venerdì 31 dicembre 2010

Fassino


Modello in cera detto "Lo spellato".
Firenze, Museo della Specola.

lunedì 27 dicembre 2010

Nikos il Marabù


Nikos Kavvadias era un greco nato in Manciuria, nel 1910. Passò la vita a fare il marinaio sui mercantili, a giro per gli oceani; in particolare, faceva il radiotelegrafista. Dopo una vita di puttane di tutti i continenti, quasi al momento di sbarcare, oramai più che sessantenne, trovò l'amore compiuto e totale in una studentessa che si chiamava Thanò Sounà; che nomi incredibilmente belli hanno i greci. Aveva, il marinaio Nikos, un vizio peggiore del bere e del fumare: la poesia. Sulle navi, forse per il suo aspetto sgraziato, lo chiamavano "Il Marabù"; un uccello goffo e di nessuna attrattiva. Un giorno del 1933 scrisse questa sua storia, dedicandola a un tale Memas Galiatsatos e introducendola con dei versi del "poète maudit" Tristan Corbière: "Rien n'est plus beau comme ça, matelot, pour un homme":

Dicon di me i marinai con cui faccio comune vita
che un tipaccio son io, ostico e pervertito,
che detesto le donne in misura atroce
e che a letto con loro non ci vado mai.

E ancora, dicono che tiro hashish e cocaina,
che mi possiede una qualche orribile passione,
e che di strane figure sporche da fare schifo
fino alle carni le mie membra ho istoriate.

E ancora, esagerate cose dicono e tremende,
che sono invece menzogne rozze e artificiose,
e quello che valse a me ferite da morirne
nessuno mai lo seppe, ché mai lo rivelai.

Ma stasera, che è scesa l'ombra tropicale
e ai loro occidenti vanno dei marabù gli stormi,
un che mi preme e spinge a scriverne su un foglio,
quello che che diventò per me segreta eterna piaga.

Ero in quel tempo allievo su un postale scintillante
in viaggio sulla rotta Egitto - Francia del Midi.
Allora la conobbi - pareva un fiore delle Alpi,
e di fraternità l'un l'altra ci trovammo avvinti.

Aristocratica era, melanconica e sottile,
figlia d'un egiziano ricco che si era suicidato,
in paesi lontani trascinava il suo dolore,
chissà che in quelli non le accadesse di scordare.

Teneva sempre in mano il Journal della Baschkirtseff
e appassionatamente amava di Avila la Santa,
versi di Francesi citava, pieni di dolore,
e la distesa blu amava a lungo contemplare.

E io, che solo di puttane avevo appreso i corpi,
e la mia anima abulica era oppressa dagli oceani,
davanti a lei ritrovavo la gioia dell'infanzia
e, come fosse un profeta, estatico l'ascoltavo.

Passai dal mio collo al suo una crocettina
e lei mi diede a sua volta un grande portafoglio
e mi sentii poi l'uomo più felice della terra
giungendo alla città da cui doveva ripartire.

La pensavo sovente dalle navi mercantili,
al pari di una scorta e di un angelo custode,
e una foto di lei tra proravia e me valeva
un'oasi che s'incontra nel cuore del deserto.

Penso, dio mio, che dovrei fermarmi qui.
La mano trema, il vento caldo mi accende un fuoco.
C'è un profumo dal fiume di stupendi fiori australi
e un marabù insulso grufola un po' discosto.

Andrò avanti!... Una sera in un porto straniero
di whisky, birra e gin mi ero infradiciato
e verso mezzanotte, dondolandomi pesante
presi la via delle perdute, luride case.

Là donne impudiche attiravano i marinai,
una, ridendo, strappò d'un tratto il mio berretto
(vecchio uso francese nella strada dei bordelli)
e, pur senza averne voglia, io le tenni dietro.

Una cameretta angusta, fetente come tutte,
dalle cui pareti l'intonaco cadeva a pezzi,
e lei un vero straccio umano dalla voce roca,
e dagli occhi ottenebrati, indemoniati, strani.

"Spegni la luce", dissi, e spense. Ci stendemmo insieme.
Con le dita le contavo senza un errore le ossa.
Esalava assenzio. Mi destai, dice il poeta,
"quando Aurora spargeva i suoi petali di rosa".

Quando la vidi, alla luce fioca del mattino,
mi apparve tanto triste e così, così reietta
che con strano rispetto, una paura perfino
per pagarla il portafoglio cavai in tutta fretta.

Dodici franchi francesi...Ma quella cacciò un verso,
e sguardi feroci mandar la vidi in parte a me,
e in parte al portafoglio...Ma io, come ci restai,
quando una croce le vidi pendere sul petto.

Scordandomi il berretto uscii come fossi pazzo,
come un pazzo che barcolla senza trovar pace
portandomi dentro il sangue un malanno atroce
che ancora con tormento mi affanna e mi punisce.

Dicono i marinai che con me ebbero a che fare
che io con le donne da anni non ci voglio andare,
che non sono un buon soggetto e che tiro cocaina.
Scuserebbero certo, sapendo la mia vita.

La mano trema. La febbre. Sovente mi abbandonai
a guardare un marabù immobile sulla riva.
E così, quando a suo turno lui mi guarda fisso
penso che, solitario e imbecille, ben gli somiglio.

Poche volte m'è capitato di ascoltare una storia come questa. L'ha tradotta, assieme a tutte le altre sue poesie, un amico che si chiama Gian Piero Testa; uno con cui condivido quella particolare cosa che si ha nei confronti della Grecia, dei greci e della lingua greca e che molto difficilmente può essere definita; e così non la definirò affatto. Dico soltanto che, al cospetto di Nikos Kavvadias, della sua vita incredibile e durissima e delle sue poesie redatte in un difficilissimo gergo marinaresco, Gian Piero Testa si è fatto un'edizione privata che spedisce qua e là, agli amici, nel più puro "otium" che nulla desidera che puzzi di denaro ancorché da lontano. E questa è la mia gente, e sempre e lo sarà: "uno che sta bene con poca gente, in pochi posti e con poche cose". Anche per questo, da oggi il mio profilo è redatto anche in greco.

Nikos Kavvadias sbarcò dai mercantili nel 1974, innamorato finalmente, dopo una vita intera. Durò poco. Morì all'improvviso il 10 febbraio 1975 a Atene, lui greco che in Grecia aveva messo piede poco o punto. Per anni fece base a Genova. Era nato un undici gennaio, peraltro; coincidenze. Un'altra sua poesia sulle gatte dei mercantili la affido alla mia amica Pampalea; dopo la sua morte, come sovente accade, se ne accorsero i musici e i cantanti. Mariza Koch mise in musica questa sua poesia:


venerdì 24 dicembre 2010

La visita


All'Elba, non so quanti sangue d'anni fa e non mi ricordo dove qualcheduno mi disse, c'era un medico condotto, il dottor P. Non occorrerà dire che cosa comportasse, in quegli anni remoti, fare quel mestiere, ovvero cercare di raccomodare esseri umani che, per un motivo o per un altro, ce la mettevano proprio tutta per scassarsi: chi nei campi, chi allo stabilimento, chi per mare, chi per la vigna in cima a un monte, chi per i muri a secco. C'erano i matti dei paesi, in parecchi casi frutti di incesti; e c'erano i matti per vocazione e per ideale. Erano, questi ultimi, specialmente concentrati in un paio di paesi, forse tre, che avevano tutti a che fare le con le pietre; e non pochi di loro, sempre a proposito dell'intento di scassarsi la vita fin da giovanissimi, oltre a farlo per un'idea che si diceva luminosa, erano costretti anche a farlo in qualche cava di granito. L'Elba è sempre passata per l'isola del ferro, ma c'era anche un bel po' di pietra da cavare anche se non ha mai avuto la roboante nobiltà di quella di Carrara; ad ogni modo, sembra che col granito del Seccheto ci abbiano fatto addirittura un pezzo del Pantheon, a Roma.

Il dottor P. era un uomo già anziano, sessantatré o sessantaquattr'anni; apparteneva a una famiglia di quella specie di mezza borghesia che riusciva a mandare i figli a studiare a Livorno prima, e a Pisa poi, facendo sacrifici non lievi. Ma i figli erano l'avvenire, e l'avvenire par che allora esistesse (ed è curioso che l'avvenire sia sempre stato fatto per epoche in cui non c'era nulla, nemmeno da mangiare; mentre ora, che ci s'ha tutto, solo nominarlo è una bestemmia); così, un giorno, fresco d'abilitazione alla professione medica, il dottor P. era tornato all'Elba, aveva aperto l'ambulatorio in quel posto che non ricordo ed erano stati trentacinqu'anni di mani nella vita altrui. Senza tante storie romantiche e senza “cittadelle” alla Cronin; non era né amato e né odiato, il dottore doveva guarire la gente ed era per quello che era lì. Diversi li aveva guariti o salvati, e c'era della secca gratitudine; diversi non li aveva né guariti e né salvati, e c'era un prosciugato rancore; alcuni li aveva guariti o salvati una volta, e la volta dopo no, e c'era un'asciutta rassegnazione nella quale si ricorreva, ma non sempre, al dottor Dio. E così continuava a andare, anche se il dottor P. meditava di mettersi a riposo; era una persona taciturna così come sua moglie, tanto che si diceva che in trent'anni di matrimonio si fossero scambiati si e no un paio di parole al giorno. Non avevano avuto figli perché non erano arrivati; e lui non parlava molto nemmeno all'ambulatorio, nelle case dei malati o quando lo chiamavano per altri accidenti in quella parte dell'isola che gli competeva. Passava, però, per molto preciso; non indulgeva a chiacchiere inutili e alla gente non dispiaceva affatto. Un suo “ci si fa” era speranza non vana; un suo “non c'è nulla da fare” era sentenza.

Un ventiquattro dicembre a tarda sera, mentre era in casa a tacere con la moglie che preparava una cena niente affatto speciale, il dottor P. sentì bussare alla porta perché i telefoni ancora non c'erano. Sforando la sua quota di parole giornaliere, chiese alla moglie di andare a vedere chi fosse, sentì confabulare e dopo un po' gli si presentò un ragazzo di una ventina d'anni, che conosceva. Era uno dei figli di R.V. (le iniziali, a volte, giocano garbati scherzi), e il dottor P. ebbe voglia di mettersi le mani nei pochi capelli che gli erano restati sul capo.

