domenica 4 febbraio 2024

La canzone dell'Otto Marzo

 



Esattamente non si è mai saputo da che cosa sia nata, o comunque derivata, la festa dell’otto marzo, quella che da decenni è comunque la “festa della Donna” o comunque la si voglia chiamare e celebrare con o senza le mimose. Secondo le più accreditate ricerche storiche, pare che a San Pietroburgo, l’8 marzo 1917 (cioè pochi mesi prima della Rivoluzione d’Ottobre), alcune donne manifestarono per chiedere la fine della guerra; ma si ignora se si trattasse di un otto marzo secondo il vecchio calendario Giuliano (quello per cui la Rivoluzione d’Ottobre avvenne in realtà il 7 novembre), o se sia una data già riportata al nuovo calendario. Sempre secondo tali ricerche, fu a Mosca nel 1921 che fu stabilito che l’otto marzo divenisse una non meglio precisata “Giornata Internazionale dell’Operaia”. Fatto sta, però, che tutte queste accurate ricerche storiche non tengono conto che tale giornata, in quella data, fosse festeggiata negli Stati Uniti già nel 1909, in altri paesi europei a partire dal 1911 e, dal 1922, persino in Italia. Ne sono state dette realmente di tutte e di più, compresa la leggenda (perché di una autentica leggenda si tratta) di un incendio che, l’8 marzo 1911, avrebbe colpito una non meglio precisata fabbrica tessile, la “Cotton”, causando la morte di numerose operaie. Una fabbrica “Cotton” non è mai esistita; prova ne sia che, nella leggenda, tale fabbrica veniva situata in praticamente tutte le città degli Stati Uniti, da New York a Chicago, da Detroit a una qualche cittadina del Midwest. Anche nella leggenda, però, si tendeva a considerare l’origine dell’otto marzo come derivata da un qualche tragico avvenimento che avesse avuto come vittime delle donne lavoratrici; e, con ancora maggiore probabilità, tutto questo ebbe ad incrociarsi -come avviene non di rado nelle leggende popolari- con un avvenimento reale e, purtroppo, ben documentato, avvenuto a New York nel marzo del 1911, ma non l’otto. Il venticinque. Un giorno terribile in cui si ebbe realmente un disastroso incendio che colpì una fabbrica tessile, o piuttosto un enorme laboratorio, causando la morte di 146 persone, in stragrande maggioranza donne. Fino agli attentati alle Torri Gemelle dell’11 settembre 2001, si è trattato della singola tragedia che abbia mai causato a New York il maggior numero di vittime.


25-3-1911: L'incendio della Triangle Shirtwaist Company, New York.

La fabbrica, o grosso laboratorio, era situata ai tre piani più alti di un palazzo di dieci piani (ancora esistente), l’Asch Building all’intersezione tra Greene Street e Washington Place, poco ad est del Washington Square Park. Si chiamava, quella fabbrica o laboratorio, Triangle Shirtwaist Company ed era specializzato nella produzione di camicette femminili molto alla moda a quell’epoca, appunto le cosiddette shirtwaist. Si trattava di camicette molto ampie nella parte superiore, ma strettissime alla vita e munite di un cinturino che accentuava il “vitino di vespa”. Era proprietà di due imprenditori appartenenti alla borghesia ebraica, Max Blanck e Isaac Harris; la fabbrica occupava circa 500 lavoratori e lavoratrici, in massima parte giovani donne immigrate dalla Germania, dall’Italia e dall’Europa dell’Est.



Dire “giovani donne”, però, non rende perfettamente l’idea. Il laboratorio era, come molte altre fabbriche tessili newyorkesi, uno sweatshop, dove si lavorava in condizioni terrificanti e con salari da fame, controllati e controllate con un rigidissimo orologio di produzione. Le operaie della Triangle Shirtwaist Company erano quasi tutte giovanissime; alcune avevano addirittura 12 o 13 anni, e tra le vittime dell’incendio si conta anche un’operaia dell’età di 11 anni. Lavoravano con turni di quattordici ore per una settimana lavorativa che andava dalle 60 alle 72 ore. Un’operaia, Pauline Newman, dichiarò che il salario medio per le lavoratrici andava dai 6 ai 7 dollari a settimana. Al tempo stesso, e qui è possibile riallacciarsi ancor di più all’origine operaia dell’otto marzo, la Triangle Shirtwaist Company era divenuta famosa già molto prima del 1911: il massiccio sciopero delle operaie tessili iniziato il 22 novembre 1908 (ed ecco, appunto, il 1908…), conosciuto come Protesta delle Ventimila, era iniziato con una manifestazione spontanea proprio delle operaie della TSC. In seguito allo sciopero, il sindacato delle operaie tessili per abbigliamento femminile, la International Ladies’ Garment Workers’ Union, negoziò un contratto di lavoro che copriva quasi tutti i lavoratori e lavoratrici (lo sciopero durò ben 4 mesi); ma la direzione della TSC rifiutò di sottoscriverlo.

