mercoledì 29 luglio 2009

Un buco nel muro


Qualche mese fa, una delle prime domeniche di caldo veramente estivo, io e la mia compagna abbiamo deciso di fare una cosa elementare per passare il pomeriggio. Una passeggiata. Mettere un piede dopo l'altro e camminare. Dove andare? Ci siamo ricordati di abitare a mezzo passo da un fiume, nel tratto in cui comincia a uscire dalla città.

In realtà quel fiume, passando per plaghe altamente urbanizzate, non esce praticamente mai dalla città, fino alla sua foce; anzi, poco prima di essa passa per un'altra città conclamata e dal gran passato, discretamente grande. Però Firenze, come tutte le città d'arte, pare limitata al centro storico; prima e dopo, il suo fiume non attraversa niente. Terre di nessuno. Un fluire senza importanza, tranne quando viene gonfiato a monte col pericolo di qualche inondazione. Un corso anonimo, in funzione dei brevi tratti di città storica che attraversa. La bilancia è squilibrata: su un piatto dei campi, o delle fabbriche; sull'altro il Cristo di Cimabue.

Così abbiamo preso a costeggiare il fiume, in direzione opposta a quella della città. Pensate che non c'ero mai stato. Di fronte al parco delle Cascine, che pian piano s'istrettisce nella punta finale alla confluenza col Mugnone (là dove c'è il tempietto del Maragià indiano venuto a morire a Firenze nel 1870). Una strada che ha il nome dell'intero quartiere, tra campi dove ci s'allena a giocare a golf, giardini pubblici, orti sociali e vecchie cascine dove, nella storica città, qualcuno tiene ancora le galline ruspanti pubblicizzando le “ova fresche” con un cartello scritto col pennello e la vernice.

Di fianco al fiume che se ne va, che torna anonimo, irrilevante. Ha terminato già, in quel punto, la sua funzione d'attraversatore delle meraviglie artistiche. E' già stato passato dai ponti monumentali; ora ha solo ponti di servizio, viadotti, passerelle senza storia. Lo seguiamo senza quasi parlare, verde degli alberi sulle entrambe le sponde, pacioso e quasi libero dal peso della gran città famosa. Può tornare alle sue rive fangose, alle sue golene, a ricevere altri fiumi, rii e torrenti in punti dimenticati, dove non verrebbe a farsi bruciare nemmeno un ragioniere di Bombay.

S'arriva al viadotto. Fino a quel punto, c'è tanta gente che passeggia. Famiglie coi bambini, una congrega di pensionati che si sono piazzati con le seggiole pieghevoli in uno spiazzo, coppiette in amore, sudatissimi tizi in sella a biciclette e con attrezzature che Eddy Merckx se le sarebbe sognate. Tutto il mondo della passeggiata domenicale, e ci abbiamo poco da fare gli snob, io e la Daniela: siamo tra di loro. A fare anche noi una passeggiata in una caldissima domenica pomeriggio. Fino al viadotto, appunto.

Al viadotto finisce tutto. La strada è sbarrata con delle transenne fisse. C'è una comoda via d'uscita, una nuova e larga strada pedonale che porta agli orti e a dei bei giardini pubblici, per chi non vuol rifare lo stesso cammino all'indietro. C'è persino il sottoviadotto, per chi vuole andare dall'altra parte, nel grande parco. C'è ogni cosa. Finisce la città, quella dei nonni, dei pensionati, dei bambini, delle coppiette e dei ciclisti superbardati. E, va da sé, finisce anche il fiume; come se si inabissasse in una voragine, tipo quella che inghiotte il denaro di Paperone nella storia del Ventino Fatale.

C'è qualcosa che non torna, però. Il fiume, caspita, sembra proseguire oltre il viadotto. E anche la strada, dopo la transenna di chiusura. Che storia è questa? Come mai, più in là, non si vede più nessuno? Decidiamo, sì, di esplorare. C'è chi va a esplorare le contrade più lontane del pianeta, e chi persino gli spazi cosmici; noi, che siamo un traduttore da lingue bislacche e una sistemista informatica, esploriamo a meno di due chilometri da casa. Avevamo vent'anni oltre il ponte...

Eccoci dall'altra parte. Cinquanta metri più in là. Si sentono ancora le voci della gente, ma cominciano piano a perdersi; come aver valicato una soglia spazio-temporale, di quelle dei libroni di fantascienza. E siamo davvero, all'improvviso, in un altro mondo. La strada è mal tenuta, l'asfalto si sgretola fino a diventare sterrato, ci sono da una parte dei terrains vagues e, dall'altra, il fiume che continua a scorrere. Dopo duecento metri, il silenzio totale; una vecchia casa colonica mezza diroccata segna un bivio con un'altra strada che sembra venire anch'essa dal nulla, ma due vecchie targhe stradali sbocconcellate ci dicono che siamo ancora nel territorio della città. Ci siamo, e non ci siamo più. La città ha le sue contrade ignote, dove i suoi rumori rassicuranti si perdono e ne cominciano altri, insoliti. Una musica.

Si fa sempre più alta man mano che si cammina; e non è una musica consueta per i nostri orecchi. E' musica di paesi non vicini, con quel suo attorcigliarsi attorno a un ritmo quasi a riprodurre un grido senza fine, d'allegria o di tristezza, di rabbia o di quiete, di viaggio e di stasi. Capiamo all'improvviso perché oltre il viadotto non va più nessuno; si va in mezzo ai nemici dell'umanità. A quelli che rubano, a quelli che rapiscono i bambini. Si va, insomma, diritti in un campo nomadi. La musica diventa quasi assordante, e non si capisce esattamente da dove provenga. Di che terrorizzare qualsiasi nonna col nipotino. Di che scoraggiare qualsiasi coppietta di fidanzati. Noi, invece, tiremm innanz.

È una musica strana, ripetitiva, persino dissonante. Non appartiene ai nostri canoni. La trovo monotona e sgradevole, mentre il caldo umido si fa insopportabile e i piedi cominciano a dolere per la mia bella prodezza d'essere uscito con le scarpe da ginnastica senza calzini. Eppure fa apparire all'improvviso chiare molte cose; si va avanti per la strada che oramai s'è persa chissà dove, in riva al fiume, e il campo è racchiuso tra alte reti. L'ingresso è aperto; ne esce un automezzo, un pick-up col cassone stracolmo di gente. Ragazzi giovanissimi, per lo più; e un cane. Abbaia. Ci viene spontaneo di fare un saluto, una cosa normale quando ci passano davanti; ci rispondono vociando e vanno per la loro strada.

Il campo e il muro. Non c'è, apparentemente, alcun muro fisico nonostante le reti. Il muro, quello vero, è differente. Non è neppure di gomma, come si dice in un'espressione alla moda. È il muro che abbiamo dentro. Invalicabile. La cosa principale che mi appare chiarissima è che, volendo, nulla mi avrebbe impedito di continuare la passeggiata entrando dentro al campo. La porta è aperta. Eppure tiriamo avanti; non mi passa neppure per l'anticamera del cervello di varcare quella soglia. Ci sono, dentro, esseri umani. Potrei avere con loro normali relazioni umane. Potrei avere degli amici e dei nemici. Potrei avere delle persone che mi stanno del tutto indifferenti, e cui sto altrettanto indifferente. In generale tutte le persone là dentro parlano la mia lingua, e se del caso potrei cavarmela con qualche lingua delle loro. Poco prima ci siamo salutati, fra perfetti sconosciuti. Non ci vorrebbe molto; ma è stato eretto un muro. Un muro invisibile. I suoi effetti si vedono all'improvviso, mentre la musica continua e continua, incessante, confondendosi con il caldo.

E, allora, nulla esiste più. Non esiste più il grande cantautore che fa la commovente ed acclamata canzone sugli zingari. Non esistono più gli impegni, le parole spese, il sentirsi in un certo modo che uno si è costruito giorno dopo giorno. Alla prova dei fatti, capitato una domenica qualsiasi, casualmente, davanti a quel luogo, tiro avanti; senza nemmeno pensarci un attimo. Anzi, quasi fiero d'avere fatto il beau geste del saluto ricambiato, che può bastare. Ci siamo spinti fino al limite consentito dal muro, e la musica comincia a sembrare una specie d'incantagione del serpente, di canto delle sirene. Ma qui non c'è nessun Ulisse e non si va a Itaca. Si va a Ugnano per una strada quasi dimenticata. E si passa davanti a un mondo separato, chiuso.

