lunedì 30 marzo 2015

Sempre i primi




Occorre constatare che noialtre persone comuni, che magari non abbiamo vite interessanti, non occupiamo posti ragguardevoli nella società, non abbiamo ricchezze e magari neppure tanti grandi sogni -tipo quello di volare-, va a finire praticamente sempre che siamo i primi a volare per davvero: da finestrini di treni saltati in aria, da finestre al quarto piano della questura, da undicimila metri su un aeroplano con il copilota depresso, dai cazzotti e dalle prese d'ingaggio di solerti tutori dell'ordine...così ho pensato di prendere una bella canzone (che, in fondo, parla pure di persone ordinarie come noi, tipo quei vecchi partigiani che oramai sono quasi tutti morti) e di scriverci sopra delle parole diverse. O forse uguali, chissà. Sull'aria di quella canzone andrebbe cantata, sempre naturalmente che lo si voglia.

Noi che vorremmo vivere, o avremmo voluto
noialtri sempre i primi a non aver dovuto
coi nostri giorni qualunque, le nostre vite comuni,
scoppiati, bruciati mentre facevamo un saluto

Noialtri sempre i primi a montare sul treno sbagliato
tornando da Lecce a Milano su un vagone zozzo e mezzo sgangherato,
chiacchiere sulla famiglia e pure sul pallone,
'sto Milan qui che fa pena....di colpo un lampo, un'esplosione

Noialtri sempre i primi a andare in crociera fuori stagione,
prezzo stracciato e visite guidate a Tunisi per due o tre ore
inchinandosi all'isoletta o andando a vedere l'antico museo
dove c'è stata pure una visita di profeti col mitragliatore

Noialtri sempre i primi a prendere all'ultimo momento
il volo per Düsseldorf facendo una corsa trafelata
check in, l'antiterrorismo, due piloti rinchiusi in cabina
tra i quali uno è un poco depresso, lo ha lasciato la fidanzata

Noialtri sempre i primi a andare una notte fuori di testa
per esser schiacciati dai carabinieri, maresciallo comandi,
noialtri sempre i primi a constatare com'è forte lo stato
quando ti chiami, per fare un esempio, Magherini o Aldrovandi

E noi:

Siamo sempre i primi, ma non nel regno dei cieli
Siamo sempre i primi, ma non nel regno dei cieli
Siamo sempre i primi, ma non nel regno dei cieli
Siamo sempre i primi, ma non nel regno dei cieli
Siamo sempre i primi, ma non nel regno dei cieli

ad libitum

venerdì 27 marzo 2015

Geordie, proprio lui


Di certo sarete abituati a conoscerla cantata da Fabrizio De André, assieme alla sua prima insegnante d'inglese (che si chiamava Maureen Rix); negli ultimi tempi, la voce femminile era quella della figlia Luisa Vittoria, detta Luvi, ma tutti credevano che fosse Dori Ghezzi. La aveva ripresa dal "Ballad Book" di Joan Baez, in cui era cantata una versione tardosettecentesca di una ballata scozzese "di frontiera" ("border ballad") ben più antica che narrava le complicate vicende di George Gordon, conte di Huntly, al quale il re minacciò di tagliare il collino perché non ce l'aveva fatta a eliminare un pericoloso bandito di strada. I fatti si erano svolti nel 1554: un paio di secoli erano bastati per trasformare delle vicende storiche in una ballata dove un ragazzo veniva impiccato per bracconaggio e la sua fidanzata (che già gli aveva fatto un par di figli -in alcune versioni addirittura sei!- e ne aspettava un altro) cercava invano di salvarlo: la tradizione popolare, quando esisteva, era un tritatutto. A proposito, sentite un po' come la cantano per davvero in Inghilterra, con un testo un po' diverso e un po' più lungo. Lo so che non si dice "a me mi", però a me mi garba parecchio di più, così.

Now as I rode out over London Bridge
On a misty morning early
I overheard a fair pretty maid
A cry for the life of her Geordie

“Go bridle to me a milk white steed
Bridle me a pony
I'll ride down to London town
And I'll plead for the life of my Geordie”

“For he never stole ox he never stole ass
He never murdered any
He stole sixteen of the King's wild deer
He sold them in Bohenny”

But when she rode down and in the king's hall
There were lords and ladies plenty
Down on her bended knee she fall
And she begged for the life of her Geordie

Cries, “Six pretty babes I had by him
Another one lies in my body
Freely I'd part with each one of them
If you'll give me the life of my Geordie”

“For he never stole ox he never stole ass
He never murdered any
He stole sixteen of the King's wild deer
He sold them in Bohenny”

But the judge looked over his left shoulder
He cries, “I'm sorry for thee
Me pretty fair maid you come too late
For he's been condemned already”

“Oh my Geordie shall hang in a chain of gold
Such chains as never was any
Because he came of the royal blood
And he courted a fine young lady”

“Oh he never stole ox he never stole ass
He never murdered any
He stole sixteen of the King's wild deer
He sold them in Bohenny”

“Oh I wish I had you in yonder grove
Where times I have been many
With my broadsword and a pistol too
I'd fight you for the life of me Geordie”

“For he never stole ox he never stole ass
He never murdered any
He stole sixteen of the King's wild deer
He sold them in Bohenny”
 

giovedì 26 marzo 2015

Apri la porten, kazzen!




C'è pure il video che spiega come funzionano, al giorno d'oggi, le porte delle cabine di pilotaggio de' rioplàni. Più facile uscire da Alcatraz, a quanto pare; sono le proceduren di sikurezzen che sono state rafforzate dopo l'undici settembre. Perché, va da sé, se si monta su un aeroplano -avarie a parte-, è gioco forza crepare di terrorismen. Salgono due tipi strani, e a un certo punto tirano fuori un paio di pistole, un taglierino, una bomba a mano, un micidiale panino di McDonald's, quello che vi pare, entrano in cabina di pilotaggio e bùùùùmme, non di rado in nome di Allah o del suo Profeta. Quel che è successo sulle montagne dell'Alta Provenza, invece, apre scenari del tutto nuovi e inaspettati; o beccàtevela un po', la sikurezzen, ora. 

