giovedì 28 giugno 2012

martedì 26 giugno 2012

Istruzioni per mio fratello

 
Queste sono delle istruzioni per mio fratello. So che, qualche volta, legge questo blog; lo prego quindi di seguire alla lettera quanto sto per scrivere.

Chissà, potrebbe sempre capitarmi, che so io, un controllino di polizia; e magari incoccio in due o tre di quelli belli fascistoni, muscolosi, capelli a spazzola o cranio rapato. Chissà, addirittura, che non possa beccarmi quelli del film "ACAB", ve ne ricordate? Quello presentato come una sconvolgente pietra miliare der grande cìnema itagliano, e che è passato in due giorni senza lasciare traccia alcuna. Chissà che non mi facciano parecchio male o, persino, mi cerchino l'anima a forza di botte, trovandola pure. Come, ad esempio, a Federico Aldrovandi. Oh, sono delle possibilità che si presentano ovunque esistano delle polizie. Ovunque esista lo stato. 

Caro fratello, prima di tutto dovrò esporti sia pur brevemente che cosa io pensi della questione. Ai fini delle istruzioni che sto per darti.

Ritengo che una delle più grosse disgrazie post-mortem di queste persone, dei morti per mano poliziotta, siano i loro familiari: padri, madri, sorelle, fratelli, zii, cugini. Non solo è toccato loro morire di legnate, o sparati; non hanno ancora finito di essere ammazzati, che già i familiari dichiarano di credere nella giustizia. E vai. Come dire: mi sono tirato una martellata sui coglioni, e la prima cosa che faccio è esclamare: "Credo nei martelli!". Poi, vediamo, ah sì: prima o poi c'è l'appello al Presidente della Repubblica (lettera aperta ecc.). Prima o poi, una qualche manifestazione di solidarietà (ci sono stato anch'io, una volta a Livorno, per Marcello Lonzi ed altri) intitolata "Per non dimenticare" o qualcosa del genere. In breve i familiari dell'ammazzato/a dalle "forze dell'ordine" si trasformano in indefessi "credenti nella giustizia"; vogliono giustizia, invocano giustizia, vogliono i poliziotti assassini a processo e, guarda un po', qualche rara volta ci vanno anche. Come nel caso, appunto, di Federico Aldrovandi.

Al processo, come è noto, si ammanniscono "anni di galera". Come l'anno luce è l'unità di misura delle distanze intersiderali (anche se mi dicono che ora si usa il "parsec"), l'anno di galera è l'unità di misura della "giustizia". I processi si concludono con sentenze che oserei dire singolari: un ragazzo di diciott'anni che non aveva fatto un cazzo viene ammazzato di botte da quattro servi pezzi di merda, e la "giustizia" per il suo assassinio consiste, anche utilizzando l'unità di misura di cui sopra, in tre anni e sei mesi. Tre anni condonati per indulto, e sei mesi di galera virtuale.

Al che i familiari, all'unisono o quasi, dichiarano: "Giustizia è fatta"!

Nel frattempo, i quattro assassini non soltanto non vengono affatto misurati con l'unità suddetta, ma continuano anzi a prestare servizio, a ricevere uno stipendio, e a incassare solidarietà persino "istituzionali". Oh, i familiari del morto mica crederanno che la solidarietà, ricercata in mille modi e sovente fantasiosi, sia solo per loro; di solidarietà ne hanno, senza manco troppo cercarla, anche gli assassini. Ed è quasi sempre una solidarietà parecchio più potente. Non solo. Una volta "condannati" ma sottoposti a un fantomatico "provvedimento disciplinare" che nessuno può seguire o influenzare, e magari colpiti dalla durissima sanzione del "trasferimento", questi qua continuano a imperversare, magari (e come dubitarlo) dalle loro pagine "Facebook". Coram populo, davanti a tutti. Così, quando finalmente la tanto agognata "giustizia" è fatta, sappiamo che, in realtà, le vere "vittime" sono loro (minchia, signor tenente). E non basta. Le forze dell'ordine sì che hanno il "senso della famiglia" e dell' "educazione", si permettono di dire a una madre con un figlio ammazzato che lo ha "allevato come un maiale", che "quella troia ora si gode il risarcimento" mentre loro "prendono 1300 euro al mese" e roba del genere, spalleggiati da colleghi, simpatizzanti, bravi cittadini qualsiasi, chi più ne ha, più ne metta. 

Allora la madre, o il familiare, che cosa fa? Presenta un esposto. E continua a "credere nella giustizia" che è stata così tanto fatta. Su, dài, che ora magari verrà affrettata la "disciplina"; o anche no. Ho come il sospetto che Federico Aldrovandi, da Ferrara, anni 18 per sempre, nell'indefinito luogo in cui si trova ora si stia facendo, da un lato, delle risate grasse ma amare; e, dall'altro, che intenda far pervenire a sua madre un messaggio (tanto "Facebook" ce lo hanno pure i morti, oramai...) del tipo "Mamma, lascia stare, tanto è inutile. E' andata così e mettiti il cuore in pace. E che nessuno più mi rompa i coglioni."

Ecco, caro fratello, così va. Sempre. Passo quindi a darti le famose istruzioni.

Dopo che, eventualmente, sarò stato inviato fra i più da un paio di questurini, dichiara immediatamente che nella "giustizia" non ci credi proprio un cazzo e che può pure andare a farselo troncare nel culo assieme alle leggi, agli avvocati, ai giudici, alle galere, alle istituzioni, alla solidarietà e a quel porco di dio. 

Vedi, fratello mio, io al limite sarei pronto a capire, e alla perfezione, il meccanismo della vendetta; ma non posso pretendere tanto e volerti trasformato in un Rambo che va a far fuori due o tre sudiciumi armati fino ai denti e addestrati militarmente. Potrei insegnarti qualcosa sulle piante velenose, ma non so se funzionerebbe. Ad ogni modo, se ti intervistano in tivvù (ma data la mia importanza, al massimo ti potrebbe intervistare Radio Peretola Internèscional), dichiara solennemente di cacare sopra la giustizia e su tutto il resto. Da qualche parte, su un foglietto, troverai la password di questo blog, sul quale farai un saluto a tutti da parte mia, meno che a uno, e inserirai il testo della canzone "Un blasfemo" di Fabrizio De André (il testo lo trovi su diecimila siti), con relativo video iutùbe.

Eviterai categoricamente di prendere contatto con altri "familiari di vittime", e specialmente con la sorella di Stefano Cucchi. Mi duole dirlo, ma l'unico che abbia mai sentito dire le cose giuste, almeno a caldo, all'inizio, fu il padre del fascista Gabriele Sandri; ma non prendere contatto nemmeno con lui sennò il mio fantasma ti viene a tirare le lenzuola. Guai a te se organizzi una "manifestazione per-non-dimenticare" perché voglio essere dimenticato, e possibilmente alla svelta. Lascia gli eventuali miei assassini in divisa dire quel che vogliono su Facebook, e se anch'io per caso verrò tacciato di essere stato "allevato come un maiale", vorrà dire che con me ci faranno i 'presciutto. Magari, poi, s'imbattono nella "mia" celebre paginona falsa, cominciano a blaterare "ma....ma a te 'un ti s'era ammazzato.....!?!" e gli piglia un coccolone secco (giustizia è fatta!). Nella mia tomba voglio una decina di settimane enigmistiche vuote con penna e bianchetto. Soprattutto, guardati bene dal presentare denunce, esposti, richieste di "giustizia", cazzi e mazzi; evitami, per favore, la presa per il culo dei "processi", e le galere io voglio che siano abbattute. Tutte quante, dalla prima all'ultima. Non scrivere non dico a Napolitano, ma nemmeno al segretario della Polisportiva Sant'Ambrogio. Beviti un paio di bicchieri alla mia salute, occupati del gatto (che glien'importa una sega a lui se m'hanno ammazzato, lui vuole la pappa e i grattini e fa parecchio bene) e ci avrai a disposizione una marea di libri per imparare lo slovacco antico e il laotiano meridionale.

Poi ti chiedere, in ultimo, una cosina un po' difficile; non so se te la senti, ma ci terrei veramente. Datti da fare per distruggere lo Stato, le sue istituzioni, la sua "giustizia", la sua polizia, tutto quanto. Perché tutto passa di lì, sai. Passa di lì, soprattutto, parecchia morte. Ma parecchia.

