m'è venuto spontaneo.

Eh sì, potremo dire d'aver visto cose che voi umani. D'aver visto persino le agenzie di rating. Ve ne ricordate? Fin dai tempi di Everardo Dalla Noce, ex cronista sportivo che tentava di “umanizzare” Piazza Affari (detta ora, familiarmente, piazza Affarinculo), non passava giorno che dai tiggì, dai giornali e delle agenzie di stampa non arrivassero le notizie sul rating: quella parola che tutti sentivano, e che magari spappagallavano dal pizzicagnolo, al bar o dalla parrucchiera, e che nessuno -naturalmente- aveva la minima idea di che cosa esattamente significasse. E pensare che è presto detto: il rating altro non è che la valutazione di solvibilità di qualunque società emetta delle obbligazioni. Ma certo, dire agenzia di valutazione della solvibilità è troppo lungo e non è “in”; meglio il rating. E poiché, com'è noto, lo stato da un po' di tempo è diventato un' “azienda” (la famosa “azienda Italia”), giù a farsi ratinghizzare a più non posso. Sembrava il campionato di calcio: c'erano le promozioni (in serie AA1 o roba del genere), le retrocessioni (fino alla AA3: al di sotto si era nel terzo mondo o giù di lì), la metà classifica. Alla vigilia di ogni responso, il paese sembrava stare col fiato sospeso: saremo stati promossi? Relegati? Stabili? Il tutto, chiaramente, continuando a non capirci un beatissimo cazzo di niente. Il marito tornava a casa dal cantiere, e la moglie lo accoglieva festante: “Amore! E' s'è stati promossi n'i' ràtinghe! T'ho fatto i fagioli all'uccelletto che ti garbano tanto!”; oppure: “Oh te, pulisciti i piedi che tu se' zozzo come un magnano, 'e ciànno retrocessi n'i' ràtinghe e stasera 'e tu t'accontenti di tonno e fagioli, la cena de' becchi.”

Preposte alle sentenze (inappellabili) sul rating erano principalmente due apposite agenzie ammeregàne dai nomi stravaganti. Una era la Moody's (pronunce correnti: mùdiz, mòdisse, mùdisse, anche mùdi), che più che un'agenzia di valutazione finanziaria faceva pensare a languidi gruppi vocali, rotonde sul mare, dischi che suonano e settembre poi verrà ma senza sole; l'altra era la Standard & Poor's, che ha singolarmente anticipato quel che sarebbe successo dopo (lo standard attuale, infatti, è che s'è tutti pòeri). Imperversavano. C'era la febbre del rating, di fronte alla quale quella del sabato sera impallidiva, sbiadiva, scompariva. Un responso negativo di Moody's era una catastrofe nazionale, un'onta, una vergogna che gettava nello sconforto più nero anche chi seguitava imperterrito a ignorare cosa fosse il rating; un responso positivo si trasformava in una specie di vittoria ai mondiali. Avendo vissuto per un po' all'estero, quando mi ci trovavo avvertivo talora un senso di vuoto, la sera, guardando i telegiornali di France 2, di France 1, della Tv Svizzera Romanda, di Arte: non c'era il rating. Nessuna notizia da Moody's. Come se non esistesse. Eppure, accidenti, vivevo in paesi che pure avevano uno stato e un sistema finanziario; ma non se lo facevano valutare dalle agenzie, o comunque giudicavano i relativi responsi come cose riservate agli addetti ai lavori e non come notizie da dare in pasto la sera, tra la strage sull'autostrada e l'ultima love story di Briatore.

La crisi s'è (finalmente) portata via Moody's e il rating. Non che, probabilmente, i responsi non vengano ancora emessi, anche se le relative notizie compariranno sul Sole 24Ore e sugli inserti finanziari dei vari quotidiani (quei malloppi di carta che vengono, nel 97% dei casi, gettati nel cestino della carta straccia circa 3,2 secondi dopo l'acquisto del giornale, e che vengono ritrovati a migliaia abbandonati sui sedili dei treni): semplicemente ora s'ha altro a cui pensare. Il paese in cui hanno sede Moody's e Standard & Poor's avrebbe ora come ora bisogno di agenzie di smerding ed è tornato ai salvataggi statali dopo decenni in cui ha imposto a tutto il mondo di sregolare, di privatizzare, di “incentivare i mercati”; e tutti, ovviamente, dietro come cagnolini. E così tutti, oramai, si sono scordati del rating. Si può tornare, finalmente, a ballare Nights in White Satin senza pensare a un'agenzia finanziaria.