In fondo, c'è quasi un sottile piacere quando si monta su un bestione de' cieli; pensare che, tra i passeggeri che siedono assieme a te nel lungo viaggio ci potrebbero essere, e perché no, i terroristi che ti fanno saltare in aria. Quei due simpatici signori dall'aria mediorientale (che magari sono di Battipaglia), quel silenzioso e timido ragazzo, quella giovane mamma con dei ringonfiamenti sospetti in punto vita. Ma che si va mai a pensare; già dagli aeroporti, oramai, salire su un aeroplano fa tornare immediatamente la voglia dei vecchi transatlantici (o bastimenti) o dell'Orient Express. E' un delirio di controlli, di procedure, di metal detector, di divieti tassativi, di cani addestrati, di trattenimenti preventivi, di comunicazioni con la NSA, di formulari, di check in, check out, check bepp, di bagagliammàno. Oh, meravigliosi trenini regionali Firenze-Livorno che viaggiano con centosette minuti di ritardo, ci scusiamo per il disagio! Deh, indimenticabili traversate su traghetti sgangherati che ci mettevano du' ore e mezzo da Piombino a Portoferrajo! Commovente linea 44 da Piazza Pier della Francesca a Ugnano, che sono due continenti diversi. Mi piacerebbe sapere che accidente viaggiate a fare, ora come ora; tanto ve ne state incollati & inebetiti allo smartphone, che andiate in nuova Zelanda o a Pontedera. 

Se andate in Nuova Zelanda, però, c'è il diversivo dei terroristi. E' un pensiero che tiene compagnia e fa passare più velocemente il tempo; il giochino della sottile paura unito alla constatazione di sentirsi al sicuro, perché su un aereo oramai non si può portare con sé nemmeno uno stecchino da denti. Figuriamoci se si va a pensare, che so io, al copilota che gli girano i coglioni per affari suoi; per definizione, i piloti degli aeroplani sono persone equilibrate, vengono valutati in ore di volo, sono percepiti come fascinosi e c'è tutta una casistica di barzellette da caserma sulle loro relazioni con le hostess. Poi, un bel giorno qualsiasi, te ne vai da Barcellona a Düsseldorf su un volo low cost di una compagnia controllata dalla Lufthansa (sinonimo di perfezione, sicurezza e professionalità senza pari), e ti becchi il giovane copilota tedesco Andreas Lubitz, 630 ore di volo e una gran voglia di passare alla storia giocandoti un tiro non solo parecchio brutto, ma anche e soprattutto non contemplato dagli apostoli della sicurezza.

Al comandante scappa una pisciatina, e quella pisciatina diventa il confine tra la vita e la morte. Usufruendo del rigorosissimo sistema di sicurezza per la procedura di apertura e chiusura della porta del cockpit (che dovrebbe tradursi come "buca del gallo", e forse anche come "buca del cazzo" - e nel caso dell'Airbus propenderei per quest'ultima traduzione), il copilota Andreas Lubitz si barrica dentro mentre il comandante Patrick S. tenta, disperato, di scardinare l'inscardinabile. Sì, perché il copilota Andreas Lubitz, che -chissà- lo aveva lasciato la fidanzata oppure era stressato oppure ci aveva una vertenza sindacale oppure era membro della Santa Chiesa degli Ultimi Martiri dei Carciofini Sottolio oppure gli avevano diagnosticato una grave malattia con due mesi di vita oppure ci aveva il cervellino un po' bacato oppure chissà cosa, ha deciso di starsene rinchiuso lì nel cockpit e di azionare il dispositivo di discesa rapida per schiantarsi sul Monte dei Tre Vescovi, in Alta Provenza. Pòle un pilota d'aeroplani decidere d'ammazzarsi in volgarissimi modi, mettendosi una corda al collo, sparandosi una revolverata o buttandosi da un quarto piano se proprio vuole crepar volando? Vuoi mettere schiantasi su una montagna con un Airbus? Sì, va bene, d'accordo, ci sono soltanto una centocinquantina d'altre persone che moriranno assieme a me, che vuoi che sia, mal comune mezzo gaudio. 

E così, alla graziosa cantante lirica in viaggio con la famigliuola, alla scolaresca del liceo tedesco in viaggio di scambio, alla schiera di imprenditori e manager che vanno a Düsseldorf per lavoro (e già decedere in un viaggio di lavoro è dura, ma persino per andare in quel troiaio di Düsseldorf...), all'attivista australiano per i diritti dei gay, alla massaia catalana coi figli in Germania, alla hostess con la divisa nuova nuova e pure al comandante reduce dalla sua pisciatina, è toccato morire non per il jihadista a bordo, non per il terrorista che si vuole schiantare sulle Torri Gemelle o sul Pentagono, non per tutta quella serie di cose che hanno messo in atto la fuffa planetaria della sicurezza, ma per uno Skettinen con intenti suicidi. La versione aviatoria del pensionato che apre il gas e fa esplodere tutto lo stabile. Povera gente, che a morire proprio non ci pensava neanche, e che invece ha dovuto farlo in un modo ridicolo, anche se altamente istruttivo.

Penso al comandante che prende a mazzate la porta ultrasicura, gridando aprila, kazzen!; e al copilota Lubitz che, in silenzio e respirando normalmente, vede avvicinarsi le montagne. Un ragazzo discreto e felice, come ce lo stanno descrivendo, che aveva il sogno di volare. Sarà perché ho sempre diffidato, e parecchio, da chi ha il sogno di volare. A me piace veder volare gli uccelli, un semplice passerotto di pochi centimetri vale da solo tutti gli aeroplani di questo mondo e, al massimo, ti scarica una cacatina sul capo. Con la coscienza piena, però, che quella cacatina potrebbe anche contenere un gravissimo germe patogeno che ti manda al Creatore in tre mesi; di sicurezza non ce n'è, mai. La sicurezza è come quelle famose cinture obbligatorie che non si sganciano mentre la macchina prende fuoco o penzola in bilico su un precipizio. La sicurezza è come quel suo famoso fratellino, il securitarismo, che ti muore contento e incarcerato mentre peraltro pure tu ti muori da solo credendo d'essere finalmente al sicuro.