- Salve, -disse il dottor P. al ragazzo.- Che ha combinato tuo padre stavolta?

- Niente dottore. Si è sentito male. Muore.

- E tu come lo sai che muore?

- Me lo ha detto lui che si sente di morire. Non voleva che venissi. Me lo hanno ordinato mia madre e mia sorella di venire da lei, mio padre non lo sa nemmeno.

- Ce l'hai il carretto col somaro? Sennò mi tocca tirare fuori il mio.

- Ce l'ho. E ho portato anche una lanterna.

E al dottor P. toccò vestirsi, prendere la borsa, dire alla moglie di mettergli la cena da parte e avviarsi col ragazzo, che si chiamava, forse, Giovanni. C'era da fare un pezzaccio di strada, faceva di quel freddo umido che all'isola era consueto, e durante tutto il tragitto i due non si scambiarono nemmeno mezza parola per sbaglio. Non ce n'era bisogno. Il padre del giovane era una testa matta delle più compiute: cavatore; anarchico; incarcerato; e di nuovo in cava, e di nuovo in galera. Era venuto una volta in visita il Re, qualche anno prima, e lui lo aveva accolto facendo cacare tre cavalli sul percorso del regio corteo; un'altra volta, a un carabiniere che lo stava redarguendo sul porto perché stava appiccicando dei fogli che non contenevano parole di simpatia nei confronti dell'Arma, aveva all'improvviso -appunto- sfilato l'arma e, puntandogliela sotto il naso, lo aveva costretto a tuffarsi in acqua, in divisa, e un ventiquattro di febbraio. Da quando avevano impiantato lo stabilimento, ed erano arrivati operai anche da posti che all'Elba mai si erano sentiti nominare (ce n'era uno di Guardia Sanframondi, un'altro di Castell'Arquato e un altro ancora da Airolo nel Canton Ticino), ogni giorno stazionava nei pressi a cercare di anarchizzare qualcuno; e siccome ai Carpani c'erano anche due o tre osterie, ci riusciva non di rado. Il sindacato anarchico, all'Elba, era diventato il più numeroso; e così R.V. aveva trovato il modo di girare parecchie carceri, di essere guardato a vista e di fare figli; sei un tutto, quattro maschi e due femmine. Uno dei maschi, quand'era bimbetto, lo aveva visto a confabulare con un prete che lo accarezzava paternamente; prima accarezzò lui il prete non paternamente, poi accompagnò paternamente assai il ragazzo a casa a calci in culo dicendogli che se lo vedeva ancora a parlare con quel pretonzolo manfruito di merda, gliene avrebbe fatta passare la voglia definitivamente. Per l'appunto era proprio quel ragazzo che stava accompagnando il dottor P. sul carretto a somaro dal padre presupposto morente. Doveva succedere prima o poi; e anche se il dottor P. non era poi quel che si dice un cristiano praticante e assiduo, non poté fare a meno che il destino stava giocando un tiro mancino a quel senzadio. Crepare la notte di Natale, ma guarda un po'; magari proprio alla mezzanotte, quando si sentono sonare le campane. Sai le bestemmie. E arrivarono alla casa di R.V. e della sua famiglia, un merdaio sulla strada del Viticcio dove d'inverno si bubbolava dal freddo e dove si diceva, con immensa malignità ma forse con qualche cosa di vero, che i fratelli si scaldassero alle sorelle, e anche tra fratelli stessi. C'era un puzzo d'ogni cosa e una sola candela accesa, presumibilmente rubata in chiesa. Il vecchio era sdraiato su un pagliericcio foderato alla meglio, con sopra due coperte lacere e bisunte; la moglie stava al capezzale con aria assente, mentre le due figlie versavano al dottore e al fratello due bicchieri di vino.

- O che succede?, disse il dottor P.

- Succede che moio. A voi chi vi ha chiamato?, disse il vecchio scatarrando paurosamente.

- Ir su' figliolo, e non v'azzardate a dirgli nulla. Di che vi sentite morire?

- D'ogni cosa. Non ce la fo a respirare. Al posto del cuore mi sento il bottino. Non ci ho più voglia di bere.

Fu quell'ultima cosa a far decidere al dottore che forse il vecchio maledetto stava crepando davvero. Doveva avere cominciato a bere come una cisterna a dodici anni, e sebbene sapesse come si preparava un ordigno, non poteva esisterne di più potente di una sua fiatata quando ci si metteva d'impegno. Aveva una barba che ci si poteva arrotare un coltello, poi. Il dottor P. tirò fuori l'arnese di Laënnec, ascoltò un po' dentro quella carcassa e sentì una serie di brontolìi e gorgoglìi che gli fece supporre un edema polmonare in corso; bisognava portarlo all'ospedale, ma l'ospedale aveva il non leggero difetto di non esserci, a Portoferraio. Bisognava aspettare la mattina dopo, e la mattina dopo sarebbe stato troppo tardi. Si fece dare un bicchiere d'acqua, ci sciolse dentro una polverina e gliela dette da bere.

- Su, bevete questo.

- Che è?

- Qualcosa che vi può fare, forse, arrivare a domattina. Poi si va a Piombino col Santissimo Sacramento.

- Io con quelli lì non vo da nessuna parte.

- E invece bisogna andarci. Preferite la Misericordia?

- Io li ammazzerei a tutti e due. Mi lasciate morire quando voglio io?

- Perché, volete morire?

- Se mi tocca, sì.

- E allora se non volete andare, sapete cosa fo? Io me ne torno a casa e vi lascio crepare, testone che non siete altro.

- Ecco, sarà bene. Io non vi ho fatto mandare a chiamare. La bonanotte.

- La bonanotte a voi, e se ci ripensate sono affari vostri.

- È tutta la vita che sono affari miei; voi andatevene per i vostri.

Il dottor P., in silenzio, s'avviò verso la porta del tugurio assieme al ragazzo che doveva riaccompagnarlo; socchiuso l'uscio, si sentì però un tramestio. In quella casa mancava tutto, ma non un fucile carico; il fratello maggiore lo prese e uscì gridando dei “chi è?” nel buio.

Dopo un po', e dopo qualche non cortese invito a uscir fuori alzando le mani, la lanterna illuminò il viso di un uomo, magrissimo, con una barbaccia lunga e nera e un'inconfondibile montura. A strisce. Disse qualcosa in italiano stentato, ma si capì tutto e subito. Se ne parlava del resto, all'isola, da qualche giorno; dalla prigione di Bastia, in Corsica, erano scappati quattro detenuti che poi si erano impadroniti di una barca da pesca e, non si sa come, erano riusciti a prendere il largo. Era sicuramente uno di quelli, che dovevano essere approdati chissà dove all'Elba; e proprio quella sera era capitato nel posto peggiore e in circostanze pessime. Il dottor P., che si ricordava un po' di francese, gli disse:

- Es-tu un prisonnier?

- Oui. Je ne veux qu'un morceau de pain et un verre d'eau, je n'ai rien mangé depuis trois jours. Puis je me casse. Je ne veux pas vous déranger.

Il dottor P. tradusse tutto al figlio maggiore di R.V., che fece passo per entrare in casa; il dottore lo fermò e gli disse sottovoce:

- Ma dove vai? Piuttosto dì a tuo fratello di andare a chiamare i carabinieri, questo è un evaso, un criminale, hai capito?

- Ha chiesto un pezzo di pane e un bicchier d'acqua, io glieli vo a prendere. I carabinieri andate a chiamarli voi, se volete. Io non ci vo.

Tale padre e tale figlio, e il dottor P. cominciò dentro di sé una litania abbastanza consueta, che recitava qualcosa come accidenti a me e quando sono uscito, anzi no, accidenti a me e quando ho deciso di fare il medico; accidenti a questi stronzi, accidenti a quest'isola di merda, accidenti a ogni cosa e accidenti anche al padreter... si fermò. Non sapeva che fare. Se si fosse saputo che lui, medico condotto e ufficiale pubblico, non era andato a denunciare un ricercato, anzi un evaso di prigione, lo avrebbero preso per un complice; la sua professione, la sua vita, tutto sarebbe finito. Ma davanti a sé aveva anche un essere umano che chiedeva da mangiare e da bere, e quei disgraziati presso i quali aveva dovuto recarsi, con un moribondo in casa, non avevano avuto dubbi. Erano andati a prendergli pane e acqua. E i due figli, il grande e il piccolo, erano tornati con un grosso pezzo di pane, un bicchiere d'acqua, un altro di vino e una coperta. Il dottore tornò dentro.

Vide il vecchio che rantolava; si era fatta levare una delle coperte di dosso. Il dottore disse a una delle figlie:

- Ma siete impazziti? Gli levate una coperta a vostro padre che muore?...

- Ce lo ha detto lui.

- Ma se non parla più nemmeno...!

- Ce lo ha detto con gli occhi.

- Ma qui si muore di freddo...!

La moglie, che non aveva detto niente fino a quel momento stando al capezzale del marito, alzò la testa e disse piano:

- Qui siamo tutti vivi, e se lui muore non gli servono più le coperte.


Il dottor P. non seppe più da che parte rifarsi; la porta si aprì, e i due figli di R.V. entrarono assieme all'evaso, che stava addentando il pane e bevendo l'acqua e il vino con l'avidità degli affamati e degli assetati veri. Disse qualcosa.

- Je m'en vais. Vous n'avez rien vu. Je ne sais pas où sont mes camarades. Merci.


Il dottore lo guardò per un attimo. Doveva, forse, essere accaduto qualcosa, là dentro. Si alzò e gli disse nel suo francese scolastico d'una scuola perduta negli anni:

- Attendez. Je suis un docteur. Asseyez-vous un moment s'il vous plaît...

- Pourquoi...?

- Vous n'êtes pas en bonne santé. Je vais vous faire une petite visite.

- Merci mais c'est dangereux, m'sieu. Je suis un prisonnier évadé.

- Je le sais. Asseyez-vous.

Il vecchio continuava a rantolare, oramai allo stremo; non una lacrima in quella casa. A sedere su una seggiolaccia di legno, l'evaso si era tolto la divisa da carcerato e si faceva visitare dieci anni di cella, perché la galera è una malattia tremenda. Si vedevano le costole. C'erano delle strane piaghe qua e là, sulla schiena e sulle gambe. Doveva essere stato picchiato parecchie volte. Non doveva avere più di quarant'anni, e il dottor P., terminata la visita, tirò fuori dalla borsa delle pasticche bianche.