Ecco, questo e tutto. Poi, chiaramente, magari vai a stringere la mano ai poliziotti che t'hanno finalmente liberato da un fratello del genere e vai a festeggiare la mia dipartita alla trattoria "Da Gualtiero" di Sant'Angelo a Lecore. Ti capirei, caro fratello, credimi; infatti ti ho messo anche lo champagne nella foto. Ma intanto sarebbe meglio meno "solidarietà" del cazzo, meno richieste di "giustizia", e più [                      ]. Lo spazio bianco riempilo tu, riempitelo tutti.

lunedì 25 giugno 2012

Dell'Incompiutezza

  1. Forse questa cosa sarebbe dovuta chiamarsi Degli Incompiuti, più che Dell'Incompiutezza. Riportare tutto alle persone, a chi dice di avere lottato e creduto, a chi ancora non ha cessato e continua a pagarlo; oppure a coloro che, invece, hanno cessato da tempo e si trascinano in rabbie, in disillusioni, in disimpegni più o meno ostentati e accompagnati quasi invariabilmente dalla presunzione di essere gli unici ad avere “capito qualcosa”. Ma preferisco l'astratto, perché un'astrazione lessicale è maggiormente capace di comprendere tutto l'insieme e, al contempo, stabilisce una precisa relazione con la Storia. Dalla Storia tutto proviene; inutile, totalmente inutile, ozioso, autoreferenziale continuare a raccontare a sviscerare storie, storielle, accaduti e episodi se non si è capaci (inconsapevolmente, il che segna un limite disperante; o consapevolmente, il che segna una colpevolezza e una intrinseca contiguità col nemico nonostante una gran massa parole roboanti quanto vuote) di farci davvero i conti, con la Storia. Se c'è una cosa che si sente più che spesso dagli Incompiuti, è la tiritera sulle “risposte” e sulla “responsabilità”; frasette o massime, tipo quella famosa di Erri de Luca, che da un po' di tempo assolvono al fondamentale compito di fornire il bell'exergo al blog “smilitante” o alla paginetta Facebook dello smobilitato che, però, non rinuncia a fingere di “combattere” perché così impone l'amato personaggio che si è creato, magari con un codazzo più o meno consistente di adoratori e adoratrici (che, peraltro, non sanno sovente di essere la sua periodica carne da macello).
  1. Prima di decidere, almeno in Rete, di non aver più nulla a che fare con questi “Incompiuti” nel migliore dei casi, e con degli autentici psicopatici attorno ai sessant'anni nei peggiori (impedendo loro di venire a “contatto virtuale” con il sottoscritto, perché la Rete ha fornito un cibo perfetto a parecchi di questi mentecatti), per anni e anni mi ci sono autenticamente, e colpevolmente, perso. Uscendone naturalmente con le ossa rotte,e riportandone danni passibili di minarmi la psiche. Per recuperare non soltanto un equilibrio personale, ma una capacità di osservazione, di giudizio e di elaborazione non mediata da niente e da nessuno, mi è occorso del tempo. Non ritengo ovviamente di avere nessuna “missione” da compiere, né in Rete e né in questo mondo in generale; però una cosa intendo sempre farla presente, a tutti e a tutte. Non esistono “maestri”. Non esistono ori colati. Non esistono fascini e fascinazioni. Non esistono miti e mitologie. Non esistono follie produttive e positive, perché la follia genera soltanto follia anche se appare tanto “poetica” o “creativa” (una delle mistificazioni più stupide e assassine che esistano). Esistono soltanto i Fatti, esiste soltanto la Storia; e tutti, di qualsiasi età, siamo chiamati ad esercitarne esclusivamente l'osservazione e l'analisi personale, non filtrata.
  1. Servendosi, chiaramente, di tutti gli strumenti a disposizione; ma non lasciandosi mai abbagliare neppure dal pensiero, dalla costruzione, dalla caratterialità e dall'idea più abbacinante o più corrispondente ai propri sogni. Stabilendovi un confronto critico continuo e necessario, ma esclusivamente ai fini della propria coscienza personale e collettiva. Quel che sto descrivendo, sia pure per sommi capi, non è “individualismo”; è, al contrario, viaggiare finalmente verso una vera coscienza di se stessi come persone che soltanto dalla propria vita e dalle proprie capacità, innate e sviluppate, di procedere ad una visione sempre più ampia dei fatti e dei meccanismi del presente, traggono una Compiutezza a tutto tondo. Da questo dovrebbe nascere il confronto definitivo, e non più rimandabile, con la Storia; preferiamo, invece, perderci in una miriade di piccole “storie” che continuano a generare divisioni, equivoci, incomprensioni, odi più o meno profondi, “dissociazioni”, veleni. Diciamo di voler “abbattere l'esistente”, ma il desiderio (tutto fuorché nascosto) di molti è soltanto abbattere, come birilli, chi dovrebbe essere più vicino a te. Diciamo di “individuare il nemico di classe” quando il nemico che più ci piace individuare, e possibilmente distruggere, fa parte proprio della tua classe; e lo individuiamo sull'invariabile base di “purezze”, di “codici”, di “coerenze” che creano, da un lato, conflitti interni insanabili e mortiferi e, dall'altro, un'immensa gratificazione personale. Ho avuto a che fare con dei narcisismi in confronto ai quali impallidirebbe Narciso stesso; ed anche con dei presupposti “antiautoritari” il cui autoritarismo immenso traspare in ogni momento nel modo in cui si relazionano agli altri; e chissà che in tutta la passione che molti di costoro mostrano per i polizieschi e i “noir” non risieda un'ambiguità di fondo, del tutto irrisolta. Non si spiegherebbero altrimenti le frotte di ex “rivoluzionari” che fanno i commissari nei romanzi, con tutte le “parti della barricata” del caso più o meno poetizzate, ma che mostrano sovente che tra anarchia e polizia esiste non di rado ben di più che una rima. Del resto, ultimamente, di anarco-poliziotti pronti a lanciare anatemi “ideali” e “metodologici” se ne son visti parecchi, e continuano a vedersene. 
     
  2. Quel che è risultato da questa Incompiutezza, è la cultura generalizzata del Rifiuto. Il grande No. Tutto è passibile di essere rifiutato aprioristicamente e vicendevolmente. Mentre il capitale ci schiaccia e ci ammazza quotidianamente e indistintamente, prendiamo per il culo la Storia. La prendiamo per il culo continuando a piegarla non tanto alle nostre identità collettive, che sconciamo del resto ogni giorno preoccupandoci più di individuare attorno a noi “coerenze” che poi faremo di tutto per sbeffeggiare e sbugiardare, e magari anche per delazionare e consegnare, ma alle nostre identità personali, al proprio “io” che coltiviamo meglio di un giardino botanico. L'Incompiuto è, per natura, anche il Depositario. Disgraziatamente, ci ha sì una Storia, ma è sempre e soltanto la sua. Ci ha i suoi morti personali, e non importa mica che siano magari persone, “compagni” con cui ha avuto più o meno a che fare e che quarant'anni dopo gli servono per farci il libriccino (suo o di altri); sono suoi, e suoi e basta, anche quelli di guerre intere. Ci ha tutto quanto, ma questo tutto è esclusivamente al servizio del Rifiuto. Senza mai una minima autocritica. Senza mai riconoscere un errore. Ne consegue che l'Incompiutezza, e l'incapacità totale di analizzare la Storia e di trarne realmente azione per il presente (nonostante fra poco sappiamo anche il colore delle mutande che portava il rivoluzionario Pedro Doscojones sul fronte dell'Ebro, con tanto di fotina recuperata da una cassetta in un bordello messicano nel '58), è una forma di puerilità che è giunto il momento di mettere a nudo. In tutte le nostre fasi ci siamo affidati a dei bambini che non sono cresciuti; non è bastato il carcere, non è bastata la repressione, non è bastata la lotta armata, non è bastata neanche la morte a farli crescere. Stanno ancora a frignare sul giochino rotto nel '900, e la reazione tipica del bambino cui è stato rotto il giocattolo (o che se l'è rotto da solo) è quella di voler distruggere i giocattoli degli altri bambini. E possibilmente anche gli altri bambini stessi. 
     
  3. Così facendo, nel nostro presente ci ritroviamo slegati. Slegati da noi stessi e slegati anche da un passato che, in realtà, non genera niente. Avulsi. Tranne, naturalmente, servircene, del passato o dei passati, per esercitare il Rifiuto Categorico. Ognuno rifiuta l'altro. L'anarchico “classico”, quello per cui nutre nostalgia persino il capo della polizia, stigmatizza e condanna senza appello l' Informale e l'Insurrezionalista; mentre arriva a ipotizzare che quest'ultimo sia addirittura un questurino travestito (cosa che ho sentito spesso in questi ultimi tempi), si comporta da perfetto questurino interno (esemplari, da questo punto di vista, certi articoli comparsi su “A-Rivista Anarchica”). A sua volta, l'Informale e l'Insurrezionalista si pongono totalmente al di fuori di una dialettica e, oggettivamente, si fanno portatori di una forma di “avanguardia” del tutto priva di senso, nonostante debba loro essere riconosciuto il merito di avere, finalmente, smosso delle acque ferme e mefitiche. Nel frattempo, la repressione colpisce indiscriminatamente; nel frattempo, nonostante la Valsusa, ci rinchiudiamo sempre di più in ghetti privi di solidarietà reciproca nonostante di questa parola si usi e si abusi. In realtà, e lo si è visto bene ultimamente, la solidarietà non esiste. Se ne ciancia e riciancia, si fanno i “comunicati” e si riempiono paginate di quella inutile e criminale merdata di Facebook, ma quando i fatti si presentano in tutta la loro spietata semplicità, l'unica cosa che sappiamo esercitare è la criminalizzazione reciproca, la delegittimazione, il mostrare i nostri asfittici muscoletti scordandoci che siamo due gatti in costante pericolo di essere sbattuti al gabbio; e per esservi sbattuti non importa certo andare a sparare nelle gambe al pezzo di merda di turno. Anche perché, di fronte a un fatto del genere, non si discute mai del significato politico. Può avercelo o non avercelo, e se ne dovrebbe ragionare senza paura e seriamente; ma quel che si fa è invece opporre muri. Muri basati su una “Storia” che più la si nomina, e meno la si conosce. Sono muri che non sono stati edificati dal nulla; sono muri che sono stati cementati con l'Incompiutezza. Dovremmo finalmente imparare a smetterla con le geremiadi, con la Centrale Telefonica di Barcellona (ma i telefoni, mi sono sempre chiesto, avranno continuato o no a funzionare?), con la pregiudiziale dell'antiautoritarismo che sarebbe sacrosanta in sé, ma sulla quale poi cachiamo costantemente sopra comportandoci da autoritaristi nati e sputati, da lanciatori di anatemi, da fabbricatori di palizzate. Ci piacciono tanto le “barricate”, ma le uniche che sappiamo fare sono quelle tra di noi; e il nemico, quello vero, se la ride e se la gode. Anche perché, così facendo, da quei quattro gatti che siamo ci ritroveremo in due gatti. E poi un gatto solo. E poi zero gatti. Al prossimo corteino per Serantini ammazzato non ci sarà nemmeno Serantini, se ne andrà a Marina di Pisa a farsi un bagno.