Sulla psicologia del Lubitz, di quel ragazzo tranquillo col sogno di volare, si potranno naturalmente fare tutte le ipotesi possibili. Si potrà dire, e si dirà, tutto e il contrario di tutto; non è certo il primo ragazzo tanto discreto e calmo che combina i peggiori disastri, e non sarà l'ultimo; del resto, anche la sua planata sulle montagne sembra essere avvenuta nella massima calma e tranquillità, mentre il comandante se ne stava là fuori a non farsi aprire e i passeggeri cominciavano a urlare. Ma sarà bene parlare anche di una certa porta arcisicura, di quella porta talmente antirerrorismo da non riuscire a farsi aprire neppure dal comandante. Di tutta questa gran sicurezza che chiude tutto dall'interno, senza nessuna possibilità di dare accesso. Di dispositivi che escludono anche i sistemi di apertura di emergenza. Di tutto ciò che, insomma, in nome della sicurezza ha fatto sì che quel cazzo di porta, chiusa dal tranquillo copilota tedesco Lubitz, non si aprisse più; e, se tanto mi dà tanto, i disgraziati passeggeri dell'Airbus devono la loro morte più a tutto questo che ai neuroni del giovanotto di Montabaur (Renania). Devono la loro morte al fatto che la prima domanda che è stata posta a proposito del copilota, sia stata relativa alla sua religione e alla sua etnia. Devono la loro morte, in ultima analisi, pure loro al terrorismo. Al terrorismo della sicurezza ad ogni costo. Al terrorismo delle impenetrabili porte chiuse. Al terrorismo impalpabile dell'idiozia securitaristica, dalla quale dovremmo guardarci molto di più che dall'ISIS.

mercoledì 18 marzo 2015

Je ne suis personne



Poiché sono già passate diverse ore dai fatti di Tunisi è ancora non si è visto nessun cartello o tag "JE SUIS", né in francese e né in alcuna altra lingua, il sottoscritto provvede a fornire quantomeno un'utile base per chi volesse, putacaso, identificarsi con una ventina di disgraziati tra crocieristi della Costa e tunisini. Ma, poiché dubito che l'assalto al museo del Bardo susciterà nel mondo ondate di identificazione, sarà meglio dire le cose come stanno, e definitivamente: non "siamo" proprio niente e nessuno.

Non c'è la "libertà di espressione", ma dei banali turisti dentro un museo. Non c'è nessun insulto a profeti vari, sentimenti religiosi e dogmi rivelati, ma un normalissimo parcheggio nel quale erano entrati dei pullman. Non ci sono famosi vignettisti mezzi anarchici o chissà cosa, ma persone qualsiasi. In ultimo, non c'è neanche Parigi ville lumière, ma Tunisi. E, allora, non c'è neppure un "je suis"; nessun assembramento nelle città, nessuna spontanea manifestazione di solidarietà, nessuna fiaccolata silenziosa. Mi piacerebbe andare ora, per esempio, davanti al consolato tunisino in piazza san Marco, a Firenze (famoso per esporre, da una finestra, un bandierone di metri quadri); l'unico assembramento che troverei sarebbe quello consueto, vale a dire quello di chi aspetta gli autobus alla fermata.

Così, questo non essere nessuno riporta la cosa alla sua essenza. La riporta, ad esempio, al sangue già ampiamente dimenticato di Chokri Belaïd e Mohammed Brahmi. La riporta ai terrorismi innescati perfettamente dai riassetti degli ordini mondiali, che hanno un necessario bisogno di nemici mostruosi. La riporta all'odio procedente da altro odio e generatore di ulteriore odio. La riporta ad una sostanziale indifferenza, perché l'emozione, e lo si vede chiaramente in queste ore, ha bisogno di simboli qualificati. 

Un massacro di persone qualsiasi, di perfetti sconosciuti, non fa presa. Se, come è stato paventato, il museo del Bardo è stato una sorta di ripiego, un "piano B" al posto del Parlamento tunisino, la cosa è ancor più evidente; si pensa al computo dei connazionali rimasti vittime nell'attentato, ma il coinvolgimento reale è a livelli bassi. Si fanno le battute sull'ormai acclarata scalogna portata dalla Costa Crociere. Non ho sottomano dati chilometrici precisi, e in più c'è di mezzo il mare; ma Tunisi dovrebbe essere più o meno alla stessa distanza di Parigi. Meta di crociere di studenti molisani e impiegati comunali torinesi. 

Come sempre, gli unici che si sentiranno vicinissimi ad avvenimenti come quelli di Tunisi, saranno i naturali alleati degli "Stati Islamici" e di tutti i periodici bluff sanguinari messi in atto dal capitalismo. Nazifascisti europei, i Salvini, le Le Pen, gli escrementi del degrado e della sicurezza. I creatori di paura a comando hanno bisogno di chi la paura la esercita, e il capitalismo alleva bene i suoi cuccioli, dall'Ucraina alla Mesopotamia, dal Maghreb al Nordeuropa. Nello stesso giorno, un diciotto marzo qualsiasi, fa trionfare Adolf Nethanyahu (uno che, un paio di mesi fa, era pure lui "Charlie" a Parigi), reprime spietatatamente chi manifestava in occasione dell'apertura della nuova sede della BCE a Francoforte e organizza sapientemente il massacro di Tunisi affidandolo alla sua filiale di nazisti "islamici". Sarà stata colta la coincidenza?

Quindi, non passa giorno che non ci ribadisca il nostro essere nessuno. È questa l'unica identificazione possibile, l'unica reale; a meno di un'altamente improbabile ribellione globale, che avrebbe bisogno come prima cosa il sentirsi vicino ad ogni altro nessuno come noi, e non soltanto ai famosi vignettisti francesi. Ai giovani tunisini che crepano di disoccupazione come i giovani calabresi. Agli studenti messicani e agli scolari pakistani, gettati nel dimenticatoio dopo tre ore. Alle banlieues francesi e ai rom disprezzati. Alle ragazze di Kobanê e ai rinchiusi di Gaza. A tutti i nadie del mondo, tra i quali ci siamo pure noi. Persino quando facciamo una crociera e visitiamo un museo.

Essere nessuno, come un lontanissimo diciotto marzo lo erano anche due ragazzi milanesi ammazzati come cani mentre camminavano assieme per una strada.

Essere nessuno, sentirsi nessuno e ricominciare a dire: Noi saremo tutto. Allora, forse, crolleranno i signori della morte, i loro dèi, i loro ordini, le loro banche centrali e il loro niente.

martedì 17 marzo 2015

Maurice Lupi e suo figlio Luke



Traduzione di un articolo pubblicato oggi dalla Gazzetta di Pitcairn (Pitcairn Gazette), importante quotidiano dell'isoletta oceanica abitata dai discendenti degli Ammutitati del Bounty.  L'articolo, intitolato Maurice Lupi and his Son Luke, è corredato da alcune note in cui il redattore chiarisce alcuni punti ai lettori; l'autore si firma con le sole iniziali (curiosamente, "R.V.")