- Écoutez. Vous êtes en état de dénutrition grave. Acceptez ce médicament, ça vous fera du bien.

L'evaso prese tre di quelle pasticche e le inghiottì con un po' d'acqua; aveva un'aria strana, forse stupita, forse no. Poi non disse niente. Gli fu data una vecchia camicia d'uno dei figli e un paio di pantaloni da lavoro, di fustagno grezzo; la divisa da carcerato fu messa nel camino spento, e un paio di mani di ragazza provvidero immediatamente a farne due minuti di fuoco acceso. Disse ancora due o tre “merci”, e andò a accarezzare piano la testa del moribondo, che aveva smesso oramai persino di rantolare; poi se ne andò nell'oscurità, prendendo chissà che sentiero.

Altro non si poteva fare.

Il figlio minore di R.V. si offrì di riaccompagnare il dottor P. a casa col carretto; ma il dottore rifiutò. Disse che se la sarebbe fatta a piedi, e del resto c'era abituato da decenni. Il ragazzo non insistette, e il dottore si rinfilò il cappotto, prese la borsa e s'avviò; la sua visita l'aveva fatta, anzi ne aveva fatte due; ora, in quella casa, era attesa a breve un'altra visita.

E passò un venticinque dicembre, il dottor P. a casa, dicendo ancor meno parole del solito. La moglie, che lo conosceva, aveva capito che non era proprio il caso; insieme se ne andarono in paese con l'intenzione di prendere una messa poco convinta, e finirono per non andarci nemmeno. Piuttosto, se ne andarono a fare due passi, a braccetto, per una mezz'ora. Vicino al vecchio mercato, là dove s'apre la spiaggia del Grigolo, il dottor P. fu attirato da un capannello di persone che sembravano ascoltare con attenzione qualcuno che parlava concitato. Senza dir niente alla moglie, si staccò da lei per andare a ascoltare, mosso da chissà quale curiosità; arrivato all'assembramento, si sentì quasi mancare. La moglie, accortasene, andò verso il marito rimanendo di stucco anche lei: in piedi su una cassetta da marinaio c'era R.V., con addosso un pastrano, che stava, in piena salute, arrigando la folla:

Perché non è più accettabile, cittadini, compagni, che i carabinieri ci entrino nelle case alla ricerca di chissà cosa, quando invece in questo giorno che i preti vorrebbero dedicato alla nascita del loro idolo le famiglie sono disturbate da uomini in armi che cercano uomini indifesi condannati alle terribili galere della borghesia! Compagni, è necessario ribellarsi! Ma quale Natale? Con quale faccia ci vengono a parlare di bontà? In questo giorno vi invito a brindare alla salute di quattro uomini braccati, e ad aiutarli se potete! Non lasciamo che cadano nuovamente nelle mani della sbirraglia!

Il dottor P. sudava freddo. R.V., che stava morendo soltanto poche ore prima, ora era là in mezzo, a tuonare come suo solito, e con la solita pattuglia di gendarmi che gli si stava avvicinando per portarlo via. Senza farsi vedere troppo, sgattaiolò dietro il capannello di gente e fece cenno a R.V. di scendere un momento, facendo capire di non indugiare troppo. La pattuglia sembrava essersi fermata a interrogare dei passanti; e il dottore s'accorse che non soltanto s'era fatta una mattinata piena di sole, ma che faceva persino un caldo bizzarro, anormale per quella stagione, da stare in maniche di camicia. Prese R.V. che era sceso dalla cassetta, e lo tirò via in un cantuccio del vicolo accanto.

- Ma voi non eravate moribondo...? Mi avete preso in giro stanotte...?

- Giuro di no. Stanotte io stavo morendo, dottore.

- E ora...? Non avete l'aria d'un morto!

- E ora non so che dirvi. Io mi sono sentito andare via, poi stamani mi sono risvegliato e ho capito subito di non essere all'inferno. Magari. Ero in casa mia, che è ben peggio! E non mi sono mai sentito meglio negli ultimi vent'anni, dottore. Davvero. Piuttosto, se vi capita di rifarmi un salto a casa date un'occhiata a mia moglie; stamani, quando mi sono alzato, a quella poveretta è preso un coccolone e s'è messa a gridare al miracolo. Glielo do io il miracolo, a quella! Ora stai a vedere che mi diventa un avanzo di sagrestia! Maledetti preti!

E, su quell'urlo, tornò a rivolgersi agli astanti mentre i due carabinieri scuotevano la testa; il dottore aveva un'aria stralunata, mentre la moglie gli si avvicinava per dirgli qualcosa.

- Ascolta Romualdo...i carabinieri vogliono farti delle domande...

Il dottor P. si sentì morire; sicuramente era trapelato qualcosa della visita della sera prima, e quelli oramai già sapevano che aveva curato un criminale evaso da un carcere còrso. Pallidissimo, il dottore andò dai carabinieri.

- Dottore, scusi se vi disturbiamo...

- Ma prego...a vostra disposizione...

- Avrete sentito parlare dei quattro evasi da Bastia...

- Certamente...

- Poiché voi siete sempre in giro anche a ore tarde...vi è capitato di vedere questo? Gli altri tre li abbiamo ripresi, ma questo manca all'appello...

Con una singolare decisione, il dottore prese il foglio portogli da uno dei carabinieri, e riconobbe immediatamente la persona che vi era raffigurata in fotografia.

- Mi dispiace, ma non l'ho proprio visto...

- Eppure sappiamo che ieri sera siete stato chiamato per una visita sul tardi...e anzi sappiamo anche da chi siete andato...

- Stava davvero male, ma si vede che l'ho curato bene. Oggi mi sembra bello arzillo!

- Voi siete un bravo medico davvero...ce l'hanno detto anche a noi che stava male, quel bell'elemento...e ora eccolo qua! Ma tanto è inutile, tre li abbiamo già ripresi...

- E quell'altro?

- Sembra essere svanito nel nulla, ma non andrà lontano. Volete dargli ancora un'occhiata?

- Ma certo. Si sa come si chiama?

- C'è scritto sul foglio...

E il dottor P. lesse le note informative redatte dai Regi Carabinieri su indicazione della Gendarmeria francese. J.C., 33 anni, nato a Maisondupain, dipartimento del Gard. Ladro di professione, specializzato in furti ai danni di chiese e templi. Simpatizzante anarchico a detta di alcuni suoi compagni. Condannato a 23 anni di carcere per rapine e percosse; vive da anni assieme a un'adultera con cui ha avuto una figlia. Rinchiuso da anni dieci nel carcere di Bastia. Evaso in data 19 dicembre 19.., ricercato su mandato internazionale.

martedì 21 dicembre 2010

Ventidue dicembre



MI SONO ROTTO
(Aftous tous echo varethi)
Maria Dimitriadi

Di donne che mi accarezzano fredde,
di falsi amici che mi adulano
e che dagli altri si aspettano coraggio
mentre loro se la fanno addosso
in questa città divisa
mi sono rotto.

E ditemi, a che cosa serve
quella tribù di burocrati
che si mette a ballare con zelo
sulla schiena della gente,
nella gran ruota della storia?
Mi hanno rotto.

E cosa mai perderemmo
senza quei professori di merda
che saprebbero assai meglio le cose
se non si rimpinzassero tutti i giorni?
Servi paurosi, schiavi grassoni,
Mi avete rotto.

E gli insegnanti, flagello dei giovani,
che ritagliano gli studenti a loro immagine
e che sotto ogni bandiera
formano a forza i sudditi ideali?
Obbedienza! Sgobbare bovinamente!
Mi hanno rotto.

Ed il famoso ometto comune
che sempre ha penato senza averne nulla,
e che si abitua ad ogni schifezza,
basta che ci abbia di che campare
(ma, a letto, sogna di fare attentati)?
Mi ha proprio rotto.

E dei poeti che si fanno le seghe
a poetare sulla patria perduta,
e che rimano pure l'inrimabile
ma sempre amici dei potenti?
Sono in vendita come viscide anguille,
Mi hanno rotto.

E dei poeti che si fanno le seghe
a poetare sulla patria perduta,
e che rimano pure l'inrimabile
ma sempre amici dei potenti?
Sono in vendita come viscide anguille,
Mi hanno rotto.
Sono in vendita come viscide anguille,
Mi hanno rotto.

(Una canzone dedicata a Lady Losca
e a tutti i ragazzi che saranno in piazza a Roma, a Firenze, dovunque.)

Auguri alla fine del mondo


Ti offro la pagina bianca.

Ti offro pagine riempite di parole e pensieri; ti offro quintali di sigarette fumate in notti solitarie, di passeggiate nei dintorni fatte soltanto per sentire il rumore dei passi, di improvvise voglie di partire, di gesti senza una spiegazione.

Ti offro elementi sparsi di una vita intera, il nickname di "Thapsos", le scale del sottopasso di una stazione, uno striscione di lotta e un parcheggio nel buio.

Ti offro un non so di ieri, un non so d'oggi, un non so di domani.

Ti offro bestemmie su treni di merda, attese al binario 8, 10, 11, ponti indiani, e ti offrirei qualsiasi cosa che incollasse l'intercity alle rotaie la domenica sera.

Ti offro i miei piatti strampalati, la spuma rossa, gli ultimi relitti di etimologie.

Ti offro qualche risata se mi viene di fartela fare.

Ti offro qualcosa che ancora non conosco; ma se la conoscerò la vorrei dividere con te.

Ti offro le mie storie, che valgano o meno qualcosa. Ti offro quel che mi passa per la testa ogni momento, e ogni momento che mi passa per la testa.

Ti offro le mie fissazioni, le mie assenze, le mie contorsioni. Incroci incasinati, narcolessie, amici bizzarri, discese nel profondo, caravelle di libertà immaginate, tempo che non vorrebbe essere passato, unghie lunghe, vento di primavera, ellissoidi di desiderio, rocío de la madrugada.

Ti offro quel che mi rimane di passo di corsa quando arrivi.

Ti offro uno screwdriver, eh eh eh!

Ti offro quel che sono, in good and evil.

E ti offro soprattutto una cosa che qui non è opportuno dire.

E se ci sarà la fine del mondo, che importa. Alla fine di gennaio di qualche tempo fa, tanto, ne è cominciato un altro che non è coperto da nessuna profezia.

Auguri, e di quelli sodi.

Auguri, e di quelli infiniti.

Auguri, e di quelli che sbriciolano i chilometri.