Le condizioni di lavoro erano quelle tipiche del tempo: tessuti infiammabili erano immagazzinati, per non dire accatastati, per tutta la fabbrica. Scarti di tessuto sparsi per i pavimenti, con gli uomini che lavoravano come tagliatori che spesso fumavano. L’illuminazione consisteva in luci a gas aperte, e c’erano pochi secchi d’acqua per spegnere gli incendi -che erano, ovviamente, frequenti. Il pomeriggio del 25 marzo 1911 iniziò uno di questi incendi, all’ottavo piano; ma, quella volta, sfuggì completamente di mano e avvolse ben presto tutti i piani superiori dello stabile occupati dal laboratorio. Morirono, come detto, 146 tra operaie e operai.


L'interno della fabbrica Triangle devastato dalle fiamme.

Scorrendo l’elenco delle vittime, ci si accorge che la maggioranza di esse erano giovani donne, e spesso ragazzine, di origine perlopiù italiana e dell’Europa orientale. Queste ultime erano tutte ebree, sfruttate da due padroni ugualmente ebrei a riprova che, nel capitalismo selvaggio, le questioni etniche e religiose c’entrano assai poco per non dire assolutamente niente. Molte vittime furono identificate a fatica; risulta che la più giovane, Mary Goldstein, aveva 11 anni di età. Poiché la fabbrica occupava gli ultimi tre piani di un palazzo di dieci, sessantadue delle vittime morirono nel tentativo disperato di salvarsi lanciandosi dalle finestre, non esistendo altra via d’uscita. I proprietari del laboratorio, Max Blanck e Isaac Harris, al momento dell’incendio si trovavano al decimo piano; tenevano chiuse le operaie per paura che rubassero o facessero troppe pause; si misero in salvo attraverso una scala di sicurezza esterna, e lasciarono morire le lavoratrici e i lavoratori. Ciononostante, al processo che seguì gli eventi, risultarono -naturalmente- assolti, L’assicurazione liquidò loro 445 dollari per ogni dipendente rimasto vittima dell’incendio; alle famiglie di questi ultimi furono liquidati esattamente 75 dollari. Da qui, dunque, sappiamo che l’undicenne Mary Goldstein valeva 75 dollari, così come la sedicenne Anna Altman, la sua coetanea Vincenza Belatta, la diciassettenne Celia Eisenberg, la quattordicenne Rosalia Maltese, ed anche la quarantottenne Provvidenza Panno, che aveva due figlie operaie nella stessa fabbrica.

Alcune delle operaie sfracellate al suolo.

L'operaia Jennie Franco, 15 anni. Fu tra le vittime dell'incendio, 


Tra gli operai, uomini, che avevano per un periodo lavorato alla Triangle Shirtwaist Company, c’era anche Morris Rosenfeld.


Morris Rosenfeld (1862-1923)

Non era più un ragazzino, Morris Rosenfeld. Era nato nel 1862, e nel 1911 aveva quindi quasi quarant’anni. Era nato in Polonia, all’ora parte dell’Impero Zarista russo, ed era emigrato negli Stati Uniti, senza un soldo, per sfuggire alla terribile leva militare zarista (che durava venticinque anni). Era stato educato alla ribellione fin dall’infanzia, da suo padre; come tutti gli ebrei polacchi e dell’Europa orientale, la sua lingua materna era lo yiddish. Lo yiddish è, in realtà, un dialetto tedesco medievale con una consistente parte del lessico derivata però dall’ebraico, e scritta in una forma leggermente modificata dell’alfabeto ebraico.