  4. Per questo, ultimamente, mi era preso un autentico sconforto. Se ne saranno magari resi conto quelli che seguono 'sto blog del cazzo, vedendomi scrivere d'estate che arriva e di campionati europei di pallone; ho ricominciato a smuovere il culo. A andare a rendermi conto di persona che aria tira. Zaino in spalla, treno, posti a volte strani e in culo al mondo. In particolare, sabato scorso sono andato in un posto, su nel Nord, dove c'era un incontro con uno che non avevo mai visto, ma di cui mi son letto (e forse, addirittura, studiato) parecchi libri. Si chiama Alfredo Maria Bonanno. Proprio perché me lo sono sentito, leggendolo, particolarmente vicino, ho deciso di andarci standomene del tutto defilato. In un centro sociale di tendenza anarchica, a Saronno, il “Telos” (e vorrei fare, a tale proposito, soltanto un saluto a un ragazzo alto come me e riccioluto; e un abbraccio. Nomi non ne voglio fare). L'aria che tira è che il posto era stracolmo da fare a gomitate, e un posto stracolmo per Bonanno vuol dire sicuramente qualcosa. Vuol dire, ad esempio, che gli anarchici vanno a fare a gomitate per ascoltare un Compiuto. Così l'ho percepito al di là dei suoi libri; perché i suoi libri (alcuni dei quali, come “La gioia armata”, hanno contribuito ai non pochi anni che ha passato in galera) presentano un pericolo. Quello di creare il solito rapporto “maestro-allievo”; un rapporto che, peraltro, Bonanno non desidera minimamente. Proprio per questo, da parte mia, nessun intervento. Nessun contatto. Ascoltarlo direttamente mi ha sì spostato degli assi oppure chiarito dei pensieri che mi ero formato; ma non sono andato a ronzargli attorno. Volutamente, e non perché mi incuta soggezione. Ho anche notato in lui, e mi sono sentito del tutto libero di pensarlo al momento, così come mi sento libero di scriverlo ora, una cosa che mi ha dato fastidio, vale a dire la solita esagerata teatralità siciliana. La detesto, ma detestare un aspetto non mi fa perdere di vista tutto il resto. Quel che sto scrivendo qui è frutto anche di quell'incontro, ma un incontro che è senza mediazione alcuna; e la cosa che più mi ha fatto piacere, oltre ai chiarimenti e/o alle conferme (ed anche a qualche correzione, non lo nego), è stata ascoltare anche altre persone che, finalmente, ragionavano con la propria testa. Lontanissime dai “dibattiti” internettari. E, in gran parte, giovanissime. Mi son detto che quel che andavo pensando aveva dei riscontri nella realtà, e la cosa mi ha ridato forza. Sentir parlare proprio un Bonanno, uno dei pochi che i conti con la Storia sa farli autenticamente, dell'ammorbante cultura del Rifiuto; e sentirla condivisa e discussa con tensione e, soprattutto, con nessuna intenzione di porsi su un piedistallo e di stare a sprecare il proprio tempo in chiacchiere e storielline. Al tempo stesso, rendersi perfettamente conto del mutato rapporto con gli altri e con la realtà; e anche del mutato rapporto che gli altri e la realtà hanno con te. Interazione reale tra fatti e azione, ed accettazione di questa cosa che dovrebbe essere ineluttabile; la discussione può avvenire, e del tutto liberamente, sulle forme di azione al momento più opportune -non escludendone nessuna a priori-, ma è finito il tempo dei balocchi e delle canzoncine che parlano di Bresci e Ravachol mentre, col culo su un divano, si gode ciò che oramai non esito a chiamare una vera e propria borghesia anarchica. La quale non risparmia nessuno, nemmeno quello che a parole si mostra più solforoso. Ed autorizzo tutti a pensarlo anche del sottoscritto, perché non sta a voi, bensì a me dimostrare il contrario. Ed è un'esigenza, questa, che sta camminando a gran passi. Smettendola una buona volta di evocare “rivoluzioni” mentre si è non dico al pranzo di gala, ma comunque a consumare buoni pranzetti ancorché “vegan”. Senza più nessuna imposizione, perché mi sono accorto di una cosa che ho faticato parecchio sia a capire, sia a mandar giù. Gli appelli ai “fronti uniti” e agli “antagonismi generalizzati” sono aria fritta senza tenere conto delle differenze e cercando, anzi, di imporre sempre la propria visione, quale essa sia. Al contempo, sono altrettanta aria fritta i “grandi isolamenti”, le “individualità sdegnose”, le ricerche delle antipatie elette a pratica umana e politica, l'aggressività vuota condita con quel misto di superbia e finta “disperazione” che porta il suo titolare ad un'unica cosa, metterlo nel culo ai poveretti che gli vanno dietro. Specialità riconosciuta di certi cosiddetti “reduci”. 

     
  1. Se volevo avere una riprova di tutto questo, e una riprova ben lontana dalle agonie internettare di merda, dalle rivistine più o meno patinate e da tutto il resto, l'ho avuta il giorno dopo. Dal centro sociale e da Bonanno mi sono spostato sul cocuzzolo della montagna, in un posto incredibile e davvero fuori dal mondo e dal tempo. Si chiama Peli di Coli. C'è una chiesetta ruvida, e bellissima; c'è un piccolo cimitero. E un monumento. Lo vedete nella foto; è il monumento a un anarchico insurrezionalista, nel senso che lui non è stato tanto a chiederlo e l'insurrezione la ha fatta sul serio. Si chiamava Emilio Canzi, piacentino, anarchico, comandante partigiano. Non so perché proprio il ventiquattro di giugno qualcuno abbia deciso di andare a trovarlo con un paio di bandiere nere, una cucina economica, qualche tendaggio, due pentole di insalata di riso, un chitarrista e tre boccioni di vino; so solo che c'ero anche io. E non soltanto per andare a vedere un monumento e una tomba, perché Canzi, morto in uno strano incidente stradale poco dopo la “liberazione”, il 17 novembre 1945, investito da una camionetta inglese che gli amputò entrambe le gambe, è seppellito lassù con vista sull'Universo. Non la voglio fare tanto lunga, e men che mai agiografica; anche perché, davanti a Canzi, eravamo saliti lassù per parlare proprio di Incompiutezza. Parti des rouges, partis des gris, nos révolutions sont trahies; mi frullavano in testa questi versi da La vie s'écoule, la vie s'enfuit, però mi ci frullavano in una maniera un po' diversa dal solito. Partito dei rossi, partito dei grigi, ma anche e soprattutto partito di noi stessi. Noialtri che le rivoluzioni, anche quelle dei fazzoletti di terra e in noi stessi, ce le siamo tradite in gran parte da soli, coi nostri sbagli che non abbiamo mai saputo né voluto inchiodare al muro. Ci hanno fatto quasi comodo, le polizie e le repressioni dello Stato; salvo, poi, trasformare l' “anarchia” in un blob informe, incapace sia di rapportarsi al suo interno che al suo esterno. Ma quale “Spagna”, nemmeno Ivana! Di tutto questo gran mito storico, l'unica cosa che sappiamo fare è raccontarci storielline più o meno simboliche e edificanti, senza mai chiederci la cosa fondamentale: che cos'è che, in un dato momento storico, ha aggregato così tante persone attorno alla pratica rivoluzionaria anarchica? Che cos'è, e perché? Che cosa significa agire autenticamente, sia nella teoria che nella pratica? Come bisogna muoversi all'interno della classe cui si dice di appartenere o, comunque, di riconoscervisi? Che cos'è davvero una “liberazione”? Come interrogare la Storia, e come saperne cogliere le risposte perché di risposte ne darebbe eccome, e parecchie, e precise? Al tempo stesso, come farla finita una buona volta con i rifiuti e con le chiusure perché il tempo ha marciato e il nostro presente pone situazioni differenti e in continua evoluzione? Ci fa schifo il presente, certo; ma il problema è che, in gran parte, continuiamo come dei cretini a vivere nel passato. A immaginarcelo, a crederlo “l'unica epoca in cui è stato degno vivere”, che sia il '36 a Barcellona e dintorni o il '77 a Bologna. Ecco, lassù a Peli di Coli c'erano una trentacinquina di persone sull'aia della chiesa, concessa peraltro gentilmente dal priore e peccato che se n'era andato chissà dove e non c'era anche lui. Con le bandiere nere attaccate ai sacri muri, e i senzadio che andavano a pisciare in un piccolo cesso consacrato, mostrando peraltro parecchio rispetto. Messi in cerchio a parlare di queste cose, che sono le stesse di cui sto scrivendo, e che sono, in gran parte, le stesse dette dal famoso Bonanno. Il quale Bonanno, molti là non sapevano nemmeno chi fosse. Qualcuno, se per questo, nemmeno chi fosse Emilio Canzi. E uno persino, un ragazzo anarchico di Cremona, che non sapeva chi fosse Pietro Gori. E ne sono quasi stato contento, mentre glielo raccontavo un po' col mio accento parecchio forestiero per quei luoghi. Senza conoscere il “glorioso passato”, quei ragazzi che parlavano dell'adesso mostravano al contempo di aver capito la Storia ben più di coloro che ne ragionano oziosamente ogni dì che sorge il sole. Mostrano quali sono le esigenze del presente. Non hanno la cultura del Rifiuto o della “Verità”, perché, contrariamente a quanto si crede e si ciancia, la “Verità” non è affatto rivoluzionaria perché ha il tremendo vizio di essere declinata soltanto da chi se l'è fabbricata a proprio uso e consumo, facendone a gara. La corsa delle Verità. Il campionato delle Verità, e vince sempre e solo la propria -corrispondente ovviamente al proprio “ego” ipertrofico e applaudita da ristrette claques. E qui termino questa lunga cosa, forse caotica, perché caotico è il momento. Ma è nel caos del presente che si può e si deve avere la capacità di agire e di incidere; è solo il presente in cui viviamo che ci deve spingere senza timori e senza muri, di gomma o di altro materiale. E' solo il presente che ci fa comprendere la Storia senza nessuna fregola di trasferirsi né nel passato, né nel futuro; e solo il presente che può formare l'azione più adeguata, e nessuna azione deve essere rifiutata da nessuno. E' solo la rete, l'intreccio dei presenti, che ci farà superare la palude in cui ci siamo impantanati, le sabbie mobili in cui siamo affogati lanciandoci scomuniche reciproche fino all'ultimo rantolo. Questo davanti a Emilio Canzi, che nell'insurrezione poi tradita e compressa (la quale è alla base del nostro presente di merda), guadagnava il rispetto e la stima di tutti, e che veniva eliminato proprio per questo. Gli ho messo in mano un libriccino proprio per questo motivo, e spero che se lo leggerà. Di tempo ne ha, lassù, con una bella pianta velenosissima, un aconitus napellus, che gli è spuntata proprio davanti alla tomba. E l'Incompiutezza scomparirà, e con essa gli Incompiuti; tra i quali noialtri. Ce la faremo a scomparire, e a tornare nuovi e, soprattutto, tanti. Quando non si sa, ma in un altro presente; perché questo, e soltanto questo, è il futuro.