La foto ritrae, in una sua tipica espressione densa di significati, un dato ministro della remota Repubblica Italiana. Secondo le biografie ufficiali, tale personaggio, Maurice Lupi, nato a Mylanow (Lombardy) il 3 ottobre 1959, avrebbe due figli chiamati, rispettivamente Luke e Andrew [*]; nella foto, come si può notare, tale dato ministro della Repubblica Italiana ostenta un vistoso orologio da polso.

Questo personaggio, dicevamo, farebbe il ministro. Delle infrastrutture, addirittura. E lo si capisce: anche lui è, a rigore, un'infrastruttura nella particolare configurazione della lontana Repubblica Italiana. Piazzato lì per servire a qualcosa, che è caratteristica di ogni infrastruttura che si rispetti. Appartiene ad una formazione politica che si definisce "Nuovo Centrodestra", la quale partecipa al göverno presieduto dal segretario di un'altra formazione, detta Partito Democratico, un giovane proveniente dalla storica città di Florence che tanto ha dato alla nostra cultura anglosassone.

Va detto che grandi appuntamenti per il rilancio dell'Italia, colpita da una grave crisi al pari di altri paesi del Lago Mediterraneo, attendono il göverno di cui fa parte anche il suddetto ministro; tra di essi, l'Espò, grossa rassegna gastronomica che si aprirà proprio a Mylanow il 1° maggio, e la realizzazione del TAV  Torynow-Lyon [**], un velocissimo treno [***] che permetterà di risparmiare ben un quarto d'ora di percorrenza a prezzi esorbitanti -naturalmente con il lievissimo effetto di una valle (attraversata dal percorso; la cosiddetta Suse Valley) in corso di devastazione e, a tale scopo, attualmente nota per essere, in proporzione alla sua estensione, l'area più militarizzata del mondo.

Il ministro che si vede nella foto, orologione da polso compreso, è -naturalmente- uno strenuo faütore del TAV, assieme a tutto il suo göverno, ad un importante giornale nonché centro di potere (detto The Republic), a tutta una serie di potentati economici e ad alcuni esponenti della magistratura composta prevalentemente da celebri eroi antimafia che, in questo caso, si sono prestati assai volentieri a spalleggiare una tale collezione di mafie, da suscitare persino le invidie della ben nota e storica mafia dell'isola di Sicily.

Poiché (come mi dicono sia piuttosto noto in quelle distanti terre) attorno all'opposizione contro la realizzazione del TAV e di altre infrastrutture inutilmente consimilari (o consimilarmente inutili), si è sviluppato un movimento dapprima in ambito locale, e poi estesosi a tutto il Paese con una certa vastità, si è rivelato necessario cercare di reprimerlo con inusitata durezza. Troppi e golosissimi interessi girano attorno a queste opere, e non soltanto a livello nazionale.  

Solo che tale repressione non ha affatto fermato il movimento di opposizione di cui si parlava sopra. Tutt'altro. E, allora, ecco tutta una serie di azioni, di pestaggi, di arresti  e di maxiprocessi l'ultimo dei quali, svoltosi proprio a Torynow, ha portato a condanne in diversi casi esemplari; tipo quattro anni e rotti di galera per aver danneggiato un compressore sistemato in un'area espropriata totalmente al territorio italiano. Tra parentesi, l'unico caso al mondo in cui uno Stato ha ritenuto opportuno invadere militarmente una porzione del proprio territorio per sistemarvi non il classico e banale campo di concentramento, bensì un cantiere. Sarebbe, fatte le debite differenze, come se il generale Pinochet, nel 1973, avesse preso l'isola Dawson non per rinchiudervi gli oppositori dopo il colpo di stato, ma per scavarvi un tunnel ferroviario per il TAV Tierra del Fuego-Santiago.

Date le perduranti azioni del movimento in questione, tipo gli assalti a detto cantiere con micidiali armi da guerra (pietroni di calibro 7,65, sassi parabellum, ciottoli calibro 22, terribili copertoni bruciati eccetera), il ministro di cui sopra, ivi compreso il suo orologio, ha ripetutamente tuonato con fermezza; mentre le forze militari e di polizia impegnate nella strenua difesa del cantiere, ed armate alla bell'e meglio con tute antisommossa [****] , fucili d'assalto, scudi in protoberillio-cromovanadio e manganelli in carborundum, provvedevano a riaffermare la democracy minacciata [*****], Maurice Lupi qualificava di criminali i manifestanti, affermando che tali delinquenti non avranno spazio. "Basta con la retorica del popolo NO-TAV buono!", proseguiva il ministro, consegnando ordini precisi alla DIGOS (la polizia politica della Repubblica Italiana) e ai due procuratori ingaggiati, Andrew Padalino e Anthony Rinawdo. "Siamo di fronte a esempi criminali di persone, alcune delle quali vengono anche dall'estero, che vogliono utilizzare la scusa di un'opera per attaccare lo Stato", proseguiva Maurice Lupi; "Nonostante questi criminali e delinquenti che pensano di utilizzare il cantiere di una grande opera per pensare di sovvertire lo Stato, sulla Torino-Lione siamo arrivati a 1,1 chilometri di galleria scavata."


Il ministro Maurice Lupi (che qui vediamo in un'altra immagine, tratta da una televisione italiana, vestito da operajo all'interno degli 1,1 chilometri di galleria scavata e con un'altra espressione che ne tradisce l'emozione), è però incappato in questi giorni in alcuni leggeri problemi che ne stanno inficiando un po' la risoluta azione per il Progresso, la Ripresa e il Rilancio.

Secondo quanto riportato da The Republic, captata anche a Pitcairn da alcuni radioamatori, alcuni altri magistrati della Repubblica Italiana, in questo caso non particolarmente amici, stanno provocando un autentico putiferio in quel lontanissimo e bizzarro paese, mettendo alla luce un'autentica associazione a delinquere che ha gestito tutte le grandi opere pubbliche, TAV compreso.