Entrare, poi. Cominciano le autodifese giustificative, nella propria testa, mentre si cammina e si passa oltre. La musica comincia a affievolirsi, ed è strano come scompaia del tutto in pochi metri, come se il muro fosse anche una barriera acustica. Due perfetti sconosciuti; e gli sconosciuti, dicono, là dentro non sono ben visti. Si potrebbe essere scambiati per due sbirri, o per chissà chi altro. Questo si pensa, e ci si convince anche. E poi, in fondo, a che servirebbe entrare; servirebbe soltanto a dire: “Avete visto come siamo bravi, noi lo abbiamo fatto senza problemi, non ci hanno rubato un bel nulla e anzi ci hanno anche offerto il raki.” Un modo per pavoneggiarsi e per dare addosso ad altri; ad altri che, però, vivono dalla stessa parte tua. Sarebbe bene che nessuno se lo scordasse, questo. Neppure le anime più sinceramente belle. E si capisce all'improvviso che la famosa integrazione è un'idiozia e basta. Se i muri, e se quel muro che tutti abbiamo dentro, non esistesse, non ci sarebbe nessun bisogno di integrazione. Ci sarebbe solo il vivere come aggrada, e di considerare le singole persone come sono, senza né razzismi, né idealismi collettivi del tutto inutili. Ma quel muro c'è. Lo abbiamo fabbricato tutti quanti. Noi e loro. Nessuno è innocente. Ci siamo costruiti muri e paure reciproche, e alla prima banalissima prova tutto va al suo posto.

Mi viene in mente che proprio in quel posto, tanti anni prima, passando da un'altro lato, ci ero entrato. È proprio quello. Addirittura a notte. Ma assieme ad una persona che vi era ben conosciuta. Mi sentivo al sicuro. Se ero in compagnia di quella persona, ero automaticamente un “amico”. Partecipai, invitato, ad una loro festa. Poi tutto quanto andò come al solito: sentirsi orgoglioso di quell'atto, persino vantarsene, utilizzarlo. Come fossi stato un coraggioso esploratore nella terra dei selvaggi; e il mito del buon selvaggio fa parte della nostra cultura. Ecco, ora sono di nuovo davanti a quel posto, ma senza persone conosciute a fare da scudo. E non ci entro.

Del resto, il paesaggio presenta così tante attrattive, con l'incentivo dell' “a due passi da casa”. Ci sono inoltre altre emergenze: ad esempio, non ci siamo portati una bottiglia d'acqua e si comincia ad avere una sete tremenda. Un tizio innaffia l'orto con un tubo da cui butta un rocchio d'acqua enorme; ma, ci dice, è acqua presa direttamente dall'Arno. A berla verrebbe il tifo. Ora è tutto sterrato e le scarpe da ginnastica, a contatto con il nòcciolo del calcagno, mi hanno già fatto venire un paio di galle dolorosissime. Passa della gente a cavallo e l'acqua del fiume fa la spada del sole. Dove la strada è oramai diventata un sentiero tra gli alberi, un'ultima casa, sperduta. Doveva essere un rudere: ora è intonacata, grezzamente ma con cura, bianchissima fin dove son potute arrivare delle impalcature di fortuna. Si vede la mano di uomo solo che l'ha rimessa in sesto, sudando. Ci sono, fuori, dei giocattoli. Ci dev'essere una famiglia. Da una finestra si vedono delle pentole appese alla parete. C'è un nome arabo sul campanello. Più oltre, solo recinti di lamiera dietro ai quali si sentono cani che abbaiano; e non paiono per nulla docili. Per un momento, uno solo, mi appare in testa la faccia spigolosa di Pier Paolo Pasolini.

Non importa dire com'è finita questa passeggiata nell'altro mondo dietro casa. È finita, naturalmente, prima o poi tornando nel nostro mondo. È finita dicendomi: la racconterò. Figuriamoci se mi fo scappare un'occasione del genere, l'Ekbloggethi Seauton esige il suo tributo. Però è successa una cosa strana. Di solito io scrivo immediatamente, non appena scatta l'impulso. Questa cosa, invece, è accaduta nel mese di maggio. Domenica 24 maggio 2009, per la precisione. Da allora non ho più messo piede da quelle parti, e chissà se e quando ce lo rimetterò. Mi rimane l'immagine del furgone strapieno di ragazzi che salutano. Di esseri umani che si salutano. Chissà. Forse un piccolo, impercettibile buco nel muro.


sabato 25 luglio 2009

Per l'abolizione dei Minori


Circa alle 14,30 del 25 luglio 2009, all'età di quasi quarantasei anni, all'improvviso mi sono sentito un minore. Non avendo potuto mangiare prima e avendo la casa ridotta a un campo di battaglia per una mia improvvisa fregola di rimettere tutto in ordine e pulire (in una giornata con 40° di temperatura, ovviamente), sono andato dal Gala a pigliarmi un paio di panini col lampredotto. Sì, sì, lo so che i nutrizionisti dicono che bisognerebbe mangiare verdurine con questo clima; ma a Firenze la tradizione vuole che ci siano i trippai, e non i verdurinai. E menomale.

Il povero Gala (propriamente: Gala & Spannocchia, storico chiosco posto all'incrocio fra via Simone Martini e via Livorno) oggi aveva un diavolo per capello. Costretto, dall'ennesima eurostronzata, ad affiggere un cartello dove si avvisa che, dal 29 luglio, chi vuole mangiare un panino col lampredotto o una trippa al sugo dovrà accompagnare il tutto con dell'ottima Fanta, con una salubre cocacola o con gustosa acqua minerale. Niente più bicchiere di vino. Niente più birra. La solita ordinanza europea vuole così. Bisogna lottare contro l'alcolismo, e soprattutto quello dei minori. Come ha fatto quella ineffabile e cupa demente della Moratti a Lavoròpoli, naturalmente raccogliendo grandi consensi e promesse d'imitazione.

Triste, tristissima epoca questa dove si fanno le crociate contro le “piaghe sociali”, pretesto perfetto per eliminare ogni residuo sprazzo di libertà, anche quella delle cose più comuni. Persino un bicchiere di vino con un panino. Il lampredotto con l'acqua. Anche nelle bischerate, ridotti tutti quanti a dei minori, a dei bambini controllati in ogni cosa da babbo Stato e da mamma “Europa”. Ma ridateci la Stasi, almeno era meno ipocrita e meno idiota. Non mi risulta che nella DDR abbiano mai imposto di bere acqua (o “Vita Cola”) con il panino col würstel. Honecker faceva bere la birra.

Allora, sgargarozzandomi ben tre bicchieri di vino, uno per ognuno dei panini che ho mangiato, ho pensato che sarebbero stati gli ultimi. Che che bisognerebbe ricominciare seriamente a lottare contro le crociate e i crociati. Che questi qui, non il fumo, non l'alcool, ci stanno ammazzando tutti. Che la rivolta, quella vera, comincia dalle cose piccole e piccolissime. Anche per questo esprimo qui la seguente modest proposal: quella, finalmente e opportunamente, di abolire i minori.

Ci hanno rotto definitivamente i coglioni, 'sti minori. Non in quanto persone umane, sia chiaro; ma come categoria che, suo malgrado, funge da pretesto sociale per l'erosione quotidiana di ogni più elementare libertà. Gli stessi minori che, da un lato, ora sono “iperprotetti” e dall'altro non cessano di essere oggetto (anzi: “target”) di mercati, mercatini e mercatoni, animaletti standardizzati cui vendere tutto il superfluo possibile, immagini pubblicitarie. E quando non ci stanno, giù manganellate, giù cariche della polizia, giù sfruttamenti sul lavoro come nel laboratorio clandestino di maglieria che prese fuoco e nel quale si risolse la cose dicendo che era “morta una donna di quindici anni”. Una donna di quindici anni può morire bruciata mentre il sor padrone la fa lavorare dodici ore al giorno in un sottosuolo, però non può bersi una birra o fumarsi una sigaretta. C'è scritto, obbligatoriamente, persino sui pacchetti: I minori non devono fumare!

E allora sia fatta finita, una buona volta. Via la “maggiore età”. Le proprie capacità siano giudicate singolarmente. La patente? Se un bambino di dieci anni dimostra di sapere guidare, guidi. A giro vedo fior di trentasettenni che la patente devono averla trovata nelle patatine Pai come sorpresina. La capacità e la facoltà di amministrarsi? Se un “minore” può andare più o meno legalmente a lavorare, deve disporre dei soldi che guadagna come e quando vuole. Votare? Partecipare all'avallo del potere? Ma che ci vada pure anche a sei anni, se gli aggrada. Non mi sembra che il voto dei “maggiorenni” sia tanto più degno di quello dei “minori”, specialmente in questo paese dove, più che da minorenni, viene espresso un voto da minorati. Fino a diciotto anni si vive in carcere. Nel lager familiare che ti impone ogni cosa. Nel gulag scolastico che tutto ti instilla fuorché l'amore per lo studio e per il sapere, bensì deve formare sempre nuove bestie da lavoro (e non riesce a fare nemmeno quello).