venerdì 22 giugno 2012

Micorta per l'estate


Oggi leggevo una milonga di David Riondino, e siccome non ambisco a tanto (e sono anche, per natura, un bastian contrario), mi è venuto da scrivere una micorta. Eccola qui, anche se poi, in realtà, corta non lo è per nulla. 

Dice un mi' vecchio amico, che mi sono scordato
se faccia il cantautore o il postelegrafonico,
se faccia il dottor angelico oppure il calafato
o sbatta qualche aeroplano su un muro supersonico;

Dice che il qui presente è un orso poco ammaestrato,
qualcosa che inizia con “ciclo”, e forse anticiclonico;
che il qui presente è pazzo; però un pazzo garbato,
con spiraloidi di zolfo e un fondo malinconico.

Mi aggiro per la mia casa cercando una maglietta,
il gatto nero dorme che par quasi una salma;
dovrei mangiare qualcosa, magari una galletta
per prendere le pasticche, e con estrema calma

decido che l'estate arriva in data odierna,
ché poi, va detto, è quella che si dice canonica;
ventun giugno d'un'era sudata e postmoderna,
vorrei prendere un treno, e andarmene a Follonica.

Mi piace pigliare treni che vanno verso il mare,
mi piace anche girare per casa a cercar magliette;
mi piace che dorme il gatto, e starmelo a guardare,
mi piace quest'altra estate, detesto le gallette.

Fra un'ora e un quarto esco e manderò il furgone,
sul tavolo tengo i sigari e il dizionario greco;
gira il ventilatore, l'asfalto nel solleone
emette de' raggi gamma che ci diventi cieco,

e girano anche gli anni, giran le economie,
mi stenderei sul letto a dormì' insieme al gatto;
di tanto in tanto devo chiamare le mi' zie,
poi tanto non le chiamo, gliè che sono distratto.

Si scioglie per il caldo anche la cioccolata,
dovrei rizzammi a mèttila al fresco in frigorifero;
quella superfondente, manco un po' zuccherata,
sembra di buttà giù, più che cacao, Lucifero.

Ma va' a cacào, gli dico; oggi viene l'estate,
sogno di bagnimmàre ma negli anni settanta;
mi viene sì da tuffammi in quell'acque salate
e poi disfàmmi al sole di patatine e fanta.

Ho gran progetti in capo: scrivere una grammatica
del fiorentino parlato e una raccolta di pagine
completamente bianche, da riempir nella pratica
come qualc'anno fa s'empiva di mucillagine

da Muggia fino a Otranto la costiera Adriatica;
grandi manovre, e intanto gira il ventilatore,
l'aria condizionata mi fa venir la sciatica,
e poi mi tocca prendere, quasi a tutte le ore

un balsamo ch'è fatto d'un'essenza aromatica.
Tutto si muta in niente; nel sole si scompone
ogni frammento vigile d'un'esistenza erratica,
e io la fo così, la mia rivoluzione.

Certo che si scolora l'aria nella fornace
e la lentezza invade lesta l'atrio e il ventricolo;
vivo in questa maniera, da sbronzo di Riace
che per mangiare e leggere guida l'autoveicolo.

Qualche volta si perde nelle campagne vuote
e parla coi cipressi o con le vecchie sedute;
qualc'altra poi gli esèrcita una sua innata dote,
quella di ritrovarsi in vite già vissute.

E da quaggiù si vede un frontisterio e un platano,
e scruto domandandomi quanto al di là mi spingo.
Nell'universo fatto d'àtomi che si dilatano
ambisco anch'io ad espandermi, sennò poi mi restringo.

Ma si diceva d'estate; oggi è arrivata e il giorno
dura finché la luce non si va a bere un mojito;
c'è un gran silenzio indomito, nulla si sente attorno,
versione proletaria del respiro infinito.

Versione da cortile dell' illusione distorta
che alcuni chiaman morte, altri immortalità;
io non la chiamo niente, ora chiudo la porta,
mi bevo il sole e rutto placido per la città.

Decido che l'estate arriva in data odierna,
e fra tre mesi decido che ricomincia l'attesa;
nuoto in mezzo al parcheggio, vicino alla cisterna,
palme sono le erbacce, c'è una vicina obesa

che spazza tempo e ride mentre una bimba gioca.
E quell'istante dice: àlzati e vola via,
la vita è meraviglia, e più che altro è poca,
e d'un concerto di luce risuona la periferia.

Dice un mi' vecchio amico, che mi son calafato,
se faccia il dottor angelico oppure il supersonico,
se faccia il cantautore oppure lo scordato
o sbatta qualche aeroplano su un postelegrafonico;

Dice che il qui presente è un orso poco garbato,
qualcosa che inizia con “ciclo”, e forse malinconico;
che il qui presente è zolfo; però uno zolfo ammaestrato,
con spiraloidi di pazzo e un fondo anticiclonico.

martedì 19 giugno 2012

Non mi ruberanno l'estate



E' arrivata, finalmente; è scoppiata e brucia.

L'estate, quella vera. Percorro le strade di una città che comincia a sembrare deserta anche se non lo è. Tutto rallenta mentre sfilano, implacabili, i termometri. Sudo, certo; e alle prime gocce che mi imperlano la fronte, ripenso con orrore, per un istante, all'inverno. A quel maledetto mese di febbraio che s'è passato, e a un freddo più tremendo e discreto che mi accompagna anche ora che il sole martella senza nessuna tregua.

E si procede adagio, facendo movimenti calmi che permettono di seguire se stessi nelle particelle elementari della vita, nei gesti che normalmente non si percepiscono. Il calore estremo e la luce accecante generano attenzione. Dicono che non si dovrebbe uscire nelle ore più calde; a me è sempre piaciuto. Uscire proprio quando si soffoca, quando il caldo viene dichiarato insopportabile, quando si assaporano le vampate e il tutto si mescola al niente per rendere una mistura che muove le foglie delle piante al posto del vento.

E non me la ruberanno, l'estate. Non permetterò più che qualcuno o qualcosa se ne appropri. Prendetevi pure gli autunni, gli inverni e anche le primavere; ma l'estate la difenderò con le unghie e con i denti.

Non me la ruberanno quelli del lavoro, perché il lavoro non conosce stagioni. Una melassa fetida a base di riscaldamenti e di arie condizionate, senza passaggi, senz'animavversione dei mutamenti. Rinchiusi nelle scatole climatizzate senza mettere occhio alle variazioni, impercettibilmente graduali o improvvise, di tutto ciò che ruota attorno alla temperatura. Il lavoro è la dittatura della temperatura, che regola lo sgobbo e i suoi ritmi infernali; nessun conto è tenuto della luce, delle brezze, dei pulviscoli, dell'odore che si sgrana dal tiglio alle erbe più umili, dell'afrore di spazzatura che denota una città viva e non sanitizzata, dell'aroma delle case che, a un certo punto, sembra sempre di pesce fritto anche se sta cuocendo una fetta di carne o un misto di verdure.