Dagli esponenti del movimento di opposizione viene dichiarato che si tratta del segreto di Pulcinella (Punchinella's Secret), in quanto sono circa vent'anni che lo vanno dicendo a chiara voce; si tratta di appalti per una cifra di 25 miliardi di euro [******]. In particolare, il ministro Maurice Lupi, colui che qualificava di criminali e delinquenti i NO-TAV "che non avranno spazio", si starebbe rivelando nient'altro che un burattino, un ventriloquo totalmente manovrato da consorterie affaristiche guidate da tale Hercules Incalza, un supermanager assai potente che, attualmente, è stato consegnato alle patrie galere. Un signore "così potente da scrivere il programma del Ncd, da chiedere e ottenere la protezione di Alfano quando l'aria si fa greve e da mandargli un suo uomo, Francis Cavallo, per cancellare un'interdittiva antimafia. Padrone a tal punto del Grande Gioco da imporre a Lupi la scelta dei suoi due sottosegretari, gli ex socialisti Richard Nencini e Humbert Del Basso De Caro", scrive ancora The Republic.

E così, questo onest'uomo che qualificava di delinquenti e criminali chi si opponeva alla devastazione della Suse Valley, sarebbe lui un criminale e un delinquente di tre cotte; caso peraltro assai frequente nella remota Repubblica mediterranea, dove la criminalità istituzionale ha un'antichissima tradizione; secondo quanto risulta dalle intercettazioni telefoniche disposte dalla magistratura di Florence (Tuscany), titolare dell'inchiesta, Maurice Lupi avrebbe addirittura affermato di far cadere il göverno

Maurice Lupi sarebbe stato anche ospite di cene tenute, nella sua villa di Florence, da un altro funzionario indagato e arrestato, ed avrebbe partecipato anche alle nozze della figlia di quest'ultimo in un'idilliaca cornice di ballerine vestite da farfalle. A proposito di rapporti familiari, che nella lontana Repubblica Italiana sono assai rilevanti, il funzionario in questione (tale Stephen Perotti) si prende cura anche del giovane Luke Lupi, figlio di Maurice e fresco di laurea in ingegneria. Il giovane Luke viene immediatamente assunto, ricevendo anche il regalino di un prezïoso orologio Rolex dal valore di 10.350 euro. Luke Lupi, secondo le istruzioni, dovrà percepire "2000 euro mensili più IVA" e viene rivestito di tutto punto, perché l'abito è fondamentale: per l'abbigliamento riceve altri ottomila euro.

Ed è così, cari lettori, che alcuni esponenti del movimento NO-TAV, rozzi montanari, giovinastri malvestiti di centri sociali, anarchici armati di pericolosissimi sassi, criminali distruttori di compressori, tagliatori di recinzioni e via discorrendo, giacciono ancora in carcere oppure vengono prontamente condannati a pene pesantissime, mentre Maurice Lupi fa ancora il ministro (sebbene ne siano state immediatamente chieste le dimissioni). Ed è ugualmente così che la remotissima Repubblica Italiana si conferma un Paese assolutamente degno della massima attenzione anche qui, nella nostra piccola e sperduta isola australe.

Naturalmente, a Pitcairn, Maurice Lupi sarebbe stato immediatamente condannato alla fustigazione, quella che i nostri antenati del Bounty subivano ripetutamente da parte del tremendo capitano Bligh prima di ammutinarsi ed abbandonarlo tra i flutti; mentre il giovane Luke sarebbe stato opportunamente rieducato mandandolo a coltivare sanissime rape servendosi esclusivamente delle nude mani. Ma è interessante e istruttivo conoscere gli usi e i costumi delle terre più lontane.

NOTE

[*] Nella lingua locale il nome suonerebbe Maurizio (pronuncia: Mow-ree-tsiow). Ai figli, invece, ha dato dei nomi in buona lingua inglese, Liùc e Èndriu.

[**] Torynow è la capitale del Piedmont, stato dell'Italia settentrionale; è nota per la produzione di ottimo cioccolato e per un'antica officina automobilistica recentemente trasferita in Olanda. Lyon è un'importante città della France, famosa per la sua tradizione culinaria.

[***] Si tratta di un convoglio di vagoni ed altri carriaggi atto a trasportare persone e merci servendosi di interminabili rotaie parallele. Esempi se ne possono vedere anche in Australia e Nuova Zelanda.

[****] Dette anche Tute della Solidarietà, in quanto atte ad essere perforate dai terribili litòboli dei  manifestanti provocando gravissime sbucciature agli agenti -tutte medicate con provvidenziali cerotti di rianimazione che innescano denunce e, soprattutto, ondate di solidarietà alle forze dell'ordine vilmente attaccate per i classici 1200 euro al mese. L'euro (pronuncia: iùrow) è la valuta locale, utilizzata assieme allo spread. 

[*****] Particolarmente noto il gravissimo episodio, accaduto qualche tempo fa e che ha avuto anche echi internazionali, dell'agente di Polizia locale (i Carabineers) fatto oggetto di insulti da un manifestante NO-TAV al grido di Pecorella. Non si capisce però perché "pecorella" dovrebbe essere un insulto; nella nostra Pitcairn, la cui economia si basa quasi interamente sull'allevamento di ovini, sarebbe considerato un graditissimo complimento. L'autore del gesto è stato comunque severamente punito.

[******] Equivalenti a circa 9000 conchiglie Proctostomus di Pitcairn.

domenica 15 marzo 2015

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Sono solito dire di avere un abbonamento con l'assurdo. Tutta la mia vita è stata una sequela di avvenimenti più o meno assurdi; alcuni banali, alcuni tragici, alcuni divertenti, alcuni sconcertanti. Oramai ci ho fatto talmente il callo da non curarmene quasi più; si allargano le braccia, e si tira avanti.

Circa venti minuti fa, a un quarto alle una, me ne stavo tornando a casa a piedi dalla fermata Batoni della tranvìa. Ho già raccontato delle mie usuali camminate notturne per tornare a casa, passando per via del Palazzo dei Diavoli; ma stanotte ho deciso di fare la parallela, via Torcicoda. Ad un certo punto si deve girare per una strada che è semideserta di giorno, e figurarsi quindi di notte: via Antonio Ciseri.

Se qualcuno, per caso, legge l'altro mio blog dedicato alle vecchie automobili che si vedono in giro per Firenze, il Treggia's Blog, si ricorderà forse di questa strada. E' una di quelle che, su quel blog, chiamo treggiaje: non si sa per quale motivo, vi si trovano spesso parcheggiate vecchissime automobili che, invariabilmente, mi metto a fotografare per una delle mie bizzarre passioni.