Ah, dimenticavo la cosa fondamentale: il sesso! Ora come ora siamo arrivati agli assurdi, tipo il ragazzo diciannovenne che scrive tutto preoccupato alla rubrica di posta di un rotocalco perché ha fatto l'amore con la fidanzatina diciassettenne e ha paura “che lo arrestino”. Ma lo si sa che, in Italia, persino la “legge” prevede che la cosiddetta “età del consenso” è di anni quattordici? Ebbene sì. A partire da 14 anni si può fare l'amore con chi si vuole, persino con Silvio Berlusconi.

Via anche questa cosa, raus. Credete che sia un pazzo furioso? In Francia, paese dove di certe cose ancora si ha meno paura di parlare, sull'abolizione della legge sull' “età minima per il consenso” si discute liberamente in trasmissioni radiofoniche nazionali, come a Dialogues su France Culture nel 1978 (con Foucault, Derrida e Althusser). Si lotti piuttosto contro ogni forma di violenza, di abuso e di prevaricazione, non importa se su “minori” o “maggiori”. Si lotti seriamente contro le violenze familiari di qualsiasi tipo, contro la mercificazione del corpo femminile di qualsiasi età.

Ci siamo rotti i coglioni, cari signori, di tutte le crociate contro la pedofilia che servono soltanto ai vostri scopi ben più loschi e ben più tragici, tipo quello di impossessarvi di ogni rimasuglio di libera circolazione delle idee (specie in Rete). Ora tutto quanto è munito del prefisso pedo-. La pornografia non esiste più: ora c'è la pedopornografia. Indagano il tizio per l'omicidio della fidanzata e cosa gli trovano nel computer: immagini pedopornografiche. Viene così fabbricata l'aggravante anche se le fotine o i filmini trovati dalla pedopolizia (e immagino quanti quintali di seghe debbano farsi gli sbirri!) sono tutti con “maggiori di anni diciotto”. La Rete, poi: il posto dei mostri. Ai telegiornali, dove la pornografia, quella vera, dovrebbe essere rappresentata dai Bruno Vespa, dai Minzolini, dai Mimun, dagli emiliofede, dalle D'Eusanio e dai Cucuzza, si danno quotidiane notizie sulle retate antipedofilia, e si crea un clima utilissimo a chi vuol controllare, controllare, controllare. Intanto proseguono e prosperano trasmissioni come La vita in diretta, ben più morbose, volgari e pericolose della foto di una sedicenne che tromba.

Poi c'è il rovescio della medaglia. Il sistema ha bisogno di vittime e carnefici anche fra i minori. Da un lato i poveri bambini vittime de' mostri (ma quelli veri, di mostri, vengono lasciati tranquillamente fare); dall'altro i bambinacci cattivi. Allora cambia prefisso: da pedo- si passa a baby-. I babycriminali, le babygang. E il bullismo con la conseguente repressione, repressione, repressione. 'Iocane! Quand'ero alle elementari e alle medie l'ho rubato anch'io il panino. Ho qualche volta contribuito a brutalizzare il compagno secchione antipatico. Aggiungerò, pur non andandone certo fiero: alle Scuola Diaz dove andavo da piccolo (ma non era quella della macelleria messicana, era un'altra Diaz) nel pomeriggio venivano fatti venire i ragazzi di una scuola differenziale delle vicinanze, la Pieragnoli. Costoro, regolarmente, sfasciavano ogni cosa. Li chiamavamo tranquillamente gli spastici, non eravamo politicamente corretti. Poi capitava che il panino lo fregavano a me. Poi capitava che entravo un giro di prese per il culo da cui non ne uscivo, tipo quando mia madre mi mandò a scuola con un clamoroso paio di bretelle che suscitarono due giorni di inferno: me le tiravano tipo elastico (e facevano male!), me ne dicevano di tutte, finché il ragazzino del banco dietro non me le tagliò con le forbici (lo ringraziai, poi). Permaloso come sono, poi; e lo ero anche allora. Bene. Nel primo caso, ora, sarei definito un babycriminale, e nel secondo una vittima del bullismo. Con tanto di notizie sui giornali.

Vedo che questi minori non lo sono poi così tanto per non affibbiar loro epiteti da "grandi", come "criminale". Spesso addirittura di più in questi casi, che quando il minore (come succede da certe parti) fa effettivamente parte della manovalanza della criminalità organizzata, quella che spara e uccide. Fa quasi più indignare la vittima del bullismo a scuola che il ragazzino massacrato a revolverate (come ad esempio pochi giorni fa in Calabria: quindici anni). E l'insegnante sospeso e messo alla gogna perché si fumava una sigaretta in classe (crimine!). E dei poveracci di maestri e maestre d'asilo vicino a Roma trasformati in mostri e incarcerati sulla base di voci messe in giro fra i genitori (io sarei anche per l'abolizione dei genitori e della famiglia tutta, ma il discorso si farebbe lungo). I signori prèsidi, che peraltro non esitano a far combutta con la polizia quando i minori si stufano, che spediscono SMS alla famiglia se il ragazzo non si è presentato a scuola, impedendo così la secolare e altamente formativa esperienza di fare forca ("bigiare", "fugare" fuori dalla Toscana). E allora sì: aboliamoli una buona volta questi minori. E definitivamente. Basta. La misura è colma.

Abolire i “minori” è abolire la minorità che, ora più che mai, sta pervadendo ogni cosa. Anche il bicchiere di vino dal trippaio. Abolire ogni distinzione, e sopratutto ogni imposizione di “legge”, basata sull'età è restituire un soffio di vita all'abisso mefitico in cui ci hanno cacciati. Vietano l'alcool perché ci sono gli incidenti: sulle strade muoiono migliaia di persone all'anno perché, a un certo punto, il signor Fiat, il signor Ford e il signor Volkswagen hanno deciso di massacrare il mondo a base di automobili, per i loro profitti, per le loro catene di montaggio, per la loro disumanizzazione. Perché hanno deciso di avviare l'umanità al suicidio automobilistico. E, anche qui lo avranno notato tutti, dalle notiziuole “ad hoc” dei mass-media: ora in tutti gli incidenti automobilistici c'è per lo meno un ubriaco; con i conseguenti tentativi di linciaggio se è un rumeno/albanese/pakistano/maghrebino, e con l'eventuale distruzione del campo se è un rom. Se invece è un italiano è soltanto un briaco. Se poi è un vigile urbano non ne parliamo nemmeno. Ma cacciateveli nel culo, gli “etilometri”. Le città appestano di ogni sorta di veleno, e questi fanno le crociate contro chi ha bevuto mezzo bicchiere di vino e si è messo alla guida. Fanno pure le tabelle nei bar. Perché crepano i giovani. I giovani sono degli innamorati perenni della morte, un modo per crepare allegramente lo troveranno sempre, e in culo a tutti voialtri. A meno che, naturalmente, non decidiate di rimandarli a crepare in massa per una vostra guerricciola; e sono certo che non manderete le pattuglie in giro con il guerrometro.