Non me la ruberanno quelli dei soldi, coi loro drammi e le loro statistiche. Passo e so bene come sto, e come devo inventarmi da vivere ogni minuto; ma dura un attimo, e mi perdo nelle fiamme aeree che mi fanno benedire l'Africa e i suoi anticicloni roventi. Parto senza preoccupazioni, e deciso a godermela fino in fondo, sogghignando senza ritegno mentre penso ai sofferenti di professione, denaro e sudore, famiglie e bilanci, accumuli e vacanze che sono diventate più lavoro di una catena di montaggio. Il sogghigno si trasforma in risata se penso ai loro “futuri”, questi sciagurati che non sanno nemmeno che cosa sia un attimo, uno solo, del presente. Bella, meravigliosa una caldissima estate in questo presente orrendamente vivo; per chi sa cogliere il moto di un filo d'erba, è una ricchezza che non si calcola.

Non me la ruberanno i miserabili che ho conosciuto, e neppure quelli che devo ancora conoscere. Non me la ruberanno i professionisti della delazione, i propagandisti delle durezze e purezze a condizione che siano sempre altrui, i tromboni delle dissociazioni, gli inventori di rivoluzioni neppure buoni a crearne una nel loro ventre che sappia uscir fuori sotto forma d'una possente scoreggia. Non le ruberanno i tassatori, gli estensori di comunicati, i Barbablù della legalità, gli organizzatori di kermesse dell'assurdo e del falso, i cercatori a pagamento di contraddizioni.

Non me la ruberanno gli idioti dell'inverno, quelli che “stanno bene di gennaio”, gli ordinati nordisti, i finti sognatori di mitici passati, i cantadisgrazie, gli autoammazzanti per tenori, soprani e contralti di vita, i dispensatori di disperazioni e i gorgheggiatori della “crescita”. E perché mai si dovrebbe “crescere”, di grazia? Ma che si diminuisca, per Giove. Non me la ruberanno, l'estate, le loro “economie” di merda, che s'impari invece a cacarci sopra e a spedirle fuori dal sistema solare. Non me la ruberanno preti e religioni, coi loro dèi al tempo stesso freddolosi e scavatori di buio e gelo. Non me la ruberanno le morali e i moralismi, buoni soltanto per far raggiungere all'umanità tutta lo zero Kelvin, ma che sarebbero pure capaci di scendere ancora al di sotto se solo prevalessero senza opposizione.

Non me la ruberà nessuno, mentre passo mezzo sciolto dal calore e mentre all'abbacinamento del sole rispondo nell'unico modo possibile, vale a dire aprendo ancora di più gli occhi. Durerà pochi mesi. Si mitigherà e sfumerà. Manderà i suoi acquazzoni e le sue stranezze. Ma è esplosa e mi sento felice come un demonio saltellante. E nessuno mi ruberà questa felicità, in culo a ogni cosa. 

E si ritirano le brume, sconfitte, e con loro le oscurità che s'invocano costantemente per odio alla vita. Il gatto sa come fare ed è più vicino a te ora che se ne sta a giro per i giardini notte e giorno, che quando si rintana in casa perché fuori si gela senza ritegno. Il gatto è la libertà del calore e si deve saper seguirlo e capirlo perché vive la tua vita assieme alla sua. E dovunque si veda costrizione e pesantezza, che ci siamo creati per sacrificare al niente, è necessario rispondere con una leggerezza ai limiti dell'assenza. Svaporare nel calore e diffondersi per l'aria; e allora tutto appare nella sua vera essenza, e non c'è più confine a quel che si può fare.

Tirato e 'n catene (sì, una sega)





Ma cosa deve fà un poerino a parte 'antà le su' canzoni? Bella domanda, tenendo 'onto der non indifferente fatto che, ora 'ome ora, chi lavora (e soprattutto 'i fa ir preàrio, ir cassi-disintegrato o ir disoccupato), cià parecchio pòo da cantà. A parte i signor Brus Sprìsti, che di lavoro fa appunto 'antà canzoni, e che mi resurta se le faccia pagà un fottìo di vaini, ivi compreso a' 'oncertoni (Lorenzo, 'vanto 'ostava ir biglietto...?). Sarà anco “tirato 'n catene”, ma a me mi sa che a lui la grisi 'ni fa, come si dice a Òsforde angolo Chèmbrigg', un ber segone a du' mani. E porca madonna, anche (visto che allo stadio di Firenze, una settimana dopo, c'è stato ir concerto di Madonna, appunto). So' d'accordo che è importante che una uòrd star (nel senso di “stella mondiale”, e no ir vecchio uòrd procèssor, ndr) come ir Bosse parli e canti di certe temàtie, ma mi garba anco di specifiànni un par di 'ose sulla ghigna. Oso affermare che è abbastanza probabile che sur “colle der banchiere”, lassù dove si giòa duro, noartri 'un ci si sale àrtro che pe' impiccàssi, mentre mister Sprìsti lo frequenta assiduamente, 'un foss'artro 'e pe' mette ar siùro o a frutto i su' guadagnucci che 'un dèvano essere leggerini. Ner frattempo crollano i superpàrchi e crepano lavoratori, ma di 'velli veri. E ci si tràina ner buio di 'vesto mondo di merda, che magari sarà di merda anco per Brus Sprìsti, ma seondo me 'n poinìno meno. Ir solito problema dello starzìstem, certo; i “messaggi” arrivano meglio se li 'anta ir rocchettarone idolatrato, 'e se invece li dìano cinquossè' operai o duottrè crandestini montati sulla gru e “tirati 'n catene” sì, ma giù dalla pulizzìa. Ciononostante, evviva Brus Sprìsti, ci mancherebb'artro. Speciarmente 'vando lo vedrò “còglie quer sasso” e portàllo. E cantà le 'anzoni mentre fatìa per du' sordi o senza èsse' manco pagato, come quelli delle su' 'anzoni. E quando ir concertone 'un ce lo farà pagà, budello d'eva. Sennò bisognerebbe fànni provà sur groppone quarche bella autoriduzzione come quelledunavòrta. 

TIRATO 'N CATENE 
(Shacked and Drawn)

Ir lusco alla penombra ni tira un burrino, 
dé, un artro giorno più vecchio e vicino alla tomba, 
più vicino alla tomba; e ir giorno è spuntato, 
e stamani mi so' svegliato tirato 'n catene 

Tirato 'n catene, uimmèna, tirato 'n catene 
cogli 'n po' ver sasso, bimbo, e portalo 
mi ‎tràino ner buio 'n un troiaio di mondo, 
stamani mi so' svegliato tirato 'n catene 

M'è sempe garbato sentimmi ir sudore sulla 'amicia, 
dé mètteti da 'na parte bimbo e fammi lavorà, 
fammi lavorà, dé o che ci sarà di male, 
stamani mi so' svegliato tirato 'n catene ‎ 

Tirato 'n catene, tirato 'n catene 
cogli 'n po' ver sasso, bimbo, e portalo 
ma un poerino 'sa deve fà ne' sto mondo di merda, ‎
stamani mi so' svegliato tirato 'n catene 

La libbertà, dé bimbo, è 'na 'amicia lótra, 
ir sole 'n faccia e la pala 'n un merdaio, 
la pala ner merdaio tiene 'r diàolo via, 
stamani mi so' svegliato tirato 'n catene 

Tirato 'n catene, tirato 'n catene 
cogli 'n po' ver sasso, bimbo, e portalo 
ma un poerino 'sa deve fà a parte 'antà le su' 'anzoni, 
stamani mi so' svegliato tirato 'n catene ‎ 

Ir gioatore tira 'dadi, l'operaio paga ir conto, 
sur colle der banchiere si sta sempre grassi e ammodino, 
lassù su colle der banchiere ir giòo si fa duro, 
quaggiù 'nvece s'è tirati 'n catene 

Tirati 'n catene, tirati 'n catene, 
cogli 'n po' ver sasso, bimbo, e portalo 
ci si tràina ner buio 'n un troiaio di mondo, 
stamani mi so' svegliato tirato 'n catene ‎ 

Tirato 'n catene, tirato 'n catene 
cogli 'n po' ver sasso, bimbo, e portalo 
ma un poerino 'sa deve fà a parte 'antà le su' 'anzoni, 
stamani mi so' svegliato tirato 'n catene.


domenica 17 giugno 2012

Una fascista del cazzo!


I refusi di Repubblica, oramai, sono una categoria dello spirito. Però, debbo dirlo, stavolta uno dei più classici (e, direi, attesi) giunge a puntino. Una fascistona del cazzo come la figlia del bretone mascellone trova un'autentica sublimazione nell'aggiunta della "e" finale al suo cognome. Il quale "Pen", peraltro, in lingua bretone significa, per l'appunto, "testa". Insomma, una testa di cazzo. Ogni tanto anche i refusi di Repubblica riescono a nascondere qualche profonda verità.

mercoledì 13 giugno 2012

Cinque milioni


"Cosa sono cinque milioni di dollari in confronto all'affetto di cinque milioni di cubani...?"