venerdì 13 marzo 2009

Ci rifiutammo tutti



Ero seduto su un moletto, le gambe ciondoloni, gli spruzzi sui pantaloni. C'era una bottiglia vuota, e non sapevo più neanche di che cosa fosse stata piena; sarà stato di gennaio, sì. Il gennaio del 2002. Erano le tre di notte, non faceva freddissimo; mi accendevo una sigaretta dietro l'altra, scientificamente, mi sembrava quasi di accenderle schioccando il dito. Ogni tanto una crisi dei miei tic; e i miei tic consistono spesso nell'impulso a fare qualcosa che non si può proprio fare, specie se a rischio della vita. Se la crisi mi prende quando sono appoggiato al parapetto di una nave, sta nel fare movimenti, gesti, salterelli per buttarsi di sotto; così su un ponte, così dovunque in alto. Su quel molo consisteva nell'appoggiarsi con le mani a terra, e fare leva per scivolare in mare. Quando ho una crisi di tic, mi hanno detto talvolta che sono uno spettacolo; tra smorfie, denti digrignati, balletti, contrazioni e tutto il resto. Per questo evito di sporgermi, di mettermi a sedere su muretti che danno sul vuoto, di avvicinarmi alle balaustre, alle ringhiere. Quello che chiamo il mio orrore del vuoto non è soltanto la cosa in sé; è la consapevolezza che mi prenderanno i tic, e possono essere pericolosissimi. E' una cosa che ho fin da quando ero bambino piccolo; avrò avuto cinque o sei anni.

Ci vuole uno sforzo di lucidità per resistere. Bisogna guadagnarsela e aiutarsi, specie quando si è briachi come autocisterne, specie quando si vivono certi momenti della propria vita; e in quei momenti, un porto è un luogo cui si finisce sempre per andare. Specie quando ci si abita, a due passi, a portata di barcollo. Bastava arrivare al ponticino e girare subito a sinistra in via del Molo Mediceo; non c'era mai nessuno. Solo una volta due a baciarsi, che non si sarebbero accorti nemmeno se fosse loro arrivata addosso la corazzata Potëmkin vestita da Maga Maghella; tirai oltre senza guardarli. Non c'era nulla da guardare, fino al posto dove andavo a mettermi a sedere. Era quasi sempre vicino alle motovedette dei Carabinieri. Di lì si vedeva tutto il porto vecchio, i traghetti fermi, le barche a perdita d'occhio; e mi sentivo d'abbracciare tutto quanto. Se andavo indietro, e indietro, e indietro, e ripensavo a cosa m'aveva messo in tutto questo, ricordavo un'espressione che mi veniva rivolta da ragazzino; “cane d'un livornese”, mi dicevano. Con mia madre dell'isola d'Elba, e mezza vita passata da quelle parti, il mio accento è sempre stato strano. A Firenze mi pigliavano per livornese, a Livorno per fiorentino. Poi mi sono perfezionato ed è intervenuta la mia personale barriera linguistica. Quando ancora metto piede a Livorno so parlare in livornese, fin dal bivio della FI-PI-LI, perché mi metto a pensare in livornese. Al ritorno, allo stesso bivio ricomincio a pensare in fiorentino. Ma sono cose strane, lo so. Io ve lo dico sempre che nella mia testa ci sono cose bizzarre, non dite che non vi ho avvertito e soprattutto, poi, non fate gli indignati perché, tanto, della vostra indignazione non me ne importa un cazzo.