Sarà detto: oh! Ma tutto questo perché, caro Venturi, ti eri messo a addentare un panino col lampredotto pensando che fra quattro giorni ti toccherà berci sopra un chinotto. Nel frattempo, mentre azzannavo il panino, all'edicola di giornali accanto al chiosco del Gala troneggiava l'esultante locandina della “Nazione” che annunciava i “soldati in città”. Sulle altre locandine, sicurezza, degrado, decoro. In mezzo a tutto questo non ci faranno nemmeno più imbriacare. Non si potrà più nemmeno bere per dimenticare. E allora non dimenticheremo. E allora, prima o poi, insorgeremo. Ve lo metteremo nel culo anche senza il vostro “consenso”, procurando di causarvi il maggior dolore possibile. E sarà un mondo più libero, senza più “minori”. Perché, ora come ora, sarebbe bene che vi ficcaste in testa che “minori” siamo tutti quanti.


giovedì 23 luglio 2009

Sambuca e sciampagn


Sono seduto a un tavolo d'una casa del popolo. Il popolo è quella cosa che, da queste parti, ci ha le case, i' patrimonio della crasse operaja, le bandiere della pace, la briscola e i' ventuno, i moccoli, la Fiorentina e lo scivolare lento nella morte dei vecchi che credevano di vedere un mondo diverso e un po' migliore. Sto bevendo una sambuca alla mosca come iddio comanda; e parlo a me stesso in francese. Un po' per non perdere l'abitudine, ché mi spiacerebbe non pronunciare più bene “c'est la lutte finale, groupons-nous et demain”; e un po' perché mi faccio un immaginario colloquio, spiegando a un altrettanto immaginario personaggio che, sì, la sambuca rassomiglia al pastis, ma che la si beve co i' diaccio e con tre grani di caffè. C'è un cane, sì, che lecca un gelato alla graniglia di cioccolata. Non è un caso; glielo hanno proprio comprato. Non mi stupisce. I cani, ogni tanto, sanno essere tipi strani. Al Nessie di Livorno, poco prima della libecciata del 30 marzo 2002, avevo conosciuto una pitbullina buonissima e coccolosa, ché non l'avevano educata a azzannare i cristiani; si chiamava Peggy. Tutte le sere, mentre io mi ammazzavo di Western Pearl, entrava prima del padrone (che parola di merda), s'accomodava e si faceva servire un boccale di birra rossa che si lappava, oserei dire, voluttuosamente.

Ché è una di quelle serate che chiamo, sempre, di periferia. Prima dovevo andare in un posto, e invece di andarci mi sono addormentato. Non ho voglia di fare un cazzo, e a cuor leggero perché nei giorni scorsi ho dovuto lavorare come un negro. Mi sono svegliato, e la pigrizia riportava una schiacciante vittoria sulla fame. Poi ho deciso di uscire, trascinandomi fuori e notando che il mio zainetto finalmente era diventato sufficientemente zozzo. E così sono sortito nell'estate macigna, con due patacche di non so cosa sulla maglietta e una tempesta bretone di cose in mente a faro spento. La fame stava chiedendo la doverosa rivincita; chissà se il Gala è ancora aperto. Il Gala è il trippajo, ma l'ortonimo proprietario c'è solo di giorno. Di sera, al chiosco, c'è un ragazzo bilingue. Fiorentino, anzi isolottino, e beneventano di campagna. Passa indifferentemente dall'accento di via dell'Argingrosso a quello di Pontelandolfo, o di San Marco dei Cavoti. Volendo, anche di Pietrelcina, dato che è in provincia di Benevento. E' l'estate. Sciamannati sudori, bestemmie e hot dog con le salse del discount. E' l'estate che si parla con tutti quanti e ci si dice un ciao anche senza essersi mai visti. E' l'estate delle famigliacce dei brutti, della moglie che fuma lasciando due chili di rossetto sulla cicca, del marito che prenota la stiacciata con la mortadella per il fine settimana a Marina di Porcoddio, della figlia che dice “ho fame”e mi guarda mentre addento il panino e persevero nello sbrodolarmi la maglietta. E' l'estate in cui pago e vo a parlarmi in francese alla casa del popolo, davanti a una sambuca alla mosca e al cane che lecca il gelato.

Le bandiere della pace delle case del popolo della periferia fiorentina, luogo dove si è sviluppata una peculiare forma di juché che non so se garberebbe al Presidente Eterno Kim il-Sung ma che però garba sufficientemente a méne, sono sdrucite a dovere. Une nuit ou l'autre je vais m'y foutre dedans en cachette et j' vais y mettre un drapeau de la guerre. Piazza Bovio. Poco prima pensavo a piazza Bovio di Piombino in una serata d'inverno. E' probabile che voglia richiamare alla mente qualcosa, e in piazza Bovio a Piombino ce ne ho di cose da richiamare, non foss'altro per le sei bottiglie di vino bianco che mi ci sono bevute, una dietro l'altra, la sera del 14 novembre 2001 dopo essere scappato via con la Polo blé avente gomme lisce. Scoppio a ridere davanti al cane. Sempre in francese m'immagino se m'avessero fatto l'etilometro, al ritorno. Il bello è che ero lucido. M'avrebbero portato in galera mentre declamavo tutte le regole delle mutazioni consonantiche nelle antiche lingue germaniche. Rido, sì, davanti alla sambuca che sembra sciampagn. Intanto il cane ha finito il suo gelatino. Chiamo la Daniela e glielo racconto, e mi dice che ai cani dovrebbe fare male una cosa del genere; ma penso anche che le cose che fanno male sono quelle per cui vale davvero la pena vivere. E siccome la cosa che fa più male di tutte è proprio vivere, allora ne vale estremamente la pena. La notte scorsa m'era presa una delle mie consuete fife di morire. Non mi addormentavo. Mi vedevo già decomposto e immaginavo il bleah dei soccorritori, la vache que ça pue. M'è toccato alzarmi e andare a prendere il telefonino per mettermelo accanto.

Ed è così. Spesso il male di vivere ho incontrato, e non sono stato nemmeno capace di pigliarci il premio Nobel come quel tizio che ci aveva fatto sopra la poesiola, che Satana se li pigli tutti i poeti e ne faccia carta da culo. Non ho seguito strade asfaltate. Da una nuvoletta lassù mischiata ai sette mari, un dito con un'unghia piena di loia m'ha indicato una stradina sterrata augurandomi buon appetito per la polvere che avrei avuto da mangiare. E, ad ogni passo, il male di vivere si trasformava in grumi di vita. Così ho imparato che non dev'essere una moda e nemmeno un appiglio o un pretesto. Lo si accetta così com'è e lo si elabora, proprio come nelle stelle un gas che non so si trasforma in un altro che so ancora meno. Lo si beve. Lo si ossequia. Lo si ride. Si presta attenzione ai gesti, come quello della ragazza che, in modo del tutto naturale, mentre versava la sambuca si grattava sguaiatamente un seno. Le prudeva e faceva bene a grattarselo. Il cane mi si è avvicinato e gli faccio una carezza sul testone. Torno a casa. Forse, dopo, riesco nella notte più profonda a cantarle quanto sono contento di stare al mondo; più inciampavo, su quella strada sterrata che menava ad una casa del popolo dove Iddio e il Demonio giocavano, vecchi bavosi, al tressette, e più capivo che una luce, per un attimo, mi aveva fatto capire che cosa ci fosse davvero, e con un senso allegramente impercettibile, alla fine.

martedì 21 luglio 2009

Canzone dell'antenna guasta


Com'è facile emozionarsi, basta chiudere gli occhi e pensare, ricordare. Un particolare, qualcosa magari d'insignificante, e via. Quante volte l'ho fatto qui. Quante volte. E quante volte prima che esistesse tutto questo; solo che me la dovevo vedere da me. Come tutti, del resto. Chi siamo? "Delle persone sole che ogni tanto si riuniscono per suonare", come dicevano i Madredeus. Dei fantasmi a base di minuscole letterine, che spesso giocano all'amicizia o all'inimicizia, rimanendo il più delle volte profondamente estranei. Succede sempre così. O quasi sempre. Sia benedetto l'inventore dell'avverbio "quasi".

Com'è bello riuscire a trasmettere un'emozione. Poi arrivano dei momenti in cui -senza tirare in ballo alcun destino- salta tutto. E non ci sono giustificazioni. È così e basta. Trasmettere, trasmettere, trasmettere. L'ossessione del trasmettere, manco si fosse un'antenna. X vuole trasmettere qualcosa a Y, magari è Z che capta. E captano anche A, B, D, W.....

Come c'insegna ogni buon elettrotecnico, a volte le antenne si guastano. Non si riesce più a trasmettere. Black out totale, e gente con le chiavi inglesi s'addanna; manca il fusibile, non si trova il relè, ti ficcano gli amperometri e si muovono lancette.

Vedi altri che lo fanno bene, quando prima ti riusciva così, come bere un bicchier di piscio. Vedi l'equilibrio, la ragione, la logica, che prima erano le tue armi, trasferite altrove senza sapere il perchè. Vedi il silenzio, il grande silenzio ricercato ogni notte e talvolta trovato anche in mezzo al più assordante rumore, farsi beffe del proprio amante e lasciarlo ai soliti bivi, o di qua o di là.

L'antenna non la si ripara in un momento, dice l'elettrotecnico. Ci vogliono i pezzi; magari una piccola vite, magari un piccolo circuito. Eccolo qua il tuo schermo impazzito; lampi di niente, scariche grigie, l'espressione stralunata. Gli spettatori per un po' aspettano, poi prendono il telecomando e cambiano canale. E' ovvio, è più che ovvio. Qualcuno, forse, spegnerà la TV. Comincia il siparietto della dimenticanza, un lustrino qui che se ne va, una paillette là che scompare, i pennacchi del can can che sfumano piano dietro le tende, derrière le rideau.