Auguri, a te che non sapesti mai dire che sensazione ti prese.




lunedì 20 dicembre 2010

Azioni preventive


In parecchi casi, l'azione preventiva sarebbe stata semplicissima: munire certi tizi di una congrua quantità di preservativi in modo da impedire loro di riprodursi. Le colpe dei figli, d'accordo, non ricadano sui padri; però, poi, siamo noi attuali che dobbiamo sorbirci i figli. E questo non va bene. Mi si potrebbe obiettare, e non senza qualche ragione, che certi figli sono nati troppo presto, quando il profilattico viveva vita grama e perlopiù limitata ai cateteri di vecchi pisciosi ricoverati nei reparti di urologia; in questo caso è lecito invocare anche il coitus interruptus. Un caso lampante lo si ha davanti agli occhi in questi giorni.

Nell'autunno del 1955, la signora Iole Siani si ritrovò incinta del regolare e marziale sposo, il generale Domenico Gasparri. Naturalmente non voglio mettere in discussione il fatto che un generale e la sua legittima sposa desiderino avere rapporti intimi, anche se immaginare un generale che tromba mi lascia sempre un po' perplesso. Ad ogni modo, è probabile che anche nel 1955 l'Esercito Italiano fosse dotato di una scorta di preservativi; l'italianissima e storica azienda Hatù di Bologna fu fondata addirittura nel 1922 dal signor Franco Goldoni, il cui cognome è stato immortalato nell'appellativo di goldone dato popolarmente ai profilattici. Non soltanto: il marchio Hatù venne ideato personalmente dal signor Goldoni con le prime sillabe dell'espressione, virilmente latina, di HAbemus TUtorem, cioè "abbiamo un protettore".* Insomma, il generale Domenico Gasparri, indossandolo, avrebbe dato un contributo all'economia nazionale e eiaculato dentro qualcosa che recava in sé la lingua di Roma immortale. Disgraziatamente, non lo fece; fu così, che il 18 luglio 1956, venne fuori questa cosa qui:


In questi giorni sembra che sia proprio il frutto di quella mancata azione preventiva che ciancia a sua volta di misure preventive. Dovrebbe invece rendersi conto che, se fosse stata applicata un po' di elementare prevenzione a suo padre, a quest'ora staremmo tutti quanti un po' meglio. Ma sono, purtroppo, considerazioni oziose; oramai la frittata è stata fatta e non resta che raccomandare ai generali odierni, di qualsiasi forza armata facciano parte, di farsene una provvista adeguata e utile ad evitare simili danni alle generazioni future.

Azioni preventive? Oggi è il 20 dicembre, e ricorre giustappunto il 37° anniversario di un accadimento che illustra alla perfezione come simili azioni abbiano certamente la loro grande utilità, ma non nel modo preconizzato dal signore di cui sopra, colto con un'espressione intelligentissima mentre si gratta il naso (e, forse, anche a scaccolarsi). Il 20 dicembre 1973, come dire, questa azione preventiva creò un po' di casino nella Calle de Claudio Coello, in quel di Madrid. C'era un ammiraglio appena uscito dalla messa, tanto amico di un assassino** che gli aveva fatto fare il primo ministro e che gli aveva affidato la continuazione del suo regime. Sembra che l'ammiraglio, forse stanco del mare, desiderasse tanto volare; fu accontentato.



* Probabilmente la cosa veniva generalmente ignorata. Avrebbe potuto creare imbarazzo: il maritino che, indossando il goldone, avesse detto alla moglie: "Sai, cara, abbiamo un protettore...!" avrebbe potuto essere facilmente equivocato con conseguenze abbastanza serie.

** Anche costui, curiosamente, legato alla data del 18 luglio. I famosi corsi e ricorsi.

domenica 19 dicembre 2010

Savianizing myself


Ascolta tu, Ciccill' 'o Guapp', Pasquale Scapece, Raffaele Scetavaiass' o come cazzo ti chiami: sei un rotto in culo, un pezzo di merda, ci hai la mamma troia, il babbo becco, il fratello infamone e la sorella è amica di Noemi Letizia. Ci hai un cazzettino di otto centimetri scarsi, fai ancora la cacca a letto, non vali una sega manco come camorrista anche se sei nella lista dei 30 latitanti più pericolosi, hai paura del buio e senza la pistola saresti un quacquaracquà della peggiore specie. Hai capito? Ecco, nonostante le tue capacità di comprensione siano pari a quelle di un topinambur andato a male, caro il mio capoclan di questa ceppa di minchia, se hai capito ora mi devi condannare a morte. Devi spedirmi le minacce: Venturik, sei un uomo morto. Oh! Sennò che accidente di criminale organizzato sei? Insomma, forse lo avrai capito: voglio diventare il nuovo Saviano. Voglio il programma di protezione. Sto già scrivendo Sodoma, il seguito di Gomorra. Poi scriverò anche Babilonia, se mi andrà. Voglio la scorta. Voglio fare una marea di quattrini e voglio pure i filmini. Voglio abitare nascosto in una località segreta e non fare un cazzo dalla mattina alla sera. Dai, e su, fammi 'sta cortesia: una bella condannina a morte che ti costerà? Nel libro Sodoma racconto persino di quando i tuoi guardaspalle ti hanno trovato a farti un raspone a du' mani sulla foto di Beyoncé gnuda; dai, fai il tuo dovere!

Insomma, contribuisci a dare una svolta alla mia vita. Voglio andare nella tivvù impegnata e commovente. Voglio trovarmi faccia a faccia con Fabio Fazio mentre tremola come un crème caramel. Voglio leggere l'elenco di tutti morti ammazzati dalla polizia e dai carabinieri in Italia dal 1946 ad oggi; dici che non me lo faranno leggere, però? Dici? Voglio Benigni che mi gira attorno adorante, spandendo un alone del suo profumo Institutional Ruffian n. 1 (il che è comunque meglio dei suoi film di merda). Voglio essere ripreso in primo piano dal cameraman con un'aria da nuovo eroe; sono disposto anche a pelarmi la capa come una palla da biliardo. Voglio fare la telepredica finto-progressista. Voglio galere per tutti, perché la galera è la sublimazione della legalità. Voglio essere l'apostolo dello Stato di Israele, e rispetto a Saviano ho l'atout di conoscere anche un po' di ebraico moderno. Non ci credi, בן זונא? Guarda, Ciccillo, che ti ho appena dato di figlio di puttana, si legge ben zonà. Ora come la mettiamo? Arriva o no' sta condanna a morte?

E, soprattutto, voglio Repubblica ai miei piedi. Ci ho voglia di scriverci il mio pronostico sul campionato di pallone? E ce lo scrivo! Le ricette di cucina di mia zia? E ce le scrivo, in prima pagina! E pensa che il piatto forte di mia zia è la Torta Legalitaria. Ci voglio scrivere un appello agli studenti perché facciano i bravini, manifestino in modo pacifico, stiano in fila per tre col resto di due, non facciano il gioco di [ riempire questo spazio a piacere ] e soprattutto ascoltino a capo chino le mie calde raccomandazioni di eroe conclamato dallo sguardo intenso e dall'aria ispiratamente sofferente? Ma ne scrivo uno al giorno! E intanto, soldi a palate; carrettate di milioni; mi sposo una mondadora; faccio persino la pubblicità di un detersivo con l'uomo in endemollo!



Insomma, Ciccillo, mi devi aiutare sul serio. Tu guarda quel tuo collega, quello Schiavone lì: con mezza parola ha preso un tizio che nessuno conosceva e lo ha reso praticamente Dio. Anzi, qualcosa di più. Dio, ora come ora, può sbagliare tranquillamente e nessuno ci fa più caso; Saviano no. Saviano è infallibile. Saviano è intoccabile. Ci stiamo avviando spediti verso il Savianesimo. E, allora, ci vuole almeno un dio concorrente; sennò non c'è più gusto. Mi candido volentieri. Se poi ti penti, ho già in mente il coup de théâtre: ci incontriamo da Fazio, ci abbracciamo, Benigni canta izz uonderfull, izz uonderfull, Nichi Vendola piange commosso, la figlia di Walter Tobagi s'innamora di me, ti regalo la bicicletta di Marco Biagi e tu a me la coppola di Ciro Cirillo, facciamo uno share superiore a quello della finale dei mondiali e ci scambiamo persino i nostri segretissimi indirizzi protetti. Che dico? Ci scambiamo le scorte!

O anche no, eh.

mercoledì 15 dicembre 2010

Trattorie popolari


Succede di non aver voglia di tornare a casa, sebbene ce ne sia la possibilità. Fa un freddo boia, d'accordo; ma sono anche le prime giornate di sole da un mese e mezzo a questa parte, e quando c'è il sole spesso mi si impiglia in bocca ecc. (è un verso di Elytis, ma siccome detesto le citazioni la lascio volutamente a metà, così impara a farsi citare). Così, nel lasso di tempo in cui, fra un lacerto di lavoro e l'altro, sarei potuto tornare chez moi, me ne sono andato invece a zonzo, lasciandomi letteralmente trasportare dalla macchina. È arrivata l'ora di pranzo; e siccome le mie macchine sono sempre molto sagge (assai più di me!), mi ha portato a mangiare in un posto che conosco molto bene. Un posto consueto, di cui non importa fare il nome; a chi mi conosce da un po' di tempo, dirò che è quello dove si svolse la piola del dicembre 2003; a chi non mi conosce (e magari non intende minimamente farlo), non dirò nulla; tanto, se non conosce me, non conosce nemmeno quel posto. Sarebbe inutile.

Io vo a mangiare in trattorie popolari, di quelle a prezzo fisso il giorno; e mi piace andarci. Basta che non servano pizze e panna cotta. Mi piace stare in quei posti; mi piace fare due chiacchiere se c'è qualcuno, e mi piace anche starmene da solo. Oggi, quando sono entrato in quel posto, non c'era assolutamente nessuno. Ha cambiato, da sette anni in qua, diverse gestioni; ora è diventato una trattoria napoletana, la giovane coppia che lo tiene è napoletana per davvero e fanno cucina napoletana. Evitando accuratamente qualsiasi tipo di pizza. Ed è, almeno per me, una povera gioia di quelle che non mi riesce nemmeno spiegare; farsi servire dei maccheroni alla biancaneve (con ricotta dura e pomodoro), le sasizz' alla griglia (fatte come si deve), le zucchine alla scapece (cotte nell'aceto, almeno mi sembra) e un dolce al cioccolato e vaniglia di cui la ragazza non sapeva il nome, ma che "lo faceva mia mamma" (così mi ha detto). Magari, a Napoli Partenopea, un posto del genere impallidirebbe; ma a me cose del genere fanno svanire il freddo. Bello solo, mangiando piano e guardando i ricordi. In quel posto sono tanti. Solo sì, ma assieme a me c'erano almeno sei o sette riccardiventuri, ben distribuiti nella sala.