Cane d'un livornese! E andavo indietro, sempre più indietro; perché un ricordo, un ricordo qualsiasi, impegna la mente; e se la mente s'impegna, i tic arretrano assieme al tuo culo che s'allontana dal bordo del moletto, dalla possibilità di finire in acqua, a gennaio, briaco; senza nessuno intorno, pronto a andare a fondo. Intervenivano, spesso, i compagni. I compagni non c'erano, ma me li fabbricavo. Tutta una serie di personaggi, perlopiù animali antropomorfi, con cui mi mettevo a chiacchierare sottovoce; ed era un dialogo fitto, un bisbiglio continuo sui fatti del giorno, su come andare avanti, su quale pretesto inventare, su quando e come sarebbe arrivata l'alba. Non era l'alba del giorno dopo. Di albe del giorno dopo avevo fatto la collezione. Mi si vedeva arrivare a un bar qualsiasi, il primo aperto, a mangiare come un bisonte. Sono arrivato a bermi, dopo fatta una colazioncina del genere, quattro ponci uno dietro all'altro; poi arrivavo il sole e scrivevo cose dai titoli mica male per i cestini della carta straccia, tipo Una notte di sir Aldingar.

E ci rifiutammo tutti, quella notte.

Io e i miei compagni s'era impegnati a disquisire di qualcosa. Una partita di calcio, forse; o una donna immaginaria. Oppure d'una povera crista sola in un letto, senza più nemmeno a chiedersi dove fossi, o forse sì, e fors'ancora a viversi le sue disperazioni senza che si potesse oramai più abbattere il muro che le divideva dalle mie. Oppure, ancora, a scambiarsi ricette di cucina; dev'essere stato allora che ho inventato la mia “famosa” pasta alla carbonara, un delirio con la tequila infilata nelle uova da sbattere, con la pancetta cotta in mezzo litro di birra, con due quintali di peperoncino. E chissenefrega, dio merda; vadano affanculo, e per il culo d'un elefante diarroico, i puristi della carbonara e della maiala di su' ma'. Oppure, infine, si chiacchierava di quel che si vedeva davanti a noi, io e i miei compagni, gatti per l'aria, formichieri blesi, un buffo coso a pera col ciuffo, un pesce femmina dagli occhi belli. Sì, ci rifiutammo tutti, quella notte di gennaio, di credere che fossero lampare. Erano anche loro dei nostri compagni. Erano tutti lì a dirci che eravamo vivi, che ero vivo, e che non bisognava buttarsi nel mare; né per uno stronzo di tic, né per un male che ti rodeva dentro, né per nessun'altra ragione al mondo. E me ne voglio ricordare oggi, quasi all'alba, lontano dal porto, lontano da quegli anni. Ce l'ho lasciata anch'io qualche cosa sul porto di Livorno, ma non credo affatto sia il cuore; più probabilmente ci ho lasciato me stesso, e tutto quanto, com'ero. C'è ancora, là seduta su quel moletto, un'ombra. Puzza d'ogni cosa. Parla fitta con i suoi compagni, e quando le luci s'accendono sul mare non crede che siano lampare, ma la meraviglia ondeggiante di tutti i fili della vita.

martedì 10 marzo 2009

Una gita sull'Aar



Me ne stavo con la mia barchetta nel punto più imo del fiume Aar, più noto come il fiume di Berna, leggendo le Eèe di Esiodo e grattandomi pigramente l'epa, quando ripensai preoccupato al mio conto corrente presso lo Ior, che stava pericolosamente assottigliandosi. "Mio Dio!" -esclamai-, "dovrò chiedere ajuto alla regina Ena di Spagna, altrimenti mi vedrò costretto ad affogarmi nell'Ema! Ma, in quel momento, un'allegra e graziosa ila passò gracidando e mi distolse da quei neri pensieri, anché perché mi trovavo già sull'Aar e quindi, casomai, avrei potuto già buttarmi là dentro senza dover ricorrere al fiume del Galluzzo. Così facendo, la mia barchetta s'arrovesciò, ma giunse a salvarmi un'inia, un simpatico delfino di fiume che di colà passava proveniente chissà come dalle rias spagnole: sicuramente l'aveva mandata Era, forse addirittura dalle acque dell'Era o dell'Omo! Saltellando allegramente nell'Aar in groppa all'inia, ebbi alfin più rosei pensieri: ci avrebbe pensato Opi a farmi nuotare nell'abbondanza e, magari, a farmi incontrare l'amore nella persona di una squisita e compìta giapponesina cui avrei volentieri slacciato l'obi del kimono. Ma mentre ero assorto (e quindi non corpèvole) in quei dolci e voluttuosi pensieri, l'inia andò a incagliarsi in un ciuffo maleolente d'ari affioranti; fui sbalzato e mi ritrovai sulla riva dell'Aar dove fui raccolto da un pietoso norvegese di nome Olav. Gesù, che giornata movimentata sull'Aar !