Ora l'antenna è un pezzo di metallo. Freddo, nudo, senza vita. Avrebbe voglia di mandar degli impulsi, ma non ci riesce. Si perde dietro a trasmissioni idiote di serie Z; scrive le parodie, ma è una parodia di se stessa. Se ne va anche l'elettrotecnico e rimane lì in attesa della ruggine, e dire che sembrava inossidabile; d'altronde a che serve più? Non trasmette. È ferraglia. Son finiti i tempi d'oro in cui le onde fluivano libere, e l'eterna legge del tempo vale per tutti.

A chi tocca adesso? Forza, antenne nuove! Fatevi strada, è il vostro momento. Perchè tutto passa, tutto passa veramente. Magari servirà per il riciclaggio, che è cosa degna d'un paese civile e povero di materie prime. Magari, prima d'essere smontata e fusa, manderà un'ultima scarica di onde per dire che c'era, ma come vi permettete, io son quella che senza pretese v'ha allietato un po' qualche momento d'una serata cupa.

Ma cosa vuoi? Credi ancora nella memoria? Credi ancora d'esser qualcosa di sacro e d'intoccabile? E chi te l'ha mai detto, stupidina d'un'antenna? Le mandavi tanto bene le tue onde, tutti eran lì a scappellarsi e a dirti brava, a raccomodarti quando facevi i capricci, a guardarti con soddisfazione dicendo: Ma che bell'acquisto, ma che chiarezza d'immagine.

Affrettati al crogiolo. Rinasci, forse c'è qualcosa oltre. Forse c'è un nuovo apparecchio cui potrai servire per un po'. E via con il solito gioco sottile, via con le pennellate di emozioni, via con nuovi fantasmi che a volte s'incontrano all'infinito, come le nostre sorelle rette parallele. Via con gli equilibrismi, via con le contrazioni, via con il mantice dei simboli, con le alchimie dei significati, con l'armonia delle arie che si gonfiano e svaporano, con le piccole immensità dell'imperfezione, con le banali ignominie d'un mondo di niente, con i granelli di sabbia.

Su' crateri si vive, a' nostri sogni è base il loto
E spesso atterra le nostre eternità breve tremoto.

lunedì 20 luglio 2009

Nel paese delle Api Incazzate


Una simpatica e divertente rilettura del capitolo XXIV del “Pinocchio” di Collodi, nella quale il protagonista è, come dire, un Pinocchio de' giorni nostri.Qui lo cogliamo in una strabiliante avventura occorsagli mentre scappava per l'ennesima volta dall'appuntamento con la Laurea.

Il consigliere comunale Giovanni Donzelli, animato dalla speranza d'avere l'ennesimo, buon pretesto per sottrarsi alla Commissione di Laurea, nuotò tutta quanta la notte.

E che orribile nottata fu quella! Diluviette, grandiniede, fece spaventosi tròni e certi lampi, che pareva proprio il gastigo universale, o addirittura quel giorno in cui fu preso a stiaffi nel viso in via Leopardi da alcuni onesti lavoratori! Sul far del mattino, gli riuscì di vedere poco distante una lunga striscia di terra. Era un'isola in mezzo al mare.

Allora fece di tutto per arrivare a quella spiaggia: ma inutilmente. Le onde, rincorrendosi e accavallandosi, se lo abballottavano fra di loro come fosse stato un fuscello o un filo di paglia. Alla fine, per sua buona fortuna, venne un'ondata tanto maschia, virile e cosciente degli'italici destini che lo scaraventò di peso sulla rena del lido.

Il colpo fu così forte che, battendo in terra, gli crocchiarono tutte le costole e tutte le congiunture: ma si consolò subito col dire:

- Anche per questa volta ce l'ho fatta! Son riuscito a gabbare la Commissione! Sapessi però almeno come si chiama quest'isola, e se è abitata da gente di garbo! Volesse Iddio che non fosse in preda a i' degrado e che vi regnasse la sihurezza! E se invece la trovo tutta piena di CPA...? O grand'Iddio, fa' che non sia così sennò so' d'i' gatto! Ma a chi mai potrò dimandarlo, se non c'è nessuno...? Uhm....sai ganzo, così magari scappo anche dalla mi' moglie!...

Assorto ne' suoi pensieri e trovandosi solo in mezzo a quell'isola disabitata, a poca distanza dalla riva vide un grosso pesce che se ne andava tranquillamente per i fatti suoi, con tutta la testa fuori dall'acqua. Non sapendo come chiamarlo per nome, gli gridò a voce alta per farsi sentire:

- Ehi signor pesce, che mi permetterebbe una parola?

- Anche due, - rispose il pesce, il quale era un familiarissimo pesce sega così garbato, come se ne trovano pochi in tutti i mari del mondo.

- Mi farebbe il piacere di dirmi se in quest'isola vi sono de' paesi dove si possa mangiare un boccone, senza pericolo di trovarli in preda al degrado, all'insicurezza, agli invasori islamici, ai terroristi, agli zingari, agli squatti e a' centri sociali?

-Ve ne sono sicuro, - rispose il pesce sega.- Anzi, ne troverai uno poco lontano di qui.

- E che strada si fa per andarvi?

- Devi prendere quella viottola là, a mancina, e camminare sempre dritto al naso. Non puoi sbagliare.

- Mi dica un'altra cosa. Lei che passeggia tutto il giorno e la notte per il mare, non avrebbe incontrato per caso un vascello con a bordo una Commissione di Laurea...?

- E cosa sarebbe codesta Commissione di Laurea...?

- Gli è una cosa tremenda che m'insegue da quindici anni e passa...

- Colla burrasca che ha fatto stanotte -rispose il pesce sega, il vascello sarà andato sott'acqua.

- E la Commissione...?

- A quest'ora l'avrà inghiottita il terribile pesce-gelmini che da qualche giorno è venuto a spargere lo sterminio e la desolazione nelle nostre acque!

Tirando un malcelato sospiro di sollievo, il consigliere comunale Donzelli cercò immediatamente il suo telefono cellulare per dare la lieta novella in via Maruffi, ma s'accorse con sua gran costernazione che lo aveva perduto in mare; salutato cortesemente il pesce sega, s'avviò per la viottola che menava al paese. Dopo circa mezz'ora di strada a piedi, durante la quale, per la gran fatica di quel lunghissimo cammino, si sarebbe fatto dare un passaggio perfino da Ornella de Zordo, arrivò in un piccolo paese detto “Il paese delle Api Incazzate”. Si chiese il perché di quel curioso nome; ma poi vide che le strade formicolavano di persone che correvano di qua e di là con gran cipiglio, impegnati nelle loro faccende: tutti LAVORAVANO, tutti avevano qualcosa da fare. Non si trovava un ozioso e un vagabondo nemmeno a cercarlo col lumicino.

- Ho capito! -Disse quello svogliato del Donzelli. -Questo paese non è fatto per me! Io non sono nato per lavorare!

Intanto la fame, però, lo tormentava perché erano oramai passate ventiquattr'ore da quella simpatica cenetta trendy al Colle Bereto interrotta assai poco urbanamente dall'irruzione de' Regi Carabinieri in armi. Che fare? Non gli restavano che due modi per potersi sdigiunare: o chiedere, orrore! un po' di LAVORO, o mendicare un po' di pane. A chiedere l'elemosina si vergognava, perché il su' poero babbo gli aveva predicato sempre che l'elemosina hanno il diritto di chiederla soltanto i vecchi e gl'infermi, ovviamente prima d'essere scacciati via a pedate a causa di qualche ordinanza comunale atta al ripristino della civile convivenza; oppure i veri poveri, che per cagione d'età, di malattia o d'essere scappati alla guerra, alla carestia e ad altre sventure, si trovano a non potersi procurare altrimenti il pane visto che non hanno il permesso di soggiorno. Tutti gli altri hanno l'obbligo di LAVORARE: e se non lavorano e patiscono la fame lontani dalle prebende di partito, tanto peggio per loro.

In quel frattempo, passò per la strada un uomo tutto sudato e trafelato, il quale da sé solo tirava con gran fatica, bestemmiando Iddìo, la Madonna e lo Spiritossanto, due carretti carichi di carbone. Il consigliere comunale Donzelli, pur inorridendo a quelle blasfemie essend'egli un buon cristiano assai timorato e rispettoso della Santa Tradizione, gli si accostò e gli disse sottovoce.