Ero uscito prima delle 23 da un posto parecchio lontano da casa mia, per andare a prendere l'autobus delle 22,55. Il quale ha saltato la corsa; prossimo passaggio, alle 23.34. Trentanove minuti a una fermata, steso a sedere sul marciapiede. E' arrivato l'autobus, un'altra trentina di minuti di percorso dato che era pure deviato per dei lavori in una strada del centro storico. Presa la tranvìà a mezzanotte e quindici, pigliando quasi a ceffoni un bimbominkia di sì e no quattordici anni, che ostruiva l'entrata con tanto di regolare smartphone di merda e pettinatura col ciuffettino alla elettroencefalogramma piatto. Accanto a costui, un altro pischellino a cui una bimbetta di pari età stava palesemente strusciandosi; ma egli se ne fregava del tutto, preferendo lobotomizzarsi sul telefonino. Tanti bei piccoli robot.

Sceso a Batoni. Cominciata la camminata verso casa: sono circa due chilometri e mezzo a piedi, che si faccia qualsiasi percorso. Con normali e piccole pause, e con la garanzia che non sempre si ha voglia e capacità di far poesia. Tutto questo per trovarmi all'appuntamento che mi aspettava.

In via Ciseri, mentre camminavo tranquillo e in silenzio, con le mani in tasca del mio giubbottaccio sdrucito, circa alle ore 0,45 ho ricevuto un'ovazione; nel senso che sono stato centrato in pieno da un uovo di gallina.

Vale a dire che qualcuno, da uno stabile di fronte, ha atteso quell'ora per decidere -per motivi altamente insondabili- di tirare un uovo dalla finestra a un quarto alle una, in una strada deserta; e esattamente mentre stavo passando io.

Mi sono ritrovato lì, col giubbotto sdrucito sporco di albume e di tuorlo, e con il resto dell'uovo spiaccicato un po' per terra e un po' sul bauletto di un motorino. Dietro di me, la persona che mi stava accompagnando. Poteva toccare a lei, è toccato a me. Naturalmente.

Poiché non stavo dando in schiamazzi notturni, ma anzi camminavo in perfetto silenzio, considero inattendibile che il lancio dell'uovo fosse diretto specificamente a me. Né è probabile che una gallina stesse volandomi sul capo (certo, se si crede alle storielle delle varie religioni si potrebbe credere anche a una gallina che vola, ma non è il mio caso). Dai resti , si evinceva che era un normalissimo uovo del supermercato; indi per cui, qualcuno aveva stabilito di doverlo lanciare in via Ciseri.

Che sia stato per una lite in famiglia, nel qual caso questo gesto di rabbia può magari averne risparmiati di ben peggiori; che sia stata una forma di solitaria protesta per una frittata non particolarmente appetitosa servita a cena; che sia stato per aver trovato un uovo marcio nel frigo ed aver così manifestato il proprio disappunto; che sia stato per un qualche cazzaccio di altro motivo che non mi sarà mai dato sapere. Il fatto è che quell'uovo se l'è beccato addosso il sottoscritto, con un lancio precisissimo in una strada buia.

Cioè, provateci voi a mirare -anche di giorno- un passante con un uovo. Manco foste campioni olimpionici di tiro. Beh, eccomi qua. Ho allargato le braccia e ho proseguito. Nemmeno agitandomi troppo. Un normalissimo "Ma che cavolo è..?!?", niente di più.

Ricevuta l'ovazione, certo, mi è venuto qualche pensiero.

E se invece di lanciare un uovo, il tipo o la tipa che lo ha lanciato avesse deciso di imbracciare un AK47?  O di esercitarsi nel tiro al passante con quell'Opinel nuovo nuovo regalatogli dalla zia? O di festeggiare l'arrivo della primavera con un raudo fischione stile bomba carta? Chissà. E così devo pure ringraziare che fosse solo un uovo vagante, e non una pallottola.

E c'ho li testimòni.

Buonanotte.

domenica 8 marzo 2015

Raso al suolo L'uomo della pioggia di Folon. Principali differenze e principali identità nella distruzione delle opere d'arte.



Quello che vede è ciò che resta di un'opera d'arte, L'uomo della pioggia di Jean-Michel Folon. Fino all'alba di stamani, 8 marzo 2015, si trovava in uno spazio apposito, una rotonda stradale a Firenze tra due vialoni dedicati a un generale ammazzato dalla mafia e a uno statista ammazzato dalle Brigate Rosse, di fronte al vecchio Teatro Tenda ora divenuto una hall sponsorizzata e ad una vecchia strada rivierasca cui, qualche anno fa, hanno dato il nome di un famoso cantautore genovese.

Era una fontana, con al centro la statua di un uomo con l'ombrello, intitolata Pluie. La fontana buttava acqua che ricadeva sulla statua, quella dell'uomo che si riparava con l'ombrello. Il suo autore veniva, infatti, da un paese piovoso e piatto, il Belgio, il Plat Pays di Jacques Brel. Sembrava avere un legame speciale con la città di Firenze: L'uomo della pioggia era stato un suo regalo, in occasione del Social Forum mondiale svoltosi nel novembre del 2002, quello immediatamente successivo a Genova, quello degli anatemi della celebre terrorista internazionale Oriana Fallaci, quello di José Bové che cucinava in piazza Santa Croce, quello cui non potei prendere parte perché, per la classica ironia del destino, in quel periodo abitavo proprio nel Plat Pays, a meno di cento chilometri da Uccle dove Jean-Michel Folon era nato.

Folon è morto il 20 ottobre 2005. Pochi mesi prima di morire, proprio a Firenze si era svolta la sua più grande mostra, intitolata Folon Firenze. Nel 2011, parte delle opere esposte sono state donate dalla moglie alla città di Firenze e collocate nel Giardino delle Rose, sotto il piazzale Michelangiolo. Oggi Firenze lo ripaga in questo modo; forse, chissà, l'avrebbe presa con ironia; non è dato poterlo dire. La città del suo legame speciale e della sua grande mostra si è occupata anche di polverizzare una sua opera.

Jean Michel Folon: L'uomo della pioggia (The Rainman)
Proprio in questi giorni, si parla parecchio di opere d'arte distrutte. Si potrebbero quindi stabilire delle differenze e delle identità sui modi di distruggerle.