Ce n'era uno, ad esempio, mezzo addormentato a un tavolo, mentre qualcuno gli presentava un cantautore dal nome alquanto bizzarro; un altro nella saletta dietro quella principale, che cantava non so quale canzone d'un genovese dell'alta borghesia; un altro ancora, invece, chiacchierava fitto con una ragazza a un tavolo, e sembravano ore decisive per la Terra; un altro mangiava svogliatamente quando le ore decisive erano morte e sepolte; e poi un altro alle prese con un coniglio cotto male, assieme a un'inesistenza apparecchiata per cena; e, a pensarci bene, ce n'erano altri ancora, con facce variabili, capelli di tutte le fogge, le sigarette, le caraffe del vino. Proprio una bella congrega, e mi divertivo a guardarli pensoso, mentre addentavo i maccheroni, le salsicce, le zucchine. Forse è proprio per questo che vo sempre nei soliti posti, o mi ci fo andare; mi reco a osservare i miei fantasmi e il mio tempo, in un sole gelato di dicembre.

Mentre osservo fare non so cosa uno dei riccardiventuri, mi cade l'occhio su qualcuno che entra. Mannaggia. Fine. Perdipiù, è un poliziotto; e, come se non bastasse, è seguito da un altro poliziotto, da un altro ancora e da un ultimo. Tre in divisa e uno in borghese, e quello in borghese sembra decisamente più sbirro degli altri. Riscuotendomi, mi dico che la cosa non è stupefacente; il locale si trova a pochi metri da una poliziotteria, e quindi ci sta che ci vengano a mangiare. Non alzo, volutamente, lo sguardo. Non c'è ragione perché lo alzi. I quattro si sistemano nella saletta retrostante, e io continuo a mangiare; solo che i riccardiventuri si sono tutti dileguati.

Il pranzo è terminato. La ragazza mi porta il caffè; e, naturalmente, non appena lo porta squilla il cellulare. Il risultato è che il caffè si fredda; generalmente non mi formalizzo troppo, io sono Ingurgitator e me lo bevo anche intiepidito. Però, anche visto il clima, oggi ci dovevo avere proprio voglia di un caffè bello caldo, perdipiù in ambiente napoletano. Mi azzardo quindi a chiedere alla ragazza se me lo rifà, scusandomi cento volte e beccandomi pure un sorrisone; e mi avvicino al bancone, chiacchierando di caffettiere arrovesciate e di come si chiamasse quel dolce. Vengo, all'improvviso, investito dalla conversazione dei poliziotti a tavola. Così, senza poterci fare niente.

Ma che hai visto ieri a Roma?
Io lo saprei come fare, prenderei dieci black bloc, li metterei tutti in fila e gli spaccherei il cranio col fucile.
Hai proprio ragione, ma possibile che noi le dobbiamo sempre prendere? Sparare altezza uomo e via andare!
E il finanziere lo hai visto? La pistola doveva usarla, doveva sparare a tutti quegli stronzetti figli di papà.
Quelli possono ringraziare che era uno scemo di finanziere
(risate, ndr), se c'ero io erano già tutti morti.
Vanno ammazzati tutti, tanto si sa come fare. Poi condannano lo Spacca
(Spaccarotella, così almeno credo, ndr). Gli andrebbe data una promozione, invece.

Poi, e forse è uno sbaglio, i miei orecchi si chiudono. L'avevano azzeccata i riccardiventuri passati a filarsela tutti all'inglese; quello presente è impercettibilmente impietrito, con uno sguardo indecifrabile, a sorbirsi il caffè caldo e a guardare la ragazza senza un filo di malizia, ma semplicemente per aggrapparsi a un essere umano. Sarebbe potuta essere un camionista bulgaro o un lottatore di sumo giapponese, e sarebbe stato lo stesso.

Pago velocemente ed esco. Non mi ero immaginato che sarebbe finita così. Appena uscito, decido mentalmente di fare il diversivo delle dediche; è una cosa che mi viene di rado, e solo in occasioni particolari, per evitare di tornare dentro e fare un casino. Di apostrofare quei merdosi come meriterebbero. Le dediche, dicevo.

La prima a chi ciancia ancora di polizia democratica e roba del genere. Quattro sbirri qualsiasi a tavola che commentano il fatto del giorno nei termini di cui sopra. Quattro sbirri qualsiasi nel 2010, colti nel loro normale conversare. Crani sfasciati, fucili, pistole, spari altezza uomo, la promozione.

La seconda al signor Camilleri Andrea, uomo di sinistra che dichiara di "credere nella polizia" e che destina i proventi di un suo libro alle vittime del dovere. Forse bisognerebbe che scrivesse meno vigàte e che li ascoltasse, i discorsi dei poliziotti; magari potrebbe anche riportarli in un romanzo del suo commissario "ganzo", quello che ha fatto il '68 e che piace a tutti, me compreso.

La terza a chi crede nelle favole. Tipo quella dei "Black Bloc" (che si sono sciolti anni fa), o anche quella degli "infiltrati". Siccome rivoltarsi non è concepibile, chi si scontra con la polizia deve per forza essere un "infiltrato". Così facendo, si riesce ad "essere di sinistra" evitando accuratamente di prendere posizioni troppo scomode, di quelle che esigono le condanne unanimi.

La quarta a chi blatera di "ritorno agli anni '70" e, in particolare, all'immancabile "1977". Qui, invece, gli anni '70 e il 1977 non c'entrano assolutamente un cazzo. Non è nessun "ritorno". C'è la formazione di una massa che resiste, invece. Resiste e agisce in mezzo alla decomposizione, al putridume, alla "democrazia" che qualcuno ha paragonato, giustamente, all'orchestrina che suona sul Titanic che affonda. Altro che "ritorno", queste sono fiamme accese dai libri bianchi, dal precariato, dai servindacati, dalla disoccupazione. E chi non se ne rende conto adesso, si troverà presto, lui, a fare sul serio il black bloc. Black come un cadavere e rigido come un bloc.

La quinta, infine, alla ragazza della trattoria, che deve aver capito qualcosa. Mentre ascoltavo, mi dev'essere partita qualche occhiata strana, e non certamente a lei. Mi ha applicato uno sconto mostruoso, offerto il doppio caffè e anche la sambuca con la "mosca". Tredici euri in tutto, per una piattata di pasta che avrebbe schiantato voi comuni mortali, due salsicce punta di coltello e un subisso di zucchini. Mezzo litro di vino rosso e l'acqua minerale (anzi no, naturizzata).

Sì, mi piacciono troppo le trattorie popolari. Mi piace andare nei posti dove ci si incontra con altri, e con vecchi se stessi. Mi piace perché non c'è mediazione, e io la mediazione non so nemmeno che cosa sia. Mi piace perché si ascolta e si capisce. Mi piace perché anche l'odio trova una spiegazione, e assieme all'odio la sua rabbia compagna. Fuori c'era un tipo piuttosto curioso. Era tutto bagnato, davvero come un pulcino; e in questa stagione non è propriamente piacevole. Sembrava quasi che fosse cascato a pie' pari in una fontana. Me lo sono preso sottobraccio e siamo andati a farcene una breve passeggiata per altre dimensioni.

martedì 14 dicembre 2010

atloviR


Mettiamola così.

Da una parte, gli ovvi cori istituzionali e le condanne. Il borgomastro, un fascista neanche troppo riciclato (oltre che il solito delinquente di tre cotte & sistematore di amichetti, come si è visto nei giorni scorsi) parla di violenza vergognosa; e finalmente se la sono guadagnata un po' di chiarezza, di estrema chiarezza. La foto sopra è, infatti, chiarissima. Dice che c'è gente che ha ricominciato a non scappare più, come diceva una vecchia canzonetta. Dice che le vetrine (neanche più tanto sfavillanti) di questo "natale" ancor più di merda degli altri sono state prese a sampietrini; dice che è stata assaltata la sede della "Protezione Civile", più nota come Agenzia Spot Governativi; dice che i blindati della polizia sono stati dati alle fiamme, così come l'elegante quartiere Prati. I tavolini dei caffè alla moda usati come armi. Una foto che dice, come si vede, molte cose. A tanti non faranno piacere. Ad altrettanti faranno paura. Perché quando si innesca qualcosa, le cose bruciano. Persino in Italia negli ultimi giorni del 2010.

Da un'altra parte vi sarà scetticismo. Per taluni, le rivolte sono esistite (o meglio, sono potute esistere) soltanto quando vi prendevano (più o meno) parte loro. Poi hanno decretato un ostracismo spesso fatto d'indifferenza, di sarcasmo e di astrusità indecifrabili; infine, in alcuni casi, hanno fatto come Jud Elliott III nel Paradosso del passato di Silverberg, e si sono infilati nelle loro epoche preferite, quelle "degne di essere vissute", lasciando a noialtri questo indegno tempo presente dove siamo condannati a pene fantasiose. Sorbirci quotidiane disillusioni, ad esempio; sconfessioni, patenti d'incapacità, un po' di tutto. La lotta sembra terminata con loro; e non solo. Sembra che se la tengano stretta come qualcosa di inviolabile, di non trasmettibile. Sembra a volte che le loro lotte se le siano messe in una cassetta di sicurezza in banca: nessuno può accedervi senza un codice, una combinazione. Eppure, e lo so, e lo vedo, qualcosa soffia ancora.