- Mi fareste la carità di darmi un soldo, perché mi sento morir di fame?

- Non un soldo solo, rispose il carbonajo, ma te ne do quattro a patto che tu m'ajuti a tirare fino a casa questi due carretti di carbone.

- Mi meraviglio! -rispose il Donzelli quasi offeso.- Per vostra regola, io sono un Consigliere Comunale nonché leader nazionale di Azione Giovani, e non ho mai fatto il somaro sebbene a scuola non sia mai andato granché!

- Meglio per te! -rispose il carbonaio-. Allora, caro il mio Consigliere Comunale, se ti senti davvero morir dalla fame mangiati du' belle fette d'Azione condite coi Giovani, e bada di non prendere un'indigestione!

- Dopo pochi minuti passò per la via un muratore, che dall'aspetto sembrava provenire dal paese degli Schipetari. Portava sulle spalle un gran corbello di calcina. Pur arrossendo di vergogna, gli disse:

- Fareste, brutto alb...pardon, galantuomo, la carità d'un soldo a un povero aziongiovinotto che sbadiglia dall'appetito?

- Volentieri; vieni con me a portar calcina- rispose il muratore- e invece d'un soldo te ne darò cinque.

- Ma la calcina è pesa -replicò il Donzelli- e io non voglio durar fatica! Poi mi si sciupa anche la camicina e mi si screpolano le mani!

- Se non vuoi durar fatica, allora, caro il mio giovane, divertiti a sbadigliare e mi raccomando di non ti spiegazzar la camicina!

In men di mezz'ora passarono altre venti persone, e a tutte il Donzelli chiese un po' d'elemosina, ma tutte gli risposero:

- Ma non ti vergogni? Invece di fare il bighellone per la strada, va' piuttosto a LAVORARE e impara a guadagnarti il pane!

Fu così che il consigliere comunale Giovanni Donzelli realizzò d'essere capitato per davvero nel posto sbagliato per lui; in un posto dove regnavano l'ordine ed il lavoro, non quelli per finta che voleva lui, ma quelli veri. E fu così che uscì di gran carriera dal paese, deciso piuttosto a ributtarsi in mare e a cercare la tanto vagheggiata Isola del Full-Up.


martedì 14 luglio 2009

L'Anarchico sul tetto che scotta



Ieri sembrava che tutto fosse andato al Panico e alla Riottosa. Invece sembra che sei ragazzi saliti sul tetto, dico sei, abbiano "convinto" i solerti tutori del disordine a ripiegare. Leggere a tale proposito il comunicato di Anarchici Pistoiesi.

Un comunicato che getta, se possibile, una luce ancora più ridicola dell' "operazione" voluta dal quellore, pardon, il questore, che risponde al nome di "Tagliente". Ma icché vorrà tagliare, lo sa soltanto lui. Taglia di più un coltello da cucina dell'Ikea.

La lettura del comunicato degli Anarchici Pistoiesi dà la misura esatta di tutta la faccenda. Sembra infatti che, in base al 270bis ("associazione sovversiva"), le fozzedellòddine cercassero nientepopodimeno che un pericolosissimo striscione.

Ma, del resto, si sa bene che, attualmente, uno striscione, un volantino o una scritta sul muro sono già sinonimi di "terrorismo" e che, quindi, possono essere perseguiti.

E così, l'Anarchico è montato sul tetto. In una giornata torrida di luglio, senza che la sbirraglia permettesse che si portasse loro da bere. Ma, evidentemente, l'Anarchico e chiunque crede a quel che fa riesce a sopportare anche questo. I questurini, invece, nonostante avessero probabilmente tutta l'acqua del mondo, ad un certo punto hanno deciso di levare le tende e di ritornare dal qualcunore, pardon, dal questore.

E i ragazzi sono scesi. E Villa Panico e la Riottosa sono sempre lì. Senza cantare nessuna vittoria, certo, perché ci riproveranno. Ci riproveranno con loro, ci proveranno prima o poi anche col CPA, ci proveranno sempre.

Ma c'è l'Anarchico sul tetto che scotta. Accidenti se scotta! Scotta soprattutto quando ci sono delle persone che, senza niente, sanno che cosa fare. La sotto, invece, ci sono dei tizi che "obbediscono agli ordini" e che, in realtà, non sanno mai che cosa fare. Non hanno nessuna convinzione, se non quella di servire; e forse non hanno poi poi nemmeno quella.

A meno di non prendere la mira a due mani e sparare a un ragazzo che sta dentro una macchina. La convinzione di essere impuniti, quella sì, ce l'hanno. Corroborata dai fatti.

Ma, intanto, quanto è scottato quel tetto a San Salvi, quanto è scottato quel tetto al Galluzzo. Ma ho come l'idea che sia scottato molto meno per chi ci era sopra, tenuto senz'acqua un tredici di luglio, che per chi era là sotto con la sua bella uniforme a compiere una buffonata comandata.

Per raccontarla un po', contravvengo volentieri alla "giornata di sciopero del blogger", iniziativa che comunque condivido. Ma un tetto e degli sbirri che ripiegano, un-due un-due, valgono bene una deroga.

Ci saranno altri tetti, e magari in giornate molto meno calde. L'acqua potrebbe anche cadere a catinelle dal cielo. Ci saranno altri sbirri che impediranno di portare ombrelli e coperte. E ci sarà sempre la resistenza.

Nel frattempo, al nessunore (pardon, questore) Tagliente e ai suoi pargoli consigliamo, invece del 270bis, di prendere il 36bus e di farsi un viaggetto a Tavarnuzze, ché tanto non pagano nemmeno il biglietto. Se proprio vogliono andare al Galluzzo, in piazza c'è un chiosco dove fanno un lampredotto che è una delizia; magari, così, impareranno il ben più nobile e socialmente utile mestiere del trippaio.

lunedì 13 luglio 2009

L'ordine regna al Galluzzo


Oggi 13 luglio 2009 sembra che i cosiddetti “pubblici poteri”, o roba del genere, abbiano voluto, a Firenze, regolare i conti con due pericolosissime realtà sociali alternative, sotterranee, antagoniste, chiamatele come vi pare. Smantellate “cellule di Al-Qaeda”? Sgominati “covi delle Nuove Brigate Rosse”? Macché. Stamani, in pompa magna, sono stati sgomberati nientepopodimeno che Villa Panico e La Riottosa. Due squat. Il primo, una fatiscente costruzione nel punto più oscuro e dimenticato dell'area dell'ex manicomio di San Salvi. La seconda, una vecchia costruzione al Galluzzo, vicino alla Certosa. Carta di identità di entrambi gli edifici: di proprietà “pubblica” (la prima appartiene alla ASL, la seconda al “Demanio dello Stato”), e lasciati andare tranquillamente alla malora prima che qualcuno li occupasse e ridesse loro una qualche vita. Una vita a pietre morte.

Occupati da ragazze e ragazzi che conosco. Anarchici, ma probabilmente anche questa definizione sta stretta. Persone che, ancora in quest'anno 2009, non desiderano vivere immerse nella maggioranza. Ne parlo in tutta onestà e senza avere mai avuto, francamente, il coraggio (perché anche di coraggio si tratta) di vivere la loro scelta. Io sto scrivendo da un buco, ma un buco di mia proprietà, acquistato coi miei quattrini. Loro i quattrini non li riconoscono neppure. Per questo, ultimamente, faccio bene attenzione a usare le parole. Parole o non parole, questi ragazzi adesso non hanno un posto dove andare a dormire perché la sora ASL e il sor “Demanio” hanno deciso di “riappropriarsi” di quei due edifici che, come in decine di altri casi del genere, in realtà non servono loro a niente. Che hanno sgomberato, come l'Asilo di via Bolognese, perché potessero finalmente tornar parte della “legittima proprietà” da fare andare legittimamente allo sfacelo, vuota, spettrale, senza più vita. Persone come queste non sono semplicemente tollerate. Non devono esistere. Non è neppure questione di “occupare”, oramai, e neppure di non condividere o di criticare la loro scelta di vita: è questione di eliminare qualsiasi molecola di opposizione, e di sua testimonianza sulla propria pelle.