Da una parte il più tristo oscurantismo "religioso", o un qualche suo simulacro di sicuro effetto mediatico, che rade al suolo antichissime città come Nimrud e Hatra e altre testimonianze di civiltà passate che non si uniformano alle "interpretazioni" di alcune verità rivelate. Le quali verità rivelate, va naturalmente detto, hanno prodotto in ogni tempo fior d'opere d'arte, ma sempre con una certa tendenza a voler eliminare quelle di altre Rivelazioni o Soprannaturalità, passate di moda oppure contrapposte. In fin dei conti, gli attuali distruttori mesopotamici non fanno altro che rinverdire una tradizione secolare: l'annichilimento di simboli. I quali simboli, però, agli occhi di molti lo diventano solo al momento in cui se ne opera la distruzione; ad esempio, sono arciconvinto che il 99% di coloro che, oggi, si indignano per l'ennesimo crimine dei tagliagole del "Califfato", ignoravano fino all'altro ieri la semplice esistenza di Nimrud e di Hatra. Così come di quella data e antichissima moschea di Mossul, o dei Buddha di Bamyan in Afghanistan.

Un jihadista prende a mazzate Nimrud (Mesopotamia).
Dall'altra, un'opera d'arte moderna come L'uomo della pioggia di Jean-Michel Folon viene eliminata nel seguente modo, all'alba di una qualsiasi domenica: sistemata nel mezzo di un incrocio, alla periferia sud di Firenze, viene centrata in pieno da una Volkswagen con a bordo due o tre ragazzotti, appena usciti dalla vicina discoteca Otel. Si ignorano i motivi per cui il guidatore debba essere uscito dal parcheggio della discoteca a una velocità tale da fargli perdere il controllo della macchina e schiantarsi sulla rotonda occupata dalla fontana di Folon; ma avendo conosciuto tale locale, e più volte, quando svolgevo attività di soccorso sul territorio, ho qualche ipotesi che -naturalmente- tengo per me. Questo ferma restando la generale e incommensurabile idiozia dei giovanottini e delle giovanottine che frequentano quel tipo di mentecattificio ad elevato costo, e che fa a volte rimpiangere che, al suo posto, non sorga un severo monastero Trappista.

Firenze (Italia). I resti della fontana dell'Uomo della Pioggia, appena distrutta da alcuni Discotechisti dell'ISIS (Imbecilli Sesquipedali In Servizio).
Fin qui le principali differenze nei modi di distruggere le opere d'arte. In Mesopotamia opera il più bieco oscurantismo religioso; in Toscana operano invece lo sbàllo del sabato sera e le macchinine superveloci in mano a pischellotti caratterizzati dalla più assoluta piattezza dell'elettroencefalogramma. Paese che vai, dementi che trovi.

Venendo alle identità, direi che in entrambi i casi si ha a che fare con le tante forme assunte dall'odio.

Odiano la storia e la bellezza i distruttori di Nimrud e di Hatra, così come la odiano i ragazzotti che escono dal parcheggio di una discoteca a centotrenta all'ora. Nel nome dello stesso odio, e della stessa idiozia, non si fermano davanti a niente. Coi loro bulldozer e con le loro macchinine alla moda. Sia che non bevano alcoolici perché glielo proibisce un profeta, sia che siano talmente gonfi di alcool da non vedere nemmeno una statua di tre metri davanti agli occhi.

Davanti ci può essere ogni cosa: città del XIII secolo avanti Cristo, statue di artisti belgi, cartelli stradali, persone. Ci fosse stata Nimrud nella rotonda fiorentina, o l'Uomo della Pioggia di Folon in Mesopotamia, sarebbe stato esattamente lo stesso. Il Califfato nient'altro è, in fondo, che una sanguinosa discoteca alla moda che attrae ragazzotti e ragazzotte, allo stesso modo in cui la discoteca alla moda attrae ragazzotti e ragazzotte che vanno a ammazzare (e si vanno a ammazzare) a migliaia, con cifre da guerra. E, naturalmente, a distruggere opere d'arte.

sabato 7 marzo 2015

A sud di Roma



Non molti giorni fa, quando lo "Stato 'Slàmico" ha fatto sentire la sua minacciosa voce nei confronti del nostropaése, tuonando di essere oramai "a sud di Roma", si sono scatenate l'ironia e le battute delle migliaia e migliaia di sagome che popolano er màggico mondo de Tuìtter (#cip, #cip).

Tra le battute più gettonate, gli auguri fatti ai jihadisti -una volta messo piede sul nostro sacro suolo Pàtrio- per gli ingorghi quotidiani sul Grande Raccordo Anulare e, ancor prima, per la percorrenza della A3, Salerno-Reggio Calabria.

Senz'altro nella strènua difesa della Nazione®, dei Valori Europèi® e della Libertà di Espressione® dev'essere quindi interpretato il crollo del viadotto di Laino Borgo, sito su detta autostrada, il quale ha praticamente tagliato fuori la Calabria e la Sicilia dal resto del mondo. Naturalmente, attendendo le orde del Califfato, si è pensato bene di far crepare l'ennesimo operaio, precipitato dal viadotto crollato.

Tale strategico crollo ci mette definitivamente al sicuro; l'ISIS si prenda pure la Sicilia e un pezzo di Calabria, ma oltre Laino Borgo non andrà. Scateni pure la sua guerra, anche se per fare i morti che, ogni anno, fanno i cantieri, ci metterà probabilmente un po' di tempo. Solo che la guerra dei "Jihad John" di buona famiglia londinese (io l'ho sempre detto di guardarsi bene dalle buone famiglie...) riempie le cronache e gli incubi del mondo intero, mentre la guerra dei cantieri non sembra riscuotere lo stesso successo.

Ed è chiaro: in questa guerra, al posto dei tagliagole ci sono gli appalti truccati. Al posto dei Peshmerga ci sono semisconosciute imprese subappaltatrici. Al posto dell' Alleanza Anticaliffato c'è una qualche mafia, magari popolata pure di "paladini della legalità". Al posto di Kobanê c'è Laino Borgo. E al posto dei Copti decapitati sulla spiaggia ci sono ignoti operai, come Adrian Miholca, che crollano dai viadotti per un migliaio d'euro al mese (se va bene). Il confronto non può essere retto. Anonymous può oscurare i siti jihadisti, mica un viadotto o un'impalcatura. "Je suis Charlie", mica "Je suis Adrian". Dei crimini dell'ISIS mica si occupa la procura di Castrovillari.