Da un'altra parte ancora, una giornata che è stata di mobilitazione contro un governo. Ora, per tanto tempo ho ripetuto anch'io che dei governi non me ne importa niente, e tutto quel che si vuole. Ad un certo punto mi sono reso però conto che un governo, oltre ad esistere, mi tocca da vicino e influenza la mia vita come quella di tutti. Ho smesso un po' di fare anarchicci senza troppo costrutto, e le macchine del tempo non mi interessano proprio più. Le rivolte e le rivoluzioni si fanno per abbattere dei governi di merda, come disse il maggiore Maia Salgueiro sul Terreiro do Paço, la mattina del 25 aprile 1974. Ai rivoltosi e rivoluzionari messicani non piaceva il governo di Huerta, e se non ci credete andatelo a chiedere a Pancho Villa, a Emiliano Zapata, a Venustiano Carranza. Mi risulta che a Cuba sia stato rovesciato un governo, quello di tale Fulgencio Batista; e non credo che i tipi con la barba lunga sulla Sierra Maestra si ponessero eccessivi problemi teorici. Ora, chiaramente, esagero. Quella di oggi non sarà certo la rivoluzione, nemmeno quella auspicata da Monicelli; ma quant'è che non si vedevano cose del genere in questo paese? Che ci si cominci forse a risvegliare dal funestus veternus, senza dichiarazioni roboanti o vane illusioni, ma nemmeno senza quello stupido gioco al massacro che interrompe sul nascita ogni scintilla? Un paese di merda, d'accordo; ma è altrettanto di merda bloccargli sul nascere ogni cosa perché dev'essere sempre e per forza di merda, di default. E di questo nichilismo d'accatto io ne ho definitivamente pieni i coglioni.

Infine, i black bloc o come cazzo li si vuole chiamare. Black bloc una sega. Oggi si voleva assaltare il Parlamento italiano mentre c'era la votazione sulla loro fiducia. Nessuna "cieca violenza", come vorrebbero gabellare le gazzette di regime, ma un obbiettivo. Come è successo dappertutto in Europa in questi tempi, dalla Grecia all'Islanda; in Islanda, a proposito, è stato rovesciato un governo. Qualcuno lo sapeva? E quelli là rinchiusi a Montecitorio, a contare i voti, gli Scilipoti e i Calearo, mentre fuori parecchie persone intendevano andare a presentar loro dei voti un pochino differenti.

Arrivato al termine di questo post, mi salgono alla tastiera parole strane e solforose. Tipo insurrezione. Forse esagero, ma preferisco esagerare piuttosto che far finta di niente, e di dedicarmi a parlare del gatto, delle mie mene esistenziali o del tempo che fa (un freddo da pelare). Siamo, è vero, molto bizzarri. Quando va a fuoco la Grecia, siamo tutti greci e ci si commuove con le fotine del cane insurrezionalista. Quando va a fuoco qualcosa qui da noi, ci si rintana a parlare d'altro e ad assistere al regime che parla di guerriglia teppista o roba del genere; oppure si ciancia di morte della democrazia quando qui da noi non è neppure nata; oppure ancora si presenta tutto come azione di branchi, esercitando l'arte tutta italiana di non prendere mai una posizione netta su quel che accade (che, poi, è quel che ci accade). Ma intanto qualcuno, per strada, usa un linguaggio molto differente, e pienamente convincente. Prende posizione. Si libera delle catene della legalità imposte da un sistema delinquenziale. Inutile che vi voltiate dall'altra parte. Quella gente, quegli studenti, quei chiunque là fuori ci stanno dicendo che è finita, e definitivamente, la pace terrificante. Non è insurrezione? Non è rivolta? Si metteranno per ora le lettere alla rovescia, come nel titolo. Ora sta a tutti metterle nel giusto verso. Ed è un verso che sa di fiamme, e non può sapere d'altro.

sabato 11 dicembre 2010

Legali e illegali


Mi sia riconosciuto almeno lo sforzo: nonostante la mia autentica allergia alle feste natalizie, alle luminarie cittadine, alla gente coi pacchetti e a tutta l'atmosfera che durerà fino al fausto (anzi, faustissimo) sette di gennaio, oggi, ebbene sì, sono andato in centro. Proprio per non fare sempre l'esagerato e l'asociale a oltranza; in fondo che sarà mai, ci ho pure la macchinina scassata che però può entrare praticamente dovunque in centro (persino nelle zone pedonali, cosa comunque impossibile perché rischierei di essere travolto e fagocitato dalla massa dei pedoni natalizi, assieme a tutta la vettura), e quindi via e andare. Rotta verso il mercato di San Lorenzo: lui, quello del degrado, della sihurezza, degli abusivi, dei comitati di cittadini, delle inchieste della "Nazione", dei quadrilateri della paura, delle infuocate assemblee. In una situazione del genere, si capisce che vada in giro con attaccato al giubbottaccio liso da 6 euri una spillina recante un mitra AK47 e la famosa frase di Magritte, ceci n'est pas une pipe.

Abusivi? Neanche l'ombra. Al loro posto, ogni cinque metri, degli avvisi fatti sistemare dal Comune di Firenze. Sono quelli che vedete nella foto sotto il titolo (cliccare per ingrandire). In tre lingue: ovviamente l'italiano, poi l'inglese ("it's against the law") e lo spagnolo ("prohibido comprar", per altro con un palese errore, "non original" al posto del corretto "no original"). Se ne deduce che i tedeschi, i giapponesi, i francofoni, gli svedesi, i birmani, i venusiani e quant'altri non meritano di essere avvertiti, e che quindi possono comprare quello che vogliono; sarebbe carino che qualcuno sistemasse degli avvisi in arabo, in wolof o in swahili avvertendo gli abusivi della cosa. Italiani, anglofoni e ispanofoni si arrangino; gli altri comprino pure.

La cosa più interessante, però, è l'immagine che sormonta gli avvisi; la quale, forse per sopperire alle lingue mancanti, mostra appunto gli abusivi, quelli da cui è prohibido comprar, quelli against the law. Eccoli:


Nella foto, presa di spalle, si specifica quale sia la merce illegale "contraffatta" (le virgolette sono usate direttamente nell'avviso) -consistente esclusivamente in borse- e si fornisce un campionario di abusivi. Borse e negri. Suggerendo ovviamente che siano illegali sia le borse che gli esseri umani che le vendono. Quattro persone che sono state fotografate di nascosto per andare a finire su un avviso del Comune della Bellezza.

E, allora, visto che non del tutto casualmente io mi porto sempre dietro la fotocamera digitale, mi sono detto: perché, visto che ci sono, non fare qualche fotina anch'io? Perdiana, se la merce illegale ed i relativi abusivi sono messi davanti a tutti, con tanto di giglio fiorentino, bisognerà pure documentare quale sia la merce legale e non "contraffatta" che viene venduta a San Lorenzo. Le foto che seguono ne sono un piccolo esempio.


1. Si parte con questa meravigliosa e legalissima serie di padripìi, cristi stile finta icona russa, madonne con bambino eccetera. Tutti regolarmente prezzati: al signor Forgione Francesco hanno appiccicato un bell' "euro 12" direttamente in fronte, mentre la madonna bambinata costa due euri in meno (segno che la madonna, oramai, è in ribasso di fronte al padreppìe rullo compressore). In modo del tutto legale e non abusivo, pure il cristo russo ha lo stesso prezzo della madonna. Se ne deduce che, oramai, la santa trinità con annessi e connessi non funziona più. E' stata scalzata. Padre Pio è al secondo posto dopo il Padreterno, ma secondo me, legalmente, sta iniziando a tramare per il colpo di stato.


2. Qui, invece, vi presento una catasta di felpe "Italia", le quali -così almeno credo- dovrebbero convincere definitivamente il turista forestiero di trovarsi nel cuore della culla del Rinascimento, della città di Michelangelo e Botticelli, e, più che altro, nel paese del bello, della cultura, dell'arte e del sole. Una sola scritta enorme, che vorrebbe dire tutto: e, infatti, lo dice eccome. Lo dice in modo del tutto corrispondente a quel che è l'Italia adesso. Il paese dove tutto è legale. Legaland.


3. E, visto che siamo in Italia, si potevano scordare le nostre possenti radici partigiane che affondano nel solco immortale della Resistenza? A tal uopo, ecco delle legalissime borse, o sacche, o du' paia di coglioni, che recano la dicitura Ciao Bella italianamente vergata con lo stesso stilema grafico della Coca Cola. Imperdibili. Mai più senza.


4. Arte, cultura, resistenza. Molti anni fa, imperversavano magliette e felpe con i loghi di impensabili università americane; qualcuno deve aver pensato che era il momento di presentare una risposta italiana. Noi che abbiamo le università più antiche del mondo! Si sente però dire in giro che le prossime versioni di queste felpe verranno così modificate: Università di Firenze - Quel che ne resta dopo la riforma Gelmini. Oppure: Università di Pepsi Bologna. Oppure ancora: Pontificia Università Cattolica "La Sapienza" - Roma. Infine: Università Padana "Vittorio Borghezio" - Milano. Tutto, va da sè, pienamente legale.


5. Potévasi non terminare con un'altra sbraciata di legali cristi e madonne, tra cui il famoso cristacchione adorante preferito da schiere di camionisti?

Ecco, questo è un modesto campionario della merce legale in vendita a San Lorenzo e in decine di altri mercati e mercatini tipici. Intanto, camminando, notavo una cosa. Gli abusivi non c'erano più, con tanto di avvisi; ma di bancarelle legali ce ne sono sempre di meno. Spazi vuoti. Chiuso, Closed, Cerrado (tanto per attenersi alle tre lingue canoniche). E mi diceva un bancarellista (rumeno) che non chiudevano certo a causa degli abusivi, ma per la tassazione sempre più esosa imposta per l'occupazione di suolo pubblico, per le vessazioni operate dalla Polizia Municipale, per la merce sempre più banale e scadente che sono costretti ad acquistare e cercare di vendere per rientrare nei prezzi di acquisto.