Morris Rosenfeld era e rimase un grande poeta proletario; di fede anarchica; scrisse e compose esclusivamente in yiddish. E’ stato considerato come il poeta del ghetto, ma, soprattutto, dello sweatshop; per vivere in America, infatti, aveva lavorato in tutta una serie di tali laboratori con paghe da fame e con l’ossessione dei controlli e del caporeparto munito di orologio, per quattordici ore al giorno. In tutti gli Stati Uniti, spostandosi qua e là. Nel 1908, e riecco quel fatidico anno, lavorava proprio alla Triangle Shirtwaist Company al momento dello “Sciopero delle Ventimila”, per le quali componeva poesie e canzoni di solidarietà. Tra di esse, quella che sarebbe divenuta la sua più famosa, Mayn rue-plats (scrivo in trascrizione), vale a dire: “Il mio luogo di riposo”, o meglio, “La mia tomba”, “Il mio sepolcro”.

Mayn rue-plats è una canzone dove si dice che la fabbrica sarà la sua tomba, come lo fu per le sventurate operaie e per i lavoratori della Triangle Shirtwaist Company. Scritta per le operaie di quella fabbrica, fu, dopo l’incendio del 25 marzo 1911, associata automaticamente a quella tragedia, divenendo come il suo inno, la sua canzone. Ed è esattamente per questo motivo che, in seguito, è diventata, negli Stati Uniti e dovunque ancora si parli e si intenda lo yiddish, la canzone dell’Otto Marzo. Non è esagerato affermare che, alla costituzione e alla formazione di quella festa nel suo significato più profondo, abbia contribuito non poco. Scritta da un uomo che condivideva tutti i giorni il destino, le condizioni di vita, le aspirazioni e le speranza di quelle povere persone immigrate, donne e uomini, che lavoravano nel più totale sfruttamento e che morivano nelle fabbriche, non solo per incendi o altre catastrofi.

Mi rivolgo qui, se leggeranno, alle donne con cui, proprio stamani, ho voluto cantare questa canzone (non completamente: ho saltato una strofa) in casa di Lucia F., per ricordarla di fronte all’urna contenente le sue ceneri, in un momento di memoria e condivisione proprio in quella lingua di cui conosceva ancora qualche parola, e che forse rappresentava la sua lontana provenienza. Quello che segue è il testo in yiddish, accompagnato da una traduzione. Grazie a tutte voi e un abbraccio.



Nit zukh mikh vu di mirtn grinen,

Gefinst mikh dortn nit, mayn shats.

Vu lebens velkn bay mashinen,

Dortn iz mayn rue-plats,

Dortn iz mayn rue-plats.


Nit zukh mikh vu di feygl zingen,

Gefinst mikh dortn nit, mayn shats.

A shklaf bin ikh, vu keytn klingen,

Dortn iz mayn rue-plats,

Dortn iz mayn rue-plats.


Nit zukh mikh vu fontanen shpritsn,

Gefinst mikh dortn nit, mayn shats.

Vu trern rinen, tseyner kritsn,

Dortn iz mayn rue-plats,

Dort iz mayn rue-plats.


Un libstu mikh mit varer libe,

To kum tsu mir, mayn guter shats.

Un hater af mayn harts dos tribe,

Un makh mir zis mayn rue-plats,

Un makh mir zis mayn rue-plats.


(Interpretata in inglese da June Tabor, 1988)

Non mi cercare nel mirteto,

Non mi cercare là, amore mio.

Dove le vite ai macchinari

Si spezzano nel logorio,

Quello là è il sepolcro mio.


E né tra il canto degli uccelli,

Non mi cercare là, amore mio.

Ma tra gli schiavi incatenati,

Tra loro, sì, ci sono anch’io.

Quello là è il sepolcro mio.


Non mi cercar tra le sorgenti,

Non mi cercare là, amore mio.

Ma tra i digrigni in mezzo al pianto,

Quello è il mio solo zampillìo,

Quello là è il sepolcro mio.


E se mi ami d’amor vero,

Allora vieni, amore mio.