Però la procura di Castrovillari, volendo, ha messo in atto una misura decisiva per proteggere il Mondo Occidentale®: ha interamente messo sotto sequestro il tratto dell'A3 interessato dal crollo. Indi per cui, cari jihadisti, ora so' cazzacci vostri. Pigliate i vostri carrarmati e mettetevi in coda, in mezzo ai camion di verdura, sui percorsi alternativi. Uscite anche voi a Sibari e proseguite sulla 106 verso Taranto e poi sull'Adriatica, e vediamo se Allah vi da una mano. Oppure uscite anche voi a Falerna, proseguite sulle statali tirreniche e rientrate a Lagonegro; e vediamo se qualche blasfemia al Profeta non scappa pure a voi.

Così vuole il libero mercato. Vuole, ad esempio, che prima o poi la A3, autostrada lasciata andare alla malora (anzi, costruita a suo tempo già alla malora) in quanto proprietà statale e gestita dall'ANAS per essere mantenuta senza pedaggio, venga messa a pagamento. Senza pedaggio, può benissimo crollare tutta. Col pedaggio, però, gli autotrasportatori vanno in rovina. La stessa rovina la quale, però ancora, attende i produttori ortofrutticoli siciliani; secondo Salvatore Bella, presidente dell'associazione Aitras che rappresenta circa quindicimila trasportatori siciliani: "L'ottanta per cento del trasporto su gomma è dedicato all'ortofrutta. Un comparto che impone una regola semplice e secca: in ventidue ore la merce appena raccolta deve stare nei mercati del Centro e del Nord. Altrimenti la puoi buttare. Con gli eterni rallentamenti sulla A3 a stento ci riuscivamo prima, ora, con le deviazioni imposte dai percorsi alternativi ci vogliono circa trenta ora. E noi siamo fuori"

Succede questo a sud di Roma. Per non parlare di quel che succede a Roma. E a nord di Roma? Sicuri, cari i miei jihadisti, di volerci venire? Magari vi toccherebbe, che so io, ripianare tutti i debiti del Parma. O contentarvi di decapitare qualche leghista; sicuri che farebbe lo stesso effetto dei free-lance britannici o giapponesi? Portare sulla spiaggia di Viareggio una ventina di esponenti del Nuovo Centrodestra vestiti d'arancione, invece dei Copti che, poi, ne parla pure il Papa all'Angelus? Ma siete proprio sicuri di voler venire da queste parti? Fossi in voi, ci penserei due, tre, dieci, cento volte.

Der Himmel nach dem Windsturm







Firenze, sera del 5 marzo 2015.
Via dell'Argingrosso (Isolotto).

lunedì 2 marzo 2015

Il Diavolo esiste (e ci ha pure il Palazzo)



Un tempo, tutta la zona era in mano al Diavolo e al suo palazzo. Quando, nei primi anni '50, un sant'uomo di sìnnacu decise di costruirvi un quartiere popolare, -quello che sarebbe diventato l'Isolotto- i bandi di edificazione recitavano qualcosa come: Lotti di edilizia popolare aree Torcicoda e Palazzo dei Diavoli. Nel Palazzo dei Diavoli, naturalmente, si torcevano code a tutt'andare; e ancor oggi che l'Isolotto ha celebrato i suoi sessant'anni di vita, quelle antiche vie sono rimaste, col loro nome.

Quando, a notte oramai già consolidata, scendo da una delle ultime corse della Tranvìa per tornare a casa, Cristo non si ferma a Eboli; si ferma in piazza Batoni. Da lì non c'è più niente; l'ultima corsa del 9 è alle 22.05, e il viandante che giunga là a tarda ora, diretto verso le remote plaghe dell'Argingrosso, deve farsela a piedi, un passo dopo l'altro e con qualsiasi tempo. Piova o faccia caldo, nevichi o tiri vento, da piazza Batoni si entra nel regno di Satana; tant'è vero che il suo Palazzo, quello che dà il nome alla via e lo diede, olim, a tutta la zona, è subito là, proprio all'angolo con la piazza che quasi si riposa, in silenzio, dopo ogni sua giornata che la vede tra le più intasate, incasinate e puzzolenti di tutta la città.


Così m'è capitato, poche sere fa, oltre la mezzanotte. In una di quelle nottate di fine inverno, piene d'un vento un po' allegro e un po' carogna che dice, senz'ombra di essere contraddetto, che la primavera sta per arrivare, e d'una luna incorniciata da poche nuvole, le uniche nel cielo terso, a farle da squisite e perfette ancelle. In una notte del genere, anche se la strada viene allungata, è giocoforza incamminarsi per via del Palazzo dei Diavoli, penetrando in un solitario inferno di periferia, nei suoi rumori segreti e nel territorio dei liberi gatti. Con l'animo da scopritore, poiché non s'ha mai da entrare nel Regnum Tenebrarum senza cercavi qualche segno della fattiva, palpabile presenza del Maligno -oltre a quella che Egli manifesta nel Vento e nella Luna, ça va de soi.

M'incammino dunque, con l'eterno zaino in ispalla, tra il consueto odore del pane appena sfornato e quello, non definibile, della notte; ché ogni cosa non ha soltanto il suo aspetto e il suo suono, ha anche il suo profumo. Anche i miei passi odorano di qualcosa; passa il primo dei tanti gatti che si avvicendano quasi a farmi da scorta. Per una volta, decido di non accontentarmi di fare l'esploratore; tiro fuori la fotocamera, e m'improvviso reporter da un mondo che ognuno di noi avrebbe sotto casa, ma che si rifiuta di conoscere preferendo luoghi fintamente lontanissimi. 

Cogliere i segni di Satanasso, però, non è propriamente semplice. Occorre avere ciò che chiamo la Sindrome di Marcovaldo, dal famoso personaggio dei racconti di uno scrittore mezzo cubano e mezzo ligure. Bisogna saper porre attenzione ad ogni minimo particolare, a ogni foglia secca che incede a cavallo del vento, a ogni sassolino, a ogni granello di realtà della quale, in quel preciso momento, si è parte. Nell'epoca della Sovrana Disattenzione, qual è questa, si tratta di un esercizio che costa sempre più fatica e che si avverte inviso, sconsigliato, scoraggiato. Ma dà i suoi frutti, solo apparentemente insignificanti. Non tardano ad essere colti.


Cammina cammina, lentamente e senza preoccupazione alcuna d'arrivare rapidamente a casa, ci s'imbatte nel numero ottantotto di via del Palazzo dei Diavoli. Regolarmente segnato col suo numero civico, ma d'una natura che rivela l'appartenenza di quel mondo a una diversa configurazione. Come si noterà dalla foto, infatti, il numero civico è stato apposto sì, ma alla rovescia; e non dev'essere cosa di ieri, dato