Altro che degrado, altro che sicurezza. Il mercato sta chiudendo gradualmente, ed è un maledetto imbroglio che è stato scaricato sulla schiena di poveri cristi che vendono merce illegale del tutto identica a quella legale. La stessa paccottiglia che nessuno acquista. Marchi su marchi che non dicono niente a nessuno. E, un bel giorno, San Lorenzo sarà vuota. Niente più abusivi e niente più legali. Strade liberissime, pronte per accogliere banche, localini, negozietti carissimi, dehors, pizze a taglio, uffici di assicurazioni. Abitanti sfrattati. Centri storici distrutti. E la "Nazione" sarà tanto contenta.

lunedì 6 dicembre 2010

Alexis e gli altri


Il sei di dicembre non gli vuole bene, ai ragazzi. Che studino o che lavorino. Che se ne stiano in una strada a manifestare, oppure a scuola, oppure a guadagnarsi la vita con fatica; si direbbe che non ci sia scampo. E, infatti, non lo hanno. I ragazzi sbagliano sempre, dovunque siano e qualunque cosa facciano. Se manifestano, c'è sempre qualcuno che li reprime da una parte oppure che dice che le loro manifestazioni non servono a nulla, dall'altra. Intanto, però, giù manganellate, cariche, ex-presidenti che li vogliono mandare all'ospedale, denunce, e anche qualche morto. Qualcuno per caso si ricorda di Alexis Grigoropoulos? 6 dicembre 2008, due anni fa precisi. Quindici anni. Esecuzione capitale per la strada, a cura di un poliziotto delle forze speciali greche, tale Epaminondas Korkoneas. Poi sono cose che non si seguono più; ad un certo punto, si sa come va a finire. Lo sdegno, le canzoni, i simboli che durano lo spazio, al massimo, di qualche mese. Finisce non solo che si dimentica, ma che la cosa appaia normale anche nei rari casi in cui ci si sforza di ricordare. Normalissimo che un ragazzo di quindici anni venga ammazzato come un cane da un agente di polizia, così come è normale che certi prèsidi di liceo chiamino la polizia a tirare addosso e a disperdere i propri alunni, denunciandoli pure a casaccio e finendo con il dichiararsi ex sessantottino e dicendo che però nel '68 c'era più rispetto per le istituzioni.

Non mi sento particolarmente un "ganzo" o roba del genere perché di Alexis me ne ricordo, e gli voglio pure lanciare un saluto, un γειά σου. Avrebbe compiuto, quest'anno, diciassette anni. Diciassette anni per me sono un'età particolare, e non nascondo che me ne sono servito spesso per provare a respingere un po' il tempo che passa; poi c'è stata, certo, di mezzo anche una canzone che parla di tornare a diciassett'anni:


Inutile. Non ci si torna affatto, comunque la si metta. E Alexis si è fermato prima. Non può più tornare, né avanzare. Immobilizzato. E non è affatto vero, come dicevano certi suoi antichi conterranei, che muor giovane colui che agli dèi è caro. Gli dèi non ci sono, e lui era caro ai suoi amici, alla sua famiglia, alla sua vita di ragazzo. Non è stato caro a uno che va in giro armato fino ai denti per conto di uno stato; è morto giovane, giovanissimo. E basta. Un altro nel calderone dell'oblio e a far da articoletto tra milioni su Wikipedia. È sottoterra. Era il sei dicembre di due anni, di due schifosi anni fa.


Non gli vuole bene il sei di dicembre, ai ragazzi. Nemmeno a quelli in tuta da lavoro, ché la fabbrica rimane fabbrica anche in tempi di precariato dove tanti aspirerebbero a finirci dentro. In questi ultimi anni mi sono formato, certo, la convinzione profonda che la società del lavoro è il principale schifo che dovrebbe essere abbattuto; una critica radicale, o come la si vuole chiamare, che ha i suoi teorici e i suoi fautori. Però, ogni giorno, con la società del lavoro si ha a che fare. I critici radicali sono pochi, e senza molta voce; e càpita di dover andare a lavorare, e di lavorare in condizioni sempre più orribili, e di morire. Morire e morire. Tonnellate di morte. E anche di questa morte, alla fine, succede di non parlarne più o quasi nella sua quotidianità che viaggia spedita verso l'indifferenza. Tutto diventa una generica rabbia. Ci sono, a volte, dei "processi"; sappiamo tutti bene come termineranno. Suonano le sirene, la fabbrica è stata magari delocalizzata, e altri ragazzi, uomini e donne vi entrano tutti i giorni, benedicendo magari quell'ingresso. E devono essere capite e capiti, perché forse, nel loro tempo libero, vanno in una qualche discoteca più o meno squallida della cintura torinese, e non a leggere il Manifesto contro il lavoro del gruppo Krisis. Che andrebbe letto, certamente, e bene; ma mi sono a volte chiesto come campino i teorici di quel gruppo. Faranno traduzioni precarie e malpagate? Saranno sepolti in qualche impiego statale dal quale abbattono e distruggono teoricamente? Oppure qualcuno, perché no, sarà entrato in polizia? E chi lo sa. Intanto, in fabbrica succede che un treno di laminazione esploda; e che "faccia notizia", proprio magari mentre, in quel preciso momento, un edile al nero voli giù da un'impalcatura a centinaia di chilometri di distanza, oppure anche a duecento metri. E succede che dei ragazzi salgano poi su una gru, e che sotto ci sia il vicequestore (senz'altro figlio del popolo) che impartisce ordini alla truppa. E succedono migliaia di altre cose; una di queste il 6 dicembre 2006. Di quello, ancora, se ne ricordano in parecchi; sarà sì per il numero di ragazzi al lavoro che sono morti, e forse anche perché "Thyssen Krupp" si ricorda meglio, che so io, di "Laminatoio Mario Rossi". Quanto costerà la loro vita alla produzione? A che cosa serve, esattamente, quella produzione? Domande, forse oziose, da sei dicembre. Hanno anche qualche risposta, ad esempio un numero: dodici milioni e novecentosettantamila euro. È il risarcimento offerto dalla Thyssen Krupp ai loro familiari, da dividere per sei ragazzi cui è stata laminata la vita. I familiari hanno accettato, rinunciando in cambio a costituirsi parte civile nel processo ai dirigenti dell'acciaieria tedesca; e non devono essere fatti oggetto di alcun giudizio, da parte di nessuno. Era il sei dicembre di quattro anni, di quattro merdosi anni fa.


Studiate ragazzi! I veri studenti stanno in classe a studiare! Non mi ricordo bene chi lo abbia detto, ma mi sembra che abbia a che fare con Gògol, con Romolo e Remolo, con le barzellette e con un discreto numero, giustappunto, di studentesse (o comunque di ragazzine in età scolare). Ora vi voglio raccontare una storia, che parla proprio di ragazzi e ragazze che studiavano. Anzi, erano addirittura in classe a studiare. E siccome un certo giorno non vuole bene ai ragazzi, era proprio un sei di dicembre. Stavano imparando l'inglese, in classe. L'inglese è importante, è la lingua del mondo e bisogna parlarlo e scriverlo, sennò sei di serie B. Il signore che ora dice che i veri studenti stanno in classe, e non a manifestare e occupare, allora non era sceso ancora in campo. Tra le sue "tre I" c'era sicuramente l'Impresa, ma di Internet sapevano soltanto pochi addetti ai lavori. Però esisteva l'Aeronautica Militare. La mattina del 6 dicembre 1990, mentre studiavano l'inglese nella loro classe, la II A del Liceo Salvemini di Casalecchio di Reno, provincia di Bologna, entrò un valoroso pilota. Dentro la classe. Anzi no, pardon: lui non c'entrò affatto; c'entro, invece, il suo bell'aereo militare. Non si sa esattamente che cosa facesse. Industria italiana: si trattava di un Aermacchi MB-326, un aviogetto da addestramento partito dall'aeroporto di Verona-Villafranca; lo pilotava tale Bruno Viviani il quale, si dice, accortosi che l'aereo era fuori controllo azionò il dispositivo di espulsione di emergenza salvandosi così, eroicamente, la pelle. Pelle che non salvarono dodici studenti e studentesse un'insegnante della II A. Avevano sui quindici anni, come Alexis Grigoropoulos. La scuola intera prese fuoco. Solo quattro studenti si salvarono, di quella classe dove stavano a studiare. Senza scampo. Non stai in classe, e ti manganellano o ti ammazzano; stai in classe, e ti ammazza l'aviazione.

Processo, processo! Il pilota e i suoi superiori difesi dall'Avvocatura dello Stato, cosa che non spettò agli studenti e alle loro famiglie, "parti civili", nonostante una scuola sia pure un organismo statale; il Ministero della Pubblica Istruzione "non lo richiese". Primo grado: condanna per disastro aviatorio colposo e lesioni, e risarcimento. Appello: tutti assolti e nessun risarcimento. 26 gennaio 1998: la "Corte di Cassazione" di Roma, come dice il suo nome, cassa tutto. Assoluzione perché "il fatto non costituisce reato". Fatale incidente. Otto giorni dopo esatti, un altro fatale incidente trancia due o tre fili di una funivia, in Trentino. Va bene. Vorrei solo che i ragazzi di adesso se ne ricordassero, specialmente quando nei loro licei vedono, tra un'ordinanza-lager del preside di turno e l'altra, affissa in bacheca qualche propaganda dell'Aeronautica Militare che l'invita a scegliere quella "via per il futuro". Belle divisine blé, sorrisi, accademie, aeroplanini. Ogni tanto, magari, viene pure qualche ufficialotto tutto azzimato a magnificare com'è bella l'Aviazione. Sembra uscito da un libriccino di Liala. Immaginate se qualche ragazzaccio gli dicesse di andare a farsi fottere, a lui e a tutta l'Aeronautica, e gli ricordasse quei dodici ragazzi e ragazze di Casalecchio morti per un fatale incidente. Era un sei di dicembre di venti, di venti inutili anni fa.


No, davvero. Il sei di dicembre non vuole bene ai ragazzi; e, a pensarci bene, nemmeno tutti gli altri e trecentosessantaquattro giorni, trecentosessantacinque nei bisestili. La loro unica funzione è di far vendere roba. Non sanno lottare. Non hanno lo status di generazione. Non hanno ideologie. Non sono niente, insomma. Possono scegliere tra morire male (per la strada, al lavoro, a scuola, le ragazze ammazzate dal fidanzatino geloso, dal babbo, dallo zio, dal branco, dalla cugina, dallo stalker...) e un futuro che non c'è. Scritto un sei di dicembre; ma mi vorrei illudere che da qualche parte, in culo a tutti, ci siano un ragazzino con la maglietta, sei ragazzi in tuta da lavoro e dodici ragazzi con gli zainetti e i libri d'inglese che preparano un dispetto terribile a tutti i poliziotti, i padroni e gli aviatori militari di questo mondo.

domenica 5 dicembre 2010

PDL, Partito Dei Luridi


La cosa più giusta, credo, l'ha fatta chi, alcuni giorni fa, ha depositato quindici chili di merda di fronte alla sede del "Partito delle Libertà". Perché sarebbe anche l'ora di fare un pochino meno i generici: d'accordo che un simile trattamento lo meriterebbero anche i partiti della cosiddetta "opposizione", d'accordissimo che lo meriterebbero ancor di più sia la "democrazia rappresentativa" che non rappresenta un cazzo di niente e l'intero sistema che ci domina (o meglio, dal quale ci facciamo dominare); però, intanto, non sarebbe male cominciare a spazzare via la merda che più puzza. Senza tanti tentennamenti, cavilli, contorsioni, smarcamenti, rifugi e quant'altro. Ritengo che, ora come ora, non ce lo possiamo più permettere. La merda di fronte alla sede di questi schifosi criminali è restituir loro l'essenza delle cose, la realtà della materia.