Ho frequentato quei due luoghi, seppure saltuariamente, seppure -lo riconosco in tutta onestà- come estraneo, come condivisore di princìpi senza però avere le palle per piantare ogni cosa e fare come loro. Se qualcuno di loro per caso leggesse questa cosa, è giusto che lo sappia. Al Panico ho messo piede fin da quando era ancora davvero in vicolo del Panico, in pieno centro, in un posto che -ovviamente- nella Disneyland di Lorsignori non poteva starci. Un bubbone da rimuovere, nello stesso quartiere (anzi, a due passi di numero) dal “Full Up” e dal “Colle Bereto”; sapete, quei due bei localini “trendy” recentemente chiusi perché trendyissimi centri di smistamento cocaina per ragazzotti coi SUV, calciatori ed altri signorini e signorine che per fare un solo cervello dal QdI di Forrest Gump ce ne vorrebbero almeno una quarantina. Quelli sono i posti che vanno bene nei “centri storici”, però. Al posto del Panico, che stava in un antico palazzo del mille e cazzocento, ci hanno sicuramente fatto “prestigiosi appartamenti”. Prima se ne sono andati a occupare una casa in piazza Ghiberti, proprio davanti alla “Nazione”, vuota da anni e rigorosamente sulla strada del crollo; sgomberata. Con la loro presenza, naturalmente, piazza Ghiberti era diventata una “polveriera”. Un vaffanculo e uno strattone dati a una guardia giurata si trasformavano, nelle pagine di quel giornale, in tentativi di omicidio. Il quartiere, va da sé, era “esasperato”. Falsità quotidiane, menzogne, bugie, frottole, disinformazione assurta a prassi obbligatoria. Sgombero. Naturalmente. Sgombero in nome, come dubitarne, del “degrado” e della “sicurezza”. Andate un po' a vederla ora, piazza Ghiberti. Cos'è diventata? Un parcheggio. Tutto diventa un parcheggio.

Vanno nell'area di San Salvi, occupano e una mattina d'inverno li sgomberano come se fossero i peggiori delinquenti di questo mondo. Inventano persino che “hanno armi e proiettili”: erano dei chiodi. Li sgomberano per far vedere al mondo che c'è la “tolleranza zero”; fatta l'operazioncina ben coperta dei “media”, i ragazzi aspettano due giorni e ci ritornano. Attività: sopravvivere senza cedere. Vivere nel modo che vogliono ed in cui credono. Una cosa, va da sé, pienamente sovversiva. Illegale. Ora bisogna vivere nella “legalità”, bisogna uniformarsi, bisogna andare al Colle Bereto; bisogna, per andarci mezza serata, indebitarsi fino al collo. Bisogna delegare. Bisogna vivere una vita da precari. Bisogna apparire quel che non si è. Stamani, sgomberati. Non so cosa accadrà, se torneranno, se andranno da qualche altra parte. “Non ci avrete mai”, gridavano. Ma a Lorsignori non interessa affatto di “avervi”: interessa che non abbiate modo alcun modo di essere insieme, di svolgere ed esprimere un'attività. Così come non interessa loro affatto la “destinazione” di quei luoghi da cui vi scacciano. L'importante è che non ci siate, che siate fantasmi. E' questo che non dovrete mai permettere, a costo di occupare una piazza. Ma sono del tutto certo che lo farete, quindi le mie sono parole ovvie.

La Riottosa. Era una costruzione che se ne stava lì da sessanta o settant'anni a marcire. Nessuno sapeva nemmeno cosa fosse o fosse stata, fino al giorno in cui è diventata uno squat. E uno squat che, con grandissima rabbia, gli abitanti della zona hanno mostrato in gran parte di accettare e di considerare come parte del proprio quartiere. Grazie alle iniziative, grazie al non rinchiudersi, grazie a decine di iniziative non fini a se stesse. Non solo l'edificio: anche i terreni circostanti un po' coltivati per procurarsi da mangiare (alla Riottosa sono rigorosamente “vegan”) in modo autosufficiente. L'edificio ristrutturato e consolidato con le proprie mani. La famosa “bruca” organizzata periodicamente per autofinanziarsi. Apriti cielo. All'improvviso, dopo decenni, il “Demanio” scopre di avere quella costruzione (persino di un qualche pregio architettonico) che stava tranquillamente lasciando andare in macerie. Qualche genio propone di installarvi la “biblioteca della Certosa”: i ragazzi rispondono sghignazzando che, trovandosi l'edificio in riva all'Ema e in una piana tra le più umide della città, tanto varrebbe, i preziosi libri dei fratacchioni, buttarli direttamente nel fiume. Costruiscono forni a legna per fare le pizze, non rompono le scatole a nessuno però, al tempo stesso, le rompono tanto. Perché legano con la gente, la quale vede che ci sono dei giovani che lo sono veramente, non come quei morti viventi dell' “Azione” che, beninteso, sono tra i più cagneschi fautori degli sgomberi e che non perdono occasione per farsi ridere addosso e, in qualche caso, anche di buscarne un sacco e una sporta da dei lavoratori di un negozio che se li vedono piombare a far le concioni in nome della “droga” proprio il giorno dopo la chiusura dei localini trendy dove si erano guardati bene dall'andare a pontificare (forse, chissà, perché li frequentano in gran copia).

Sgomberati. Anche la “Riottosa” cessa di esistere. Per quanto mi ricordo, una giovane coppia che ci viveva aveva avuto, poco tempo fa, un bambino. Ma vi rendete conto? Mettere al mondo un figlio alla Riottosa, a giocare con i gatti e i cani (ce ne erano di bellissimi), a vedere il babbo, la mamma e gli altri ragazzi a coltivare l'orto, e senza televisione. Con una marea di libri dentro. Senza Playstation, senza Facebook a quattro anni e Twitter a sei, senza battesimi in grande stile, senza vestitini alla moda. Assolutamente un delitto. I fantasmi che, addirittura, si riproducono. Fantasmi che non si lamentano che “c'è la crisi e non si va avanti” perché all'improvviso scoprono che non possono più permettersi, nella famigliuola, quattro macchine, due motorini, otto telefonini di dodicesima generazione, la settimanina bianca e il sabato nei locali da 55 euro a coctellino dove, però, si può avere tanta bella polverina bianca e magari si può incrociare il calciatore con la velina.

A tutta questa gente, a tutta questa città, a tutto questo mondo avrebbe fatto un gran bene passare non dico una vita, ma due mesi a Villa Panico o alla Riottosa. Forse magari qualcuno, a San Salvi o al Galluzzo, l'ha pure pensato. Ed è proprio per questo che, oggi, li sgomberano. E' questo il vero pericolo. Lo stesso per cui hanno sgomberato a suo tempo il CPA e l'Emerson. Lo stesso per cui, ognuno dal proprio buco e ognuno coi propri mezzi, è chiamato a non cedere. Sia detto da uno, e voglio ripeterlo, che messa questa cosa sul blog aprirà il proprio frigorifero e ne caverà un pezzo di pane e anche il companatico, e che andrà a dormire nel proprio letto. Da uno che non vuole passare per quello che non è. Da un semplice, saltuario, spesso incoerente compagno di strada. Da uno, però, che non ama il silenzio. Per nulla. Il silenzio che stasera regnerà a Villa Panico e alla Riottosa, a San Salvi e al Galluzzo, esattamente come un tempo regnò l'ordine a Varsavia.



venerdì 3 luglio 2009

Dio e il Culo


Una barcata d'anni fa, che forse sarebbe stato meglio non fossero mai arrivati, de' missionari nel nome d'un monodìo mediorientale sbarcarono agli antipodi. Ora, ci sarebbe da discutere sugli antipodi; sono sempre i nostri. Mai quelli loro. Noi non siamo mai gli antipodi di nessuno. Ci provò anni fa una casa editrice cartografica neozelandese a fare una mappa arrovesciata, con l'Antartide in cima e l'Artide in fondo. La misero pure in regalo sulla rivista “Internazionale” e me la ritrovai appiccicata in bagno a Friburgo. Strano destino.

Ora, questi missionari (quelli della famosa posizione, per intenderci) dovettero ritrovarsi a contatto con quelli che noi chiamiamo “Aborigeni”. Vuol dire “ab origine”, dall'origine: quelli che abitavano là fin dall'inizio dei tempi. Avevano colori strani, parlavano lingue che secoli dopo sarebbero state buone per le grammatiche descrittive della Mouton & Co. basate sui principi generativo-trasformazionali di Noam Chomsky -come quella della lingua Maung, ce l'ho- e, non essendo esseri umani, dovevano essere giustappunto umanizzati. Per umanizzare, in primis bisogna affibbiare l'iddìo giusto. Sonasega in quali soprannaturalaggini credessero, il dio sole, il dio canguro, il dio bruscolino nell'occhio, il dio pompino; affari loro. In ci si crede o non si crede è sempre affar nostro e basta. Portavano, probabilmente, orgogliosi astucci penici. Gli uomini. Le donne, boh, giravano gnude. O forse no. Magari ci faceva anche freddo. Magari si coprivano con pelli di skrungambongang, che non so cos'è ma suona bene. Oppure, ancor magari, resistevano al diaccio. Oppure sto, com'è assai più probabile, sparando un'enorme quantità di cazzate. Ci sta.