Della mia autentica e bruciante passione per le parole crociate, i rebus, le sciarade, gli enigmi e compagnia bella non ho sicuramente mai fatto mistero a nessuno; poiché non mi riuscirà mai parlarne compiutamente, questa storiella-nonsense vuole essere un omaggio a tale passione pluritrentennale; ma ha anche un preciso valore (a)sociale. Essa, infatti, è volutamente costruita utilizzando una serie di celeberrime parole che non si trovano in uso che nei cruciverba, e che ritornano da 950 anni circa in ogni fascicolo settimanale, quindicinale o mensile delle varie riviste. Si tratta di parole perlopiù molto brevi, variamente definite, che servono generalmente da "tappabuchi" nelle parti morte degli schemi liberi. A parte l'uso locale di alcune di esse (certamente al Galluzzo, che è una frazione di Firenze, tutti sanno cos'è l'Ema, e poco in là, a Ponte a Ema, è nato Gino Bartali e soprattutto abita Daniele del CPA; ma sicuramente tale rio -toh, a proposito!- sarebbe stato meno noto a Sondrio o a Carlentini se non fosse stato per la Settimana Enigmistica), il resto sono parole morte, utilizzate soltanto nelle riviste enigmistiche; persino il celebrato Bartezzaghi non se n'è mai privato. Col mio raccontino-nonsense ho inteso finalmente dar loro vita, consegnarle all'eternità di Google e alle sbirciatine di Echelon (per il quale, ovviamente, inia diverrà, da un innocuo e simpatico delfino fluviale, la pericolosa organizzazione terroristica INIA -International Nazist Islamocommunist Association-) e quindi, finalmente, immetterle nell'uso. Quante ancora di queste parole esisteranno, costrette a passare la loro sotterranea vita tra gli incroci obbligati, le cornici concentriche e le parole crociate ad anelli? Salviamole!

Nota Bene. La povera regina di Spagna Ena, moglie di Alfonso XIII, oramai è stata sloggiata da ENA, sigla della famosa École Nationale d'Administration (quella degli
énarques) che forma i funzionari dello stato francese. Era è assai più spesso il nome greco di Giunone che il rio toscano che forma la Valdera e passa per Pontedera, provocando così una crisi di gelosia tra fiumi; ma anche l'Ema comincia a non passarsela più tanto bene, spesso sostituito dal prefisso greco per "sangue". Le rias e l'inia non corrono alcun rischio, così come gli ari (detti anche gicheri, gigari eccetera) -pianticelle alquanto puzzolenti e anche non poco tossiche-, l'obi, la dea Opi, il norvegese Olav. Si giunge poi agli immarcescibili, agli imprescindibili, agli immutabili: le Eèe di Esiodo, l'aggettivo imo, la "raganella arborea" e l'Aar. Però, un giorno o l'altro, qualcuno dovrà andare a dire ai cruciverbisti che, in Svizzera, e massimamente a Berna, il fiume in questione si chiama Aare. Nella foto lo vediamo proprio attraversare Berna: si avvera il sogno di ogni cruciverbista, avere finalmente un'immagine di quel fiume, e la conferma che esiste (seppur proditoriamente privato della sua legittima "e" finale), che passa veramente per la capitale elvetica e che non è un'invenzione del Dott. Prof. Ing. Comm. Grand'Uff. Lup. Mann. Giorgio Sisini, conte di Sant'Andrea!

mercoledì 4 marzo 2009

Notte di marzo


Mi sono messo sull'uscio di casa, stasera, a fumare una sigaretta. O meglio, mi sono spostato un po' sulla sinistra, da dove si vedono i tre pini del giardino sovrastante. L'ingresso dà su uno scivolo condominiale con una fila di box; ma il tetto dei box sono quel giardino, e il tetto della mia vita vorrebbe assomigliare un po' a quel cielo buio dove si rincorrono le nuvole, e che mi posso limitare soltanto a guardare col fumo che mi esce dall'incrocio tra l'indice e il medio.