Si prenda, a mo' di esempio recente, la "consigliera" del PDL toscano Clarissa Lombardi. Oggi, sulla sua pagina "Facebook", la signora o signorina si è sentita in dovere di pubblicare certe sue esternazioni. Allora, stando così le cose, secondo me non è più tempo né di "civili risposte", né di altro. Il livello di guardia con la gente tipo la signora o signorina Lombardi è stato ampiamente superato. Le venga una buona volta restituita la merda che rappresenta e che spande.

Mi complimento quindi con gli sconosciuti, rom o non rom, che le hanno fregato la borsa. E capirai! La signora o signorina fa parte di un'autentica associazione a delinquere, che in questi ultimi anni ha depredato tutto ciò che c'era da depredare, in termini economici e sociali, in termini di risorse e di coscienze. Il suo "capogruppo regionale", Alberto Magnolfi, dice che quello della Lombardi "non è il nostro modo di pensare né il nostro modo di esprimersi"? Volendo, questo qui è ancor più bugiardo e vomitevole della Lombardi. Sì, invece questo è proprio il vostro modo di pensare e di esprimervi. Quello che avete fatto di tutto per generalizzare. Quello che affidate ai vostri schifosi giornali e alle televisioni del vostro padrone, ignobili servi. E' il modo di pensare dei vostri puttanieri, delle vostre puttane, dei vostri pretonzoli, dei vostri nani, delle vostre ballerine e di tutto il vostro "popolo" di vermi.

Non è più ora di indulgenze, di sorrisi sdegnosi, di "tirarsi fuori" sia a base di inutili eleganze, sia di passati, passatini e passatoni. Bisognerebbe decidere, a mio avviso, se vogliamo o meno avere uno straccio di futuro senza macerarsi in "disillusioni" cretine, oppure in distruttività (personali e collettive) che sto sempre di più trovando un comodissimo mezzo per farsi sempre e comunque gli affaracci propri, e senza ammettere critiche. A forza di "tutto merda sempre e comunque", la merda ha avanzato indisturbata. A questi qui piace così tanto vivere nella merda, senza nemmeno più provare a fare qualcosa? Padronissimi. A me invece non piace affatto. Bisognerà che lo dica molto chiaro. Nell'attesa che nostra patria sia il mondo intero (cosa che, peraltro, mi appartiene nel profondo che ho cercato di vivere e di applicare ben di più di tanti anarchichelli da strapazzo, e tanto più da strapazzo quanto più esteriormente "duri e puri"), nell'attesa di distruggere stato e sistema (cosa che non si fa in quindici), allora vorrei che nel posto dove sono nato e dove vivo, che non è di per sé più o meno merdoso di altri, ci fosse un po' meno di merda. E mi metto in gioco. Senza crearmi "miti" a base di cose che non mi attengono. Né a base di orienti, di occidenti, di impressioni falsate dall'idea che altrove sia sempre e comunque meglio.

E, allora, e allora come fu una volta, via la merda dall'Italia. Fuori dai coglioni il "Partito delle Libertà", le sue consigliere razziste, i loro caporioni ladri, i loro "degradi" e le loro "sicurezze", il loro merdaio. Questi devono essere cacciati via. Ho constatato che, ultimamente, si ha quasi paura nel dirlo. Si ha paura di essere fatti oggetto di scherno e sarcasmo, e dell'augusta sufficienza di quelli che "Berlusconi e il berlusconismo non è il vero problema". Sicuramente; ma, intanto, quel che si ha sotto gli occhi esiste. Lo si tocca. Lo si vede. Lo si sente salendo le scale di una questura. Lo toccano, vedono e sentono all'Aquila, a Rosarno, dovunque. Lo tocchiamo, vediamo e sentiamo sulla nostra pelle, anche se scappiamo via; e ci fa stare malissimo, anche se facciamo gli indifferenti e i "superiori". Ci fa stare schifosamente anche se ce ne andiamo agli antipodi. Ci farebbe stare orribilmente anche se ce ne andassimo su un altro pianeta.

Il Partito dei Luridi non sarà l'unico resposabile di tutto questo, ma intanto sarebbe meglio sbarazzarcene. Sennò, dai, continuiamo a dire che questo è un paese di merda mentre la merda ci seppellisce. E invece dovremmo essere noi a cambiare, e a ricominciare a seppellire di merda quegli altri. Anche la schifosa fascista razzista pratese "consigliera".

mercoledì 1 dicembre 2010

Coti Nere, Μαύρες Πλαγιές


Avvertenza: Questo è un post smaccatamente e elbanamente pubblicitario.

La birra, come tutti sanno, è nata all'Isola d'Elba. Esagero? Niente affatto. Poiché la nascita della birra è, per forza di cose, avvolta dalla leggenda, io posso fabbricare tutte le leggende che mi paiono. Che la birra sia nata all'Elba ha la stessa cittadinanza di farla nascere in Egitto, o in Cina, o nelle misteriose contrade del Prete Gianni. Hanno ritrovato polverosi rimasugli di birra in Mesopotamia? Io li ho ritrovati a Marciana Alta, alle pendici (πλαγιές) del Capanne, mentre la cabinovia tossiva vuota e quasi talmente gallese da far immaginare un Capwnnw (niente può essere gallese senza doppie vù). Free beer here!


La cabinovia del Capwnnw (Marciana, Galles).

Dunque, dicevamo. La birra è nata all'Elba e le Coti Nere, birrificio roccioso fra scorrere d'acque sorgive e ninfe nascoste e mezze briache che circolano nei dintorni, confermano al viandante questa ardita ipotesi. Viandante ero; a bordo d'un bizzarro e grosso mezzo meccanico, che per fare una curva mi ci volevano fior di manovre, vi sono arrivato un sedici di novembre da solo, senza manco sapere se fosse aperto, e con il preciso intento di testimoniare un atto d'amore. Tale me lo figuravo; tale è stato. Mi ha accolto, nell'umidore autunnale, un giovane tra etichette e calderoni; solo come io ero solo, e due soli fanno un bel po' di raggi.


Calderoni.

Provengo da strani studi dove i calderoni della birra sono ben presenti, e hanno nomi non consueti; a volte sono sistemati all'ombra del sacro frassino Yggdrasill, ma gli fa una sega ai castagni e agli altri alberi della nostra isola. Quando all'Elba nacque la birra, il frassino era appena un tenero germoglio; e così fu mescolata ai marroni, acidulata, brassata, intorbidita e persino cacciata a trenta metri in fondo al mare. Così è; si chiama birra del Palombaro e, per farla maturare, viene presa e immersa come il Cristo degli Abissi. Solo che, mi dicono, il Cristo non si beve; ed è un gran peccato. Se Cristo si bevesse in forma di birra, guadagnerebbe molti più adepti che a fargli salvare un'immeritevole umanità che beve Pepsi Cola. Dicono che Ratzinger sia un fanatico della Fanta; segno inequivocabile che Dio non esiste. Sto divagando? Intanto questa è la birra del Palombaro, che nella versione originale presentava l'effigie del campese Teseo Tesei, inventore delle motosiluranti MAS (notissime a chiunque sia appassionato di parole crociate):


Tra tutte queste divagazioni, però, bisognerà che parli anche un po' di questa famosa birra primigenia elbana; poiché il giovanotto che la produce me ne ha fatto opportunamente dono di un bel po' (cosa per la quale lo avrei baciato voluttuosamente se fossi stato una bella fanciulla, arrivando forse persino a dargliela), debbo dire che la seconda impressione è stata ancora migliore della prima. Birra pesante, soda, che trasmette gli odori del luogo dove la si produce. Quando s'arriva in un posto avvitato al desiderio del sapore, la prima cosa da fare è captare gli odori, come un cane segugio. Foglie marce, odor di pietre, annusar ferro. Quando abitavo nel nord della Francia, altro bel luogo birroso, c'era odore di carbone; e la birra sapeva di carbone. Qui sa di ferro, di rocce e di bestie selvatiche. L'acidulo è leggero, e al tempo stesso marcato. I marroni che vi sono mischiati sono, probabilmente, mezzi acerbi. I rutti che provoca alla bevuta sanno di minerale e fanno benissimo. Il rutto è importante. Con una birra del genere è lieve, denso; non il rutto volgare di una birra industriale qualsiasi. La bevi e stai bene perché si biforca: una parte va allo stomaco, una parte alle impressioni. Tu che non sei, disgraziato, mai stato all'Elba: beviti una bottiglia di Domina, e già ci sei. Le Coti Nere stanno all'Aleatico, di quello vero. Un bicchiere fabbrica storie.


Costa parecchio. Non la trovi che all'Elba e in pochissimi altri posti; ne viene fatta poca, come tutte le cose fatte con quella mistura di cognizione di causa e di amore che, in altri ambiti, andrebbe sotto il nome di Arte. Del resto, se avrai la ventura di comprarla e bertela in certe condizioni mentali (come mi accadde la prima volta a Chiessi), il prezzo ti sembrerà anche troppo basso. Non vorrei che, nonostante tutto, quel che sto scrivendo sia preso come una banale piaggeria; la birra che mi è stata regalata da chi la fa me la sono bevuta a casa mia, a Firenze, in compagnia d'un amico che aveva recato ogni sorta d'affumicato. E sul pavimento s'è formato un Capannino, e sul tavolo una piccola Marciana con le sue case abbarbicate, e nella mente tutta l'Elba, e le sue accidentatezze, e la sua solitudine novembrina, e il suo mare da sempre servo delle montagne. Càpita solo quando un prodotto induce pensieri d'amore e di bellezza; e allora la vita appare davvero degna d'essere vissuta, assieme ai ricordi e agli incontri che genera. Μαύρες Πλαγιές: andateci. Spendeteci un portafoglio, mica lo vorrete spendere in telefonini o in SUV. Ci sono cose che sono esistenza, e l'esistenza può benissimo manifestarsi in forma di birra. Coti Nere, of course!