E poni fine a quel dolore

Che stringe e serra il cuore mio,

Dolce sarà il sepolcro mio.



martedì 9 gennaio 2024

Sottoverga

 


Faccio una fatica del diavolo a scrivere, anzi, a digitare. Non ci vedo, per le cateratte oculari che ancora mi devono operare. Sono annebbiato cronico, ancor di più di quanto io sia stato costantemente annebbiato nella mia vita; ho raggiunto, finalmente, l’età della prostata certificata, del terzoetatismo militante, del “signore, si vuole sedere”? E mi siedo, budello d’eva se mi siedo. Ringrazio il ragazzo o la signorina gentilissima. Sono, devo dire, piuttosto educato anche se, alle volte, qualche rimasuglio di giovanile inciviltà mi rimane appiccicato. Ieri, ad esempio, in compagnia di qualche giovane amico, sono srato parecchio inurbano nei confronti di una ragazzotta che, su un marciapiede del centro di fronte al vecchio cinema teatro “Apollo”, protestava perché camminavo piano e mezzo barcollando. Ci aveva, la graziosa giòvine, una qualche declinazione di fretta sua, e bubava per farsi strada; alla fine se la è fatta, la sua strada del cazzo, venendo investita immantinente da una sequela di improperi molto volgari da parte mia, te e la maialaccia di to’ mae, t’arrovescio brutta stronza, e cose del genere che contrastano alquanto con tutta la mia storia, col politicàlli corrett, con tutto quanto anche se glielo avrei detto fosse pure stata un ragazzotto, un rude operajo o un'iguana. Probabilmente, non sono più di questo mondo; condizione normale quando si raggiunge una certa età e convenzionale. Che soddisfazione, però, vedendola spaventata; nonostante sia una specie di rottame semovente, ancora quel metro e 94 di statura e quello sguardaccio da merda secca ce l’ho, sebbene io sia certo che, in un eventuale scontro fisico, anche un bambino di dieci anni mi butterebbe giù facilmente.

Indossavo, col cappuccio tirato su, la mia “felpa da scontri”, regalo di un amico caro che canta canzonacce partigiane e roba del genere in più d’un coro. Felpa da scontri sì, perché è la felpa degli ultras del Montecatini Calcio. Da immaginarsi sedute di sprangate e cazzotti con gli ultras del Fucecchio, o della Cuoiopelli di Santa Croce sull’Arno; la felpa, nerissima come s’addice alla bisogna, è attraversata da una misteriosa scritta, “SOTTOVERGA”, che riporta in realtà a un quartiere di Montecatini. Si chiama “Sottoverga” perché si trova al di là (o al di qua) della ferrovia; di fronte, immagino ma non ne sono certo, ci sarà la “Sopravverga” o qualcosa del genere. Le ferrovie, specie quelle locali -in via di estinzione, naturalmente-, hanno questa singolare caratteristica di dividere, di segnare “identità” sottili e tremende, di affidare a un pallone lontanissimo storie, controstorie e metastorie. E così, eccomi con la felpa a massacrare una giovane tizia sculettante, anch’io lontanissimo dalle mie storie; e chissenefrega, dio cagnaccio, e vaffanculo. Evviva l’anarchia! Non so perché lo dico qua, scritto in caratteri 18 perché sennò non vedo manco quello che sto scrivendo; ma m’andava così, giunti ad un certo punto del proprio percorso di vita si trova, o si ritrova il gusto di dire quel che va, senza preoccuparsi di niente.

Giovedì quattro gennaio del duemila e ventiquattro. Il Natale, dicono, è il ventiquattro; anzi, lo diceva un briaco livornese che scriveva canzoni e che ho fatto, molti anni fa, addirittura risorgere. E’ un anno un po’ particolare, ‘sto ventiquattro; la mia linea diretta, chiamiamola così, compie un secolo esatto. Mio padre era del Ventiquattro, sì, ma del mille e novecentoventiquattro. E’ morto nel 1997 a 73 anni, ma è come, assieme a lui, quest’anno io compissi un secolo. Non che ci abbia avuto sempre, anzi quasi mai, un rapporto ottimale; se devo parlarne con tutta sincerità, direi anzi che la più profonda profondità che ci siamo passati è tutta a base di debolezze senza soluzione. Ma così è; il quattro gennaio di questo ventiquattro centenariale, insomma, la mia vicina di casa, amica e sorella, l’ho dovuta far ricoverare a forza perché stava morendo. Sono tematiche e dinamiche di cortile, non pretendo che chi legga -ammesso e non concesso che ancora ci sia, perché non scrivo oramai quasi più niente- possa capire. C’è anche un gatto di mezzo, che in questo momento dorme beato sul letto; un gatto rappresenta probabilmente la summa di tutte le idiote filosofie umane, di cui si fa sovrana beffa col suo semplice essere gatto.