Non fa più freddo, finalmente. Magari tornerà; ma il riscaldamento stasera è chiuso, e fuori si comincia a stare bene senza più il giubbotto pesante. Marzo è tra i mesi che adoro. Detesto l'inverno in tutti i suoi aspetti. Maledette le coperte, i piumoni; maledetto quel tristo dicembre con le sue pseudo-giornate che finiscono alle quattro del pomeriggio, con le sue feste, con le sue brume. E maledetto soprattutto febbraio, ché ringrazio i miei d'aver trombato al momento giusto per non farmici nascere. Mi sarebbe dispiaciuto dover dire che ho un anno in più in mezzo a quel mese idiota, d'invernaccio e d'invernino, senza mai una scusa per essere ricordato. M'è toccata una fine di settembre, che a volte è ancora calda, o tiepida, a condizione di non stare in Svizzera.

Marzo è la fine di tutto questo. A marzo si ricomincia a vivere sul serio, si può andare a fumare fuori senza trasformare il parallelepipedo ipogeo in una versione casereccia di una camera a gas, si può lasciare il giubbotto all'attaccapanni. Domani pioverà? Sì, ma a marzo tutto cambia, tutto è mobile. Di notte è tutto un rincorrersi, lassù; la nuvola cane, la nuvola gatto. Ed è una notte senza luna, questa; cerco di immaginarmela. Nella testa si allungano le giornate, fino al momento meraviglioso in cui scatta l'ora legale.

A noialtri odiatori dell'inverno basta poco per addentare un momento di felicità, con una sigaretta dozzinale tra le dita; basta che l'inverno se ne vada. Ci contentiamo addirittura della percezione della sua partenza, anche se alla sua fine mancano ancora diciotto giorni. Stolido figlio di puttana, lo sappiamo che tornerai; ma intanto va' in Argentina, o in Australia. Raus. Presto si toglierà il piumone dal letto; presto si tornerà a fare l'amore tutti scoperti, sudati. Presto torneranno le amiche zanzare, gli occhiali da sole, le cochecole ghiacciate, le comari fuor dall'uscio la sera, a San Bartolo a Cintoia, sulle seggiole a ragionar d'un niente secolare.

E io? Me ne stavo a fumare, tranquillo, senza dover rendere conto d'alcunché a niente, e a nessuno. I tre pini stavano fermi, e me li facevo ondeggiare con la mente, a mio piacimento. Forse chiudevo gli occhi, che mi prendessero, mi accarezzassero il tempo Chronos e il tempo Wetter. Ché marzo è il ritorno, si può fare ogni cosa a marzo. Sorridere largo, e davanti non c'è un'anima viva. Ci sono le porte dei box, tutte chiuse. Dalle finestre si sente qualcosa che l'immaginazione fa presto a trasformare in musica, anche se è la voce gracchiante d'un calciatore o d'un giornalista; e marzo s'addormenta sulla periferia, si rimbocca la coperta più leggera e comincia a russare di primavera.

Luna impudica, al tuo improvviso lume
Torna, quell'ombra dove Apollo dorme,

A trasparenze incerte.

Il sogno riapre i suoi occhi incantevoli,
Splende a un'alta finestra.

Gli voli un desiderio,
Quando toccato avrà la terra,

Incarnerà la sofferenza.

Giuseppe Ungaretti, "Notte di marzo", 1927.

Un grido, un insulto,
una voce che urla – Martina -
di marzo, di notte, per strada.

Martina che scappa
incerta sui tacchi, fra incerti
lampioni e pozze d’acqua.

All’angolo il vento l’abbranca,
la fruga violento, le strappa
le vesti, la bacia
dentro la bocca.

Martina stordita
si arrende alla danza,
pazzia dell’altrove, del vuoto.

Martina, le braccia dell’uomo
che corre a salvarti
ti tengono al suolo, Martina.

E il vento rabbioso,
menando colpi di coda
ai muri dell’alba,
sparisce ingoiato
dal giorno che avanza.


Riccardo Mannerini.