Ciao Teófilo

lunedì 11 giugno 2012

Melissa e la crisi



Almeno in parte, ora, si sa perché a Melissa Bassi, più o meno già dimenticata, è toccato fare una fine di merda a sedici anni: tutta colpa della crisi. La mattina del diciannove di maggio, mentre stava per entrare a scuola, si è ritrovata davanti, senza saperlo, alla diminuzione del fatturato. A dei mancati risarcimenti di denaro. Si è ritrovata davanti a un forte ridimensionamento delle forniture di carburante (“da quattro a un milione di litri”). A degli appalti cessati con la provincia di Brindisi. E pensare a che cosa era stato tirato in ballo per l'attentato di Brindisi (compreso, certo, dal sottoscritto): strategia della tensione, mafia, anarchici, islamisti, di tutto e di più. Ha ragione chi dice che si tratta, invece, di molto meno e di molto peggio. Bastava andare a cercare tra coloro che sono presentati, al tempo stesso, come i superprotagonisti e le supervittime della crisi: gli “imprenditori”. Quelli che si ammazzano a grappoli, ora che è stato scoperto il filone giornalistico che tira (bisognerà pur sopperire all'attuale mancanza di pitbull assassini). Solo che, stavolta, l'imprenditore non ha voluto ammazzarsi, bensì far saltare in aria l'esterno di una scuola, studentesse comprese. Sembra che l'istituto “Morvillo Falcone” fosse tra gli appalti cessati con la Provincia per la fornitura di carburante da parte dell'imprenditore Vantaggiato. Fin dal 2003, però. Quindi Melissa Bassi ha cominciato a morire circa nove anni fa, quand'era ancora una bambina di sei o sette anni, e non sapeva nemmeno che cosa fosse un “appalto”. Sí, quel che è successo a Brindisi è davvero qualcosa di molto peggio. Per saltare in aria a sedici anni basta incocciare nell'imprenditore che “ce l'ha col mondo” perché diminuiscono le forniture. Perché i clienti non ti pagano. Perché un ente qualsiasi rescinde un contratto. Perché qualcuno si sente truffato o defraudato dei propri diritti

Ci si sente, contemporaneamente, con nulla da dire e con un sacco di cose che si vorrebbero dire, ma che non ce la fanno ad uscire perché bloccate da un micidiale miscuglio di intuiti e confusioni. Con nulla da dire, perché se dicessi che non sono rimasto a bocca aperta nel leggere le dichiarazioni rese da Giovanni Vantaggiato, mentirei. Quanto alle cose che non ce la fanno ad uscire, alcune sono vaghe ed altre un po' più precise. Da quando ci si è finalmente accorti che l'attentato di Brindisi non rientrava in nessuna delle categorie “consuete”, Melissa Bassi è naturalmente scomparsa dal nostro orizzonte; non poteva più essere utilizzata. Nessuna “martire della mafia” o del “terrorismo”; e neppure “della follia”. Il Vantaggiato, che lo si voglia o meno, ha addotto delle motivazioni per il suo gesto, vale a dire una concatenazione di cause e di effetti. Melissa Bassi è morta per qualcosa che, attualmente, si tenderebbe a far rientrare nella “crisi”. Se il Vantaggiato, invece di preparare le bombole di gas e di farle saltare di fronte a una scuola aspettando che ci fossero le studentesse, si fosse suicidato come tanti altri “imprenditori” pari a lui, a quest'ora sarebbe pianto con abbondanza di làgrime. Ci sarebbero stati i soliti articoli sulla “vita di lavoro”, sullo “strangolamento delle imprese”, sul “non tirare più avanti” e via discorrendo. Invece no; il Vantaggiato ha scelto un'altra strada. Ha fatto saltare tutto in aria. Come peraltro preconizzato da parecchi cui piace spingere le chiacchiere da bar fino alla manipolazione delle sostanze esplosive; solo che, nelle loro chiacchiere, ci sono i “parlamenti”, i “Montecitori”, i “comuni” e quant'altro. Si tratta peraltro, spesso, delle stesse persone che due minuti dopo applaudono generalmente alla polizia che distribuisce manganellate e arresti ai valsusini, o che si bevono senza fiatare tutta la vasta gamma di idiozie che va dagli anarchici insurrezionalisti alle cellule di Al-Qaeda sgominate (a Casalpusterlengo o qualcosa del genere). Chissà che il Vantaggiato non li riporti un po' coi piedini per terra; lui, l'”imprenditore truffato e defraudato dei propri diritti”, che sarebbe senz'altro divenuto una specie di eroe popolare se avesse piazzato le sue bombole non dico davanti al Parlamento della Repubblica Italiana, ma ad una Provincia di Brindisi qualsiasi (ammazzando, naturalmente, i consiglieri provinciali; ma si figurino lorsignori se percaso una Melissa Bassi, quella mattina, fosse passata davanti al Palazzo della Provincia perché aveva fatto forca a scuola), ha invece bombardato una scuola con le ragazze all'esterno. Significa che il limite tra l' “eroe” e il “mostro” è molto vago, e che nutrire e cullare sia l'uno che l'altro, anche e soprattutto nella nostra oziosa quotidianità fatta in gran parte di chiacchiere senza costrutto, è un atto di stupidità immane che dovremmo cercare di rifiutare e di combattere. Al pari di tutta la massa di stronzate sulla “crisi”. Al pari di affidare tutta la nostra vita ai budget, familiari o aziendali che siano, e al “lavoro”. Se esiste una relazione tra un atto e le sue cause, Melissa è morta a causa del lavoro del signor Vantaggiato Giovanni. Del suo lavoro, del suo fatturato, del suo tenore di vita che, comunque, non doveva essere rimasto poi malaccio se ancora pochi giorni prima dell'arresto se ne stava sul suo yacht in panciolle.

Tutto questo è realmente molto peggio. Anche perché la cosa è stata accolta con la massima indifferenza, per non dire con malcelato sollievo. Un normalissimo imprenditore e il suo capitale che traballa un po', altro che “Sacra Corona Unita”; ci sarebbe da chiedersi, a questo punto, che cosa sarebbe successo se Melissa Bassi fosse andata a scuola al liceo “Giovanni Pascoli”. Una vendetta della mafia carducciana? O, magari, all' “Istituto Umberto I”: sicuramente gli anarchici insurrezionalisti che volevano vendicare Gaetano Bresci. Alla fine, in fondo, tutti contenti: per qualche giorno c'è stata un'iniezione di “coesione”, l'attentato non ha radici (ideologiche, religiose, mafiose o quant'altro) e, se le ha, non si possono dire troppo in giro. Altrimenti si sarebbe costretti a dire che le radici del Vantaggiato e delle sue bombole di gas sono nel capitalismo, nelle sue logiche, nelle alienazioni che provoca a livello anche puramente mentale, nell'affidare la vita propria e degli altri al possedere, nell' “avercela col mondo” perché ti ha tolto, in definitiva, denaro. Non si può dire, ma io mi provo comunque a dirlo. Comunque, Melissa Bassi ha avuto la sua brava dose di applausi dentro una bara; e non se ne sentirà più parlare. Non è la “madre di tutte le preoccupazioni”. Ci sono già i pentimenti e le richieste di perdono. Tutto normale, e gli imprenditori possono pure ricominciare tranquillamente a suicidarsi. Quanto a noialtri, ora sappiamo che per fabbricare una bomba capace di seminare morte non importa essere "terroristi" di una qualche matrice; basta essere un Vantaggiato Giovanni, imprenditore di Copertino (Lecce), gran lavoratore con lo yacht, onest'uomo defraudato, padre e fors'anche nonno di famiglia. Ci sentiamo parecchio sollevati, e invece sarebbe proprio ora che dovremmo cominciare a preoccuparci sul serio.

venerdì 8 giugno 2012

Ηρωική Ελλάδα!


Nostra patria è il mondo intero, η πατρίδα μας είναι ολόκληρος ο κόσμος, però c'ènno i campionati europèi di pallone, e sono ben conscio che l'intera bloggosfera si aspetta dal sottoscritto una ben decisa presa di posizione. Direi che la mia scelta si intuisce vagamente dalla Γαλανολευκή che sventola in un cielo azzurro; insomma, Grecia a palla. Nel cielo azzurro dell'Ellade, mica in quella specie di troiaio grigio-cenere che incombe sulla Polonia e sull'Ucraina sterminatrice di cani e di gatti!

Per questi campionati europèi ho due punti fermi: 1) Tifo esagerato per la Grecia; 2) Tifo altrettanto esagerato contro la Germania, chiunque vi giochi contro. Sono rimasto all'antica: è assolutamente impossibile, nonché disdicevole sotto ogni punto di vista, tifare per i tedeschi. Intanto, poco fa, si è disputata la prima partita, dove i "co-padroni" di casa polacchi se la sono vista, per l'appunto, proprio con la Grecia.

Un solo aggettivo: eroica. Nella bolgia dello Stadio Nazionale di Varsavia, ricettacolo di papisti e altre simili nequizie, la Polonia cominciava a spron battuto certa di mangiarsi l'Ellade in un sol boccone, spinta da una barbarica folla che riusciva non si sa come a incitare i propri mangiabigos senza utilizzare nemmeno una vocale. E la Grecia era messa alle corde sin dall'inizio da quelle orde, finché doveva capitolare verso il 15' del primo tempo quando il poderoso Χαλκιάς, un metro e 99 di statura, spartiate che avrebbe ben difeso anche le Termopili (figuriamoci una ben misera porta nello stadio di un paese di gente ancora vestita con pelli d'orso), veniva trafitto dal tiro di un giocatore dal nome ovviamente impronunciabile.

Si materializzavano in quel momento i peggiori fantasmi: il trionfo di quei maledetti baciapile, servi degli americani, SS travestiti da cattolici. In più, come quasi d'obbligo, ci si metteva anche il perfido arbitro spagnolo che espelleva il maestoso Παπασταθόπουλος per doppia ammonizione, inventandosi letteralmente il primo fallo e sfoggiando in occasione del secondo una fiscalità da Agenzia delle Entrate. Chiaro l'intento di favorire la "squadra di casa", peraltro formata da una congerie di tedeschi e francesi "naturalizzati" (che però presentavano il vantaggio di essere gli unici per cui era possibile pronunciare il nome, sia pure alla bell'e meglio). A tale riguardo, mi dicevo quanto sia facile ottenere cittadinanza e documenti ad hoc quando si tirano calci a un pallone; invero, parecchi immigrati sbarcano a Lampedusa con indosso una maglietta dell'Inter o del Barcellona, ed altrettanti ci saranno pure finiti in fondo al mare. Strano mondo di merda, questo.