E così, stasera, otto gennaio, a feste finite, con le lucine che si spengono gradatamente, con un freddo che comincia a farsi finalmente gennajesco, eccomi in viaggio, poco dopo passate le sei della sera, verso l’ospedale. Bisogna che ci vada, prima il 9, poi la tranvia, e poi il bussino 27 da una fermata dedicata a quella fava di Pietro Nenni. Ma quante cose, mi chiedo, saranno state dedicate a delle emerite fave lesse? Anche se “antifasciste”, anche se sono state perseguitate, certo; sempre fave restano. Ho indosso, per andare a trovare questa amica che viene da un paese dall’altro capo del mondo, la felpa nera del Sottoverga; ci ha quel cappuccio da mazzate, avvolgente, che protegge dal freddo la mia testaccia di cazzo nella quale si agitano, e non da ora, delle cose che neppure io ho mai compreso appieno nonostante, ultimamente, una qualche lucetta si sia fatta strada portandomi, com’è d’uopo, al silenzio pressoché totale. Cose di quando si va dentro un ospedale, nel quale, fra l’altro, mi sono spesso ritrovato di persona. Mi ci muovo come fosse quasi casa mia; i corridoi, i piani, i reparti. Le carezze. Le telefonate. D’accordo, ci ho pure la mitologia personale, accuratamente coltivata, di essere rimasto uno fra i pochi senza smartphone; tutto falso. Da un annetto almeno ce lo ho eccome, e anche bellino, Motorola, ola ola, vo a dormire nell’aiòla. E uso Whatsapp. Addio mitologia, il gattone continua a dormire beato sul letto e l’inverno avanza inesorabile.

Esco dall’ospedale alle otto di sera passate. Felpa piantata addosso, ultras del Montecatini, sigaretta in bocca, telefonate a mezzo mondo e non è un modo di dire visto che devo scrivere, per informarlo, a un suo fratello che sta dietro l’angolo, solo undicimila chilometri di distanza, e che vuoi che sia mai, Estado del Salta, Argentina, don’t cry for me, in uno spagnolo che ve lo raccomando, di quelli che se Cervantes mi vedesse mi manderebbe addosso dodici Donchisciotti e otto Sancipanza dicendo loro che sono il mulino a vento di Satana. Tutto stazionario. Quando si esce da un ospedale, di persona o per conto terzi, ogni cosa è sempre stazionaria. Anche la morte, volendo, è stazionaria; ci staziona addosso fin dal primo momento, fin dal primo vagito, che poi è la stessa parola di “guaito”, nel medesimo rapporto che “vagina” ha con “guaina”. Derivazioni colte e derivazioni popolari, l’uomo e il cane. Stazionando con il cappuccio del Sottoverga calato sul capo, eccomi andare a riprendere l’autobus. Che fare di questa serataccia d’inverno? “Era una serataccia d’inverno”, recita l’incipìtte di un capitolo del Pinocchio, nel quale il burattino, spinto dai morsi della fame, esce di casa per andare in paese a cercare qualcosa da mangiare, preparandosi a mille disavventure che lo porteranno, una volta tornato a casa, a bruciarsi i piedi non senza aver prima schiacciato il Grillo Parlante.

Poiché, nella mia serataccia d’inverno, effettivamente a casa non ho granché da mangiare, prendo la drastica decisione: scendere dall’autobus, pigliare la tranvia alla fermata “Arcipressi” e andare fino al supermercato PAM di via Francavilla, che -dice- rimane aperto addirittura fino alle ore 22. Lo dice l’Internet, e l’Internet non sbaglia mai. Fermata Sansovino. Cento metri a piedi. No, che dico: forse saranno duecento. Non so che mi succede; fa un freddo da pelare, sono reduce da due settimane invirussate, ho avuto la febbre a 39, non ci vedo un cazzo carpiato e arrovesciato, barcollo, non scrivo più nulla, e devo farmi ogni giorno quattro insuline e prendere nove pasticche dai nomi inquietanti. Scatta il famoso canto del cigno.