Si trovarono, que' volonterosi missionari inventori della posizione, di fronte ad un problema insormontabile. A parte la lingua. Ma vabbè, dai picchi'e mena la lingua la si impara; sennò come si fa a tradurci la Bibbia. Io ho inventato una lingua, fin da quand'ero bambino; si chiama kelartico. La so soltanto io, e per forza. Eppure sono convinto che, prima o poi, mi troverò la Bibbia tradotta anche in kelartico. E se non l'ho fatta io (Dio me ne guardi!), l'avrà fatta Iddio. Eh, lui non ci ha mica bisogno del Trados.

Ma dicevo del problema insormontabile. Davanti a degli esseri che per ogni cacata ci avevano un dio, bisognava instillare il principio -assai discutibile, invero, ma tant'è- che, invece, di dio ce ne fosse uno soltanto. Massiccio. Onnipresente. Giusto. Infallibile. Soprattutto paterno: tutti siamo suoi figli. Quei poveracci, anche di fronte al missionario viterbese che aveva imparato il Maung alla perfezione, cominciarono un po' a andare nei pazzi e un po', chissà, a pigliarlo per le mele. Figli di chi? È possibile che in quelle società primitive & comunitarie le donne avessero figli da chi cazzaccio pareva loro, c'era lo sciamano che sciamannava ogni cosa, l'unica istituzione era la caccia e tuttora, in alcune di quelle lingue, il conteggio arriva solo fino a cinque (però, in compenso, oltre al plurale e al duale c'è persino il triale). E che importa contare di più? Dieci sono due mani. Basta dire “due mani”. Volendo si può usare anche le dita dei piedi fino ad arrivare a venti, ma venti non serve. I soldi non c'erano.

Il missionario viterbese ci pensò un po'. Come spiegare che Dio era il “principio” di ogni cosa, il Creatore, l'Autore, il Titolare del Copyright, e ch'eravamo tutti fratelli (in quanto figli dello stesso padre) in attesa che i fratelli slavati estinguessero quelli più scuri? Insomma, come spiegare che Dio era il “fondamento” d'ogni cosa? Ebbe forse voglia di spiegarglielo in viterbese dalle parti di Vetralla, di dir loro ma vattel'a pijà...ecco! Il fondamento! Dio manda sempre l'idea giusta. Però non bisogna dirla in viterbese, ma in inglese. Cos'è la cosa concreta più vicina al fondamento? Il culo! Arse, in grafia propria, e ass in quella colloquiale. Antica parola germanica, come si evince dal tedesco Arsch. Vocabolario essenziale e popolare non toccato dall'élite normanna infranciosata.

Sembra che la cosa, come racconta Alessandro Bausani nel suo seminale volume Le lingue inventate, edizioni Ubaldini-Astrolabio, 1974, abbia funzionato. L'abborìggeno comprese in modo inequivocabile: Dio era il culo, e il culo era Dio. Tutto promana dal Culo. Siamo tutti figli del Culo. Essendo un concetto nuovo, fu naturale che il termine usato dal missionario fosse adottato di sana pianta per esprimerlo: noi abbiamo preso loro il canguro (che vorrebbe dire, più o meno, “so una sega io”) e loro ci hanno preso il culo. “Dio”, in Maung, o in chissà quale altra lingua di quelle parti, si dice Ass. E le vie del Signore sono davvero infinite. Non c'è scampo. O forse sì, perché a quel punto -fatto il più- il missionario avrà dovuto spiegare a quella gente che c'era una tizia che era rimasta vergine pur essendo incinta; e siccome suo figlio era Dio, era incinta del Culo. Mi fermo qui. Ho una certa qual tendenza al grand-guignol, ma ho pur sempre dei limiti. Ad esagerare, poi, si finisce sempre per pigliarlo nel Dio.


giovedì 2 luglio 2009

Giorgianeda


Volevo dire due parole, assolutamente piane, su una cosa.

A me, quando una polizia o qualcosa del genere spara sulla folla e ammazza, fa regolarmente uno schifo indicibile. Mi fa schifo che a Neda l'abbiano ammazzata a Teheran. Era una ragazza che manifestava. Anzi, era una ragazza. E basta. Non si deve sempre dire “che manifestava”. Manifestare, opporsi a quel che si vuole, porca madonna, è un diritto. Ovunque. Mettiamocelo bene nella testa, una volta per tutte. Che non stia bene cosa facciano i cazzoni che, in ogni parte del mondo, si arrogano la figura di “governanti”, non è soltanto un diritto: è un dovere. Pagarlo con la vita non ha parole. “Schifo” è solo un eufemismo.

Però c'è da dire anche qualc'altra cosa.

Neda sembra diventata un'icona, ora. Poveraccia, è perfetta. A lei magari non gliene importava un cazzo se non di andare a protestare contro quel che considerava un sopruso; e l'hanno ammazzata. Il risultato è stato l'eroizzazione. La stessa riservata al ragazzo cinese che fermava il carrarmato a Tienanmen, quella che allo stesso ragazzino palestinese che pigliava a sassate un tank israeliano nei Territori non è stata riservata. Altro risultato è stato lo scatenarsi dei perdigiorno telematici alla moda, i cretini dei 140 caratteri di Twitter, gli indignati per Teheran che al contempo non si sono mai accorti di uguali ragazzi ammazzati dalle nostre polizie “democratiche”. Attenzione, perché gli stessi che ora si accorano per Neda sono spesso gli stessi che hanno applaudito i macellai della Diaz e il Placanica.

Il Placanica? Banale. Carlo Giuliani? Banalissimo. Tirava l'estintore mentre si opponeva a qualcosa. Ha sbagliato piazza. Se avesse tirato l'estintore in faccia ai Pasdaran o ai cinesi in Tibet sarebbe stato un eroe. La piazza doveva chiamarsi Bandar Gharman o Gyatso Tenzing, non Alimonda. Allora persino l'estintore sarebbe diventato un oggetto di culto. E il Placanica doveva chiamarsi Plaqanikejad o Palaq Aning. Sarebbe stato il mostro. Vorrei anche vedere quanto il popolo dei twitteronzi centoquarantacaratteretteggia su Alexis Grigoropoulos, un altro che ha il torto assai poco mediatico di non chiamarsi Nedo.

Oppure vorrei ricordare di un'altra ragazza che manifestava, senza estintori e senza niente, che si chiamava Giorgiana. Manifestava a Roma, tanti anni fa. Vediamo se qualcuno ancora se ne ricorda. Ammazzata. Non dai Pasdaran ma dalla polizia o dai carabinieri. Non fa lo stesso effetto, come diceva Guccini: ci fregano con il nome. Vuoi mettere essere ammazzata, a diciannove anni, dai Pasdaran invece che dai carabinieri; è proprio come la tirata da Omaha a Tucson in confronto a quella da Piumazzo a Sant'Anna Pelago. In più, quando Giorgiana è stata ammazzata dai carabinieripolizia italiani, non c'era Internet, non c'era YouTube, non c'era Twitter. C'era Radio Alice che se si provava le entravano dentro, la devastavano e la chiudevano a forza, proprio come i Pasdaran. Non c'era niente tranne la stessa ragazza privata della vita da uno stato. Spero che si incontrino da qualche parte, Neda e Giorgiana, e che diventino amiche, compagne, giovani per sempre e vive. Spero che gli ipocriti e tutta la loro panoplia di media, di titoloni, di polizie, di scoregge prezzolate e di seghe telematiche crepino del peggior male.

Nella foto, un pppasssddarrannn. Kossadinejad. Uno che, tempo fa, ha teorizzato di andare in mezzo alle manifestazioni di ragazzi dei licei a "mandarli all'ospedale". Facciamo anche un conto di quanti manifestanti siano stati ammazzati in Italia, e quanti in Iran. Tanti bei nomi puramente iraniani. Masi. Lorusso. Zibecchi. Boschi. Ardizzone. Giuliani. Franceschi. Saltarelli. Del Padrone. Serantini. Eccetera. Bisognerebbe non piegarsi a questo sporco giochetto, in primis per rispetto proprio a Neda.