Tornando al match, dopo la metà del primo tempo, seppure in svantaggio e ridotta in 10, l'Ellade iniziava la riscossa approfittando dello sciogliersi dei polacchi al pari di quell'orrendo burro rancido che usano a profusione nella loro mefitica cucina. Neppure l' inferiorità numerica riusciva ad abbattere i παλλικάρια ellenici, che nel secondo tempo, grazie ad una perfetta mossa dell'allenatore portoghese (non sarà un caso che, nello stesso anno 1974, la Grecia e il Portogallo si liberarono dal fascismo!) che inseriva l'incommensurabile Σαλπιγγίδης, trovava il pareggio su una cappellata immane del portiere dei baciapile (chissà se, almeno in quest'occasione, avrà tirato un sano mòccolo alla madonna di Czestochowa). Suonavano le trombe della vendetta (in ogni senso, dato che σαλπίγγα, da cui il cognome dell'Eroe, significa proprio "tromba"); ammutoliva di colpo l'enorme stadio nel quale, usualmente, vengono messi al rogo atei, bestemmiatori, libertini e negatori del potere assoluto della Chiesa. 

La Polonia scompariva; ne approfittava l'Ellade, ancora in dieci contro undici, finché poco dopo non si ritrovava a disposizione l'occasione massima: un calcio di rigore assegnato dall'arbitro dopo che il ridicolo portiere polacco aveva steso in area ancora Σαλπιγγίδης, venendo immediatamente cacciato dal campo con ignominia, con venti tratti di corda da eseguirsi nello spogliatojo e immediata relegazione a vita nelle miniere di carbone dell'Alta Slesia. E qui, signori miei, si mostrava in tutta la sua grandezza la superiore civiltà ellenica su quella di que' popoli boreali. Inviato sul dischetto, infatti, il prode Καραγούνης si faceva parare il tiro dal portiere di riserva, evitando così ai barbari la disfatta davanti al loro pubblico. O quale magnanimità! O quale eccellenza d'animo! L'eroismo dei Greci si manifestava ancor di più in quel voluto errore, che significava: tiè, mangiapierogi, 'un ti stianto però fai veramente caà.

Tornava -e come dubitarne?- a farsi vedere anche l'arbitro spagnolo, che poco dopo annullava alla Grecia un goal per un fuorigioco assolutamente inesistente, decisione accolta peraltro con ostentata indifferenza. La partita terminava con la serena e composta felicità degli Eroi Ellenici, mentre il trnr dei polacchi (trnr sta per "trainer" senza vocali) abbandonava il campo scuro in volto tra i fìsti, l'infamate e gli ululati (ululì? No, ululà!) del proprio pubblico. All'esterno dello stadio, feroci pattuglie della Squadra Speciale Antimòccolo (Antimokkolska Specjalna Skwadra) provvedevano seduta stante a fustigare senza pietà i tifosi delusi, che si lasciavano andare a quanche espressione ingiuriosa nei riguardi della Santa Divinità.

Per concludere, l'Ellade dà, come sempre, una lezione di gagliardia e di indomabilità al resto dell'Europa che la guardava con compassione mista a risatine. In casa mia, da solo con addosso il gatto che pure lui faceva il tifo (della serie: in questa casa tifa Grecia anche i' gatto!), brindavo con un bicchier d'acqua di rubinetto che aveva sapor di retsina.

martedì 5 giugno 2012

Antidoto



Questo è un post "di servizio", chiamiamolo così. Il fatto è che, stamani, mi è presa la meravigliosa idea di scriverne uno su un paramecio che fa il leghista friulano; e fin qui, tira via. Però, ohimé, ci ho messo anche la sua fotografia. Risultato: prima ho aperto il blog, e sono stato accolto dalla faccia del leghista. Ho cacciato uno spontaneo urlo di raccapriccio, e fra poco sono cascato dalla sedia. Questo significa farsi del male da solo; ci credo che, poi, la notte fo sogni parecchio strani (ivi compreso farmi pisciare da due tizi in un secchio dove sono raccolte le mie ceneri, chissà che pappettina di Asociale e piscio ne verrebbe fuori; ma, magari, avrebbe poteri taumaturgici). Urgeva un antidoto, e l'antidoto non poteva essere che il gatto Redelnoir. Qui lo si vede poco fa spaparanzato su una seggiola, spossato della lunga ronfata che si era fatto prima. Con questo potrò aprire tranquillo l'Asocial Network, e qualcosa mi dice che la cosa non sarà sgradita neppure ai miei 76 lettori (ho già superato Alessandro Manzoni di cinquantuno, mecojoni). In futuro dovrò pensarci bene prima di mettere certe fotografie nei post, comunque; ma un fondo di masochismo lo abbiamo tutti.

Dordolandia


Il tizio che si vede nella foto si chiama Luca Dordolo e, come preconizzato da Andy Warhol all'inizio degli anni '80, ha vissuto il suo quarto d'ora di notorietà.

Luca Dordolo è, o meglio era, capogruppo della "Lega Nord" nel consiglio comunale della città di Udine (Videm in lingua slovena). Il suo "quarto d'ora" lo ha avuto qualche giorno fa, quando ha pensato bene, dalla sua pagina Facebook, di esprimere alcuni giudizi sull'ennesimo femminicidio quotidiano che avviene in questo paese: quello di una ragazza indiana, Balwinder Kaur, avvenuto a Piacenza ad opera, come di consueto, del marito

Per Balwinder Kaur non è bastato un omicidio; ce ne sono, come sempre, voluti almeno altri due. Il primo come donna; il secondo come essere umano in sé; il terzo come donna indiana. Di quest'ultimo si è occupato specificamente il capogruppo Luca Dordolo. In attesa del loro rapido oblio (un quarto d'ora è pur sempre un quarto d'ora) ricordo le sue parole espresse su Facebook: "La donna indiana gettata nel Po ha inquinato il nostro fiume sacro. Cosa direbbero se andassimo a fare lo stesso nel Gange?".

Luca Dordolo è palesemente un povero imbecille.

Il fatto che sia un povero imbecille, però, non muta di una virgola tutto ciò che immane alla sua imbecillità, ed il quale -mi preme ricordarlo- non è affatto esclusiva prerogativa esclusiva della formazione "politica" della quale è, o era, capogruppo al comune di Udine. È un'imbecillità che proviene da sessismi e razzismi che sono parte integrante di questo paese, foraggiati senza ritegno dai media anche fintamente "progressisti" (col giornale-partito "Repubblica" in prima fila). E' un'imbecillità che proviene dalla colossale ignoranza della maggior parte degli italiani. E' un'imbecillità che si esprime alla perfezione nelle cosiddette battute, perché le legioni di Dordolo con cui abbiamo quotidianamente a che fare hanno immancabilmente il gusto della "battuta" (vi ricordate, che so io, di un tizio che tempo fa faceva il "presidente del consiglio"...?). E' un'imbecillità che ha tutta una retro-incultura incancellabile, ma che bisognerebbe cominciare a considerare come omicida. E, particolarmente, come femminicida. E' un'imbecillità che ha in sé la quintessenza del fascismo, chiunque ne sia il portatore. E' un'imbecillità, infine, che ha trovato due veicoli privilegiati: Facebook è la "democrazia rappresentativa". Luca Dordolo ne è un perfetto esempio: un eletto e, al tempo stesso, lo spippolatore indefesso su Facebook. Del tutto identico alle miriadi di politicanti facebukkari che, davanti alla tastiera, perdono ogni ritegno senza rendersi nemmeno conto che il loro amato social network può essere letto da tutto il mondo o quasi.

Se Luca Dordolo faceva il capogruppo di qualcosa al comune di Udine, significa che qualcuno, in detta città capoluogo di regione, lo aveva votato.

Significa che doveva aver presentato un programma, o qualcosa del genere, "condiviso" da coloro che, nel famoso segreto dell'urna, avevano scritto il suo nome. Per quanto se ne sa, cioè niente (a parte, forse, nella città di Udine e dintorni), Luca Dordolo può aver fatto anche delle "cose positive", o percepite come tali. Potrebbe aver tranquillamente fatto sistemare un'aiuola o costruire un giardinetto per i giochi dei bambini. I cittadini votanti si sentono "rappresentati" da chi fa queste cose, e non è certo escluso che molti, in questo preciso momento, rimpiangano il Dordolo con la sua facciona da montanaro dell'Alta Carnia. La "democrazia rappresentativa", e massime nel modo in cui si è venuta sviluppando da qualche decennio, è in gran parte basata sul "fare" al di là delle ideologie. Le ideologie sono state dichiarate morte. In base a questo, qualsiasi imbecille come un Luca Dordolo può risultare non soltanto "eletto", ma anche gradito se "fa". A prescindere da quello che pensa e dice. La "democrazia rappresentativa", in realtà, non rappresenta nulla; il giardinetto e l'aiuola che piacciono tanto ai cittadini (al pari del "degrado" e della "sicurezza") sono propagandati come "cose vicine alla sensibilità della gente", i sindaci (vedi Renzi, un dordolone un po' più importante e famoso, ma ugualmente dedito a Facebook) mettono su i cento punti, i cento luoghi e quant'altro, furoreggiano legalità, giustizie e certezze delle pene, e tutto il resto sono "battute". La "delega", detta anche "esercizio principe della democrazia", si rivela quindi per ciò che è realmente.  Si rivela come il sistema per mandare un Luca Dordolo in consiglio comunale; che sarà mai. Fa parte, il Dordolo, di un partito che ha mandato Borghezio in parlamento; solo che il Dordolo, povero imbecille che fa le "battute" su Facebook, lo hanno espulso dalla Lega Nord. Borghezio, invece, è ancora là. Così si vedrà almeno se il Dordolo impara la differenza che corre tra pesci piccoli e pesci grossi; e se non lo impara, gli restano comunque Facebook e la possibilità di metter su, alle prossime elezioni comunali di Udine, una bella lista civica. E, magari, anche di imparare la geografia, perché proprio non si capisce come mai il Po dovrebbe essere il "fiume sacro" dei friulani. Tira via il Tagliamento o il Natisone; ma, del resto, ho dei "padani" persino qui in Toscana. Forse vorranno fare l'Arnia, così ci metton dentro le api e fanno il miele.