Vado come un treno. Mi fo i sognini: ora mi compro i carciofini pe’ fàmmi la frittàa, tre etti di bologna tagliata alta e la stiacciàa, e guardo se ciànno i’ Gutturnio. Gnamme. Ciò una fame che sciànguino, d’accordo, lo dico in pisano ma rende l’idea. Eccomi davanti all’ingresso del PAM e mi si para davanti un vigilante, una mezzasega d’un metro e sessanta di altezza, e pure d’un metro e sessanta di larghezza, e mi sbarra la strada. “Inventario”. Il PAM è chiuso alle diciannove, oggi otto gennaio di quell’anno in cui mio padre avrebbe compiuto cent’anni. Tiro una salva di mòccoli in faccia al malcapitato, che peraltro capisce e allarga du’ bracci simili a biroldi.

E allora mi dico: perché non andare all’Acqua Santa? Una trattoria che si chiama così perché si trova all’inizio di una strada che si chiama Via del Palazzo dei Diavoli. Non c’è nessuno. E’ una serataccia d’inverno, maladett’a lui. C’è un’amica più di là che di qua. Un risottone coi funghi porcini, mezzo litro di rosso e il padrone, un pakistano che si stupisce un pochino quando gli dico della lingua urdu, mi mette addirittura i Bìtols. Hey Jude, don’t make it bad. Ora, d’accordo, non lo sa che a me i Bìtols mi hanno fatto quasi sempre cacare, in questo la penso come quel coacervo di boria e di supponenza di Piero Scaruffi, ma è così. Entra un altro sparuto avventore, ordina una pizzaccia che più che margherita si potrebbe definire piscialletto e ci si mette a parlare di cani e di gatti mentre Hey Jude si cangia nel sottomarino giallo, nel penni lèin, in quello che ti pare ma va bene ogni cosa mentre là fuori il gelo bisbiglia un pochino sommesso e non si sente niente tranne i passi d’un raro viandante, ché in via del Palazzo dei Diavoli davanti all’osteria dell’Acqua Santa un viandante ci sta sempre bene anche se siamo in un quartiere d’una città del duemila e ventiquattro. Comincia a volare il vino. Sì, lo so. Non dovrei bere. A dire il vero, mi riesce anche benino non bere, ultimamente; litri d’acqua. Tutto sommato, sono diventato quasi bravino. Una volta degrumato il risotto co’ funghi, bevuto, pagato e parlato di cani e di gatti, decido che è ora di tornare a casa. A piedi. Quant’è che non facevo la strada a piedi, da lì a casa mia sono quei due chilometri o quasi che, una volta, facevo regolarmente senza fiatare. Fa veramente freddo. Il Generale Inverno. Mi viene quasi da fargli il saluto militare, strade di Stalingrado, tutto quel che si vuole mentre parto col cicchino e vado che sembro unto, senza barcollare, vedendo tutto chiaro nel buio che non è pesto, ma non è neanche luce.

I miei romanzi picareschi sono robaccia di quartiere. Sono camminate nella notte dopo essere stati a un ospedale, aver mangiato una cofana di risotto coi funghi e bevuto mezzo litro di vino. A dire il vero, gli ultimi trecento metri me li son fatti raccattato dal 9 perché stavo cominciando a perdere qualche colpo; però, giù, fino a via Modigliani avevo retto come una volta, cicchino in bocca, cantando persino “Ja nuns hons pris”, anno 1194, scritta e musicata da un mio omonimo, tale Riccardo Cuor di Leone, di professione re d’Inghilterra. Ja nuns hons pris ne tendra sa raison, adroitement ne dolantement non...chissà che non sia l’ultima, chissà se la notte gelida capirà. Chissà che, per sentirmi per mezzo secondo vicino a quel dio che, disperatamente, non esiste e non ce la farà mai ad esistere nonostante i suoi comici sforzi, non abbia dovuto passare per un ospedale, per un vigilante simile al fiaschetto del Monopoli, per un risotto coi funghi e per la Sottoverga d’una felpa calata addosso per fare gli scontri con gli ultras del Lautes Nichts.