Può darsi che sia andato un po' troppo in là. Tirare in ballo addirittura la democrazia rappresentativa per un mentecatto razzista, sessista e dall'intelligenza pari a quella di una melanzana, forse è troppo. Di motivi per opporsi  alla farsa "democratica" ce ne sarebbero di ben più seri di un Luca Dordolo. Però, e debbo dirlo, mi ribolliva troppo il pensiero di quella povera ragazza di Piacenza. Mi ribolle per tutte. Mi ribolle per i bambini lanciati dai padri dal sesto piano. Mi ribolle che sulla sua morte atroce non si sia persa nessuna occasione per far manifesto di cose ignobili, e non solo da parte di Luca Dordolo; e non mi riesce di smettere di pensare che i Luca Dordolo siano anche il prodotto di un sistema politico, economico e sociale basato sull'odio, sull'ignoranza, sul disprezzo per l'altro, sulla crassa pancia piena di merda e di "battute", sullo sfruttamento e sulla mercificazione, e sulla riduzione della donna a carne da sesso e da macello (oltre che da lavoro, come tutti).

Mi ribolle che una donna sia dovuta morire infinite volte, come accade ogni giorno, affinché tutti i dordoli che popolano questo paese abbiano potuto sbranarla. Gratuitamente oppure per guadagnare magari qualche voto a quel bel giochino che, tra le altre cose, permette di rubare un bel po' di quattrini; e non mi riferisco, vorrei ribadirlo, soltanto ai buffoni criminali della "Lega Nord". Per un Luca Dordolo che scompare, pùff, grazie alla sua idiozia, ce ne sono dieci che sono ancora lì, e altri dieci che compariranno sotto ogni bandiera di merda.  Tutti con la loro bella dose di democrazia alle spalle, di aiuole, di famigliuole, di "programmi", di social network, di manifesti a base delle loro facce di merda. Che costringono persino un povero e bravo tenore lirico, un artista che ha la sventura di ritrovarsi omonimo di un imbecille, a pubblicare sul suo sito un disclaimer chiarificatore (e al tenore Luca Dordolo, per quel che può servire, va tutta la mia solidarietà). Funziona così nel paese di Dordolandia, e funzionerà così finché non cominciamo a smantellarlo. Con le buone o con le cattive.

domenica 3 giugno 2012

Antonio Ginetti è libero. In provincia di Pistoia.


Dicono che le vogliono abolire, le province; però, quando si tratta di utilizzarle per limitare i movimenti di qualcuno che, per un dato periodo, è rimasto imprigionato per le fantasie su ordinazione di qualche eroico procuratore (ogni riferimento al Casellon de' Caselloni è puramente intenzionale), allora i confini provinciali funzionano sempre a pieno regime. Insomma, partiamo dalla cosa più importante: Antonio Ginetti è fuori. Fuori dalla galera, che essa fosse rappresentata prima da un edificio apposito, e poi da casa sua. Nell'edificio apposito c'era entrato il 26 gennaio scorso, durante il blitz caselliano contro il movimento NO TAV; qualche tempo dopo, la galera si era trasferita nella sua bella casa. Non crediate, se parlo di "bella casa", che io intenda parlare di una villa, o di un superattico, o di cose del genere; per me una bella casa è anche un buco, quando questo buco rispecchia in ogni centimetro quadrato una vita, le sue lotte, le sue lacrime e le sue meraviglie che non cedono.

Per uscire dalla galera, comunque essa fosse costituita, Antonio Ginetti ha dovuto farsi venti e più giorni di sciopero della fame, e non di quelli alla marcopannella. Ha dovuto rompere i coglioni quando "chi di dovere" si attendeva sottomissione. Antonio Ginetti rappresenta invece l'essenza stessa di una bella parola francese, insoumis. E così, stasera, una bellissima serata di prima estate dove non s'avvertiva traccia alcuna né delle loro parate e né delle loro "repubbliche democratiche", siamo andati a festeggiarlo proprio sotto casa sua, che era tornata appena ad essere una casa a tempo pieno. Ne ha conosciute, di galere, Antonio Ginetti. E se le è fatte tutte da uomo libero dentro. Essere liberi dentro, e rimanerlo a dispetto di tutto, è una cosa che non piace ai servi degli atti ufficiali. E, infatti, proprio un atto ufficiale stasera Antonio ha voluto leggere, definendolo uno dei più bei complimenti che gli siano stati fatti. "Un complimento così", ha detto Antonio, "lo si può fare o per grande amore, o per grande odio. Poiché mi è stato fatto da chi, ancora, mi rifiutava la libertà, è un complimento che è frutto dell'odio puro, ma non per questo mi dà minore soddisfazione". Era, in pratica, il documento con il quale, non più di due o tre giorni prima della decisione del Tribunale del Riesame che ha mandato libero Antonio Ginetti, il GIP (una tipa con uno di quei cognomi che ti fanno già da soli capire che si tratta di una mandaingalera di merda) "esprimeva parere sfavorevole" alla sua scarcerazione definendolo "persona dal comportamento non collaborativo e refrattaria a qualsiasi sottomissione", o roba del genere. Non sono le parole esatte, e io non giro col taccuino; ma il concetto è quello. Un insoumis. Ho, a tale riguardo, ritenuto opportuno di andare brevemente al microfono sistemato in piazza, per ricordare che tali parole mi ricordavano da vicino la definizione di "insuscettibile di ravvedimento" che l'autorità fascista usò sulla scheda di Alfonso Failla.

Era allegro, Antonio. Mangiava poco, con attenzione estrema; dopo venti e più giorni di sciopero della fame vero, del quale ha tenuto un resoconto meticoloso diffondendo comunicazioni attraverso i canali antagonisti, non doveva certamente esagerare. In piazza, sotto casa sua, non era soltanto una festa, pur comprensibile: era un vero e proprio presidio NO TAV in pieno centro di Pistoia. E gli è stata messa, a Antonio, anche una canzone che (lo) dice praticamente tutto, senza sbagliare un accento: Ma chi ha detto che non c'è di Gianfranco Manfredi. Naturalmente, a breve distanza e riconoscibilissimi anche da un bambino piccolo, c'erano due o tre sbirri a sorvegliare. C'è chi ha proposto di portar loro gentilmente un bicchiere di vino (previa sputata e/o pisciata nel bicchiere, of course). Non è mancato neppure un soave brindisi al Casellon de' Caselloni, che Iddìo gli conceda tanta salute (ma anche no). Poi mi fermo qui, perché questo non è e non vuole essere il "resoconto di una festa", bensì di un momento di lotta che non si ferma e non si fermerà. Allegro quanto si vuole, perché un compagno che esce di galera genera allegria (ma Antonio, come ha detto lui stesso, riesce ad essere allegro anche dentro, e gliela sbatte nel muso a quelli, la sua allegria); ma la lotta non viene meno, in nessun momento. Sarà bene che se ne ricordino, ivi compresa la Cancellieri che parla di "pacificazione".

Antonio Ginetti, come dicevo all'inizio, per il momento non può uscire dai confini della provincia di Pistoia. Sarebbe bello, mi è venuto da pensare, organizzare presìdi alle frontiere. A Agliana, a Ponte della Venturina, nella "Svizzera Pesciatina". Ma, tanto, figuriamoci se un Antonio Ginetti ha confini. Ha fatto un'intervista di 36 minuti a Radio Blackout (di Torino) raccontando tutta la sua vita e tutte le sue lotte; chissà se i limitatori giudiziar-provinciali intendano istituire anche le province dell'etere. Basterebbe questo per far capire quanto siano fuori dal mondo, e quanto in fondo, nonostante il loro schifoso mestiere sia quello di mettere in galera chi combatte per un mondo migliore, in galera ci siano più loro che noi. Sono nella galera della loro schiavitù volontaria che vorrebbero estendere a tutto e tutti, senza riuscirvi. Stanno in provincia di Servia, e dai suoi confini non usciranno mai.

sabato 2 giugno 2012

Parate


"Parata per i terremotati", è il titolone di "Repubblica" di oggi. Evidentemente, però, il portiere della nazionale italiana di pallone, un fascista di stramerda nonché scommettitore incallito che risponde all'assai significativo e simbolico nome di "Buffon", di "parate per i terremotati" non deve averne fatte parecchie, visto che iersera s'è beccato tre pappine da Santa Madre Russia. Eh, questi coesi patrioti, tra sfilate militari, italici ardori e elmi di Scipio (parola il cui anagramma è "piscio") vanno sempre a rifinire nello stesso luogo: si chiama Ridicolo. Però, via, quest'anno è un Ridicolo sobrio. Aridàtece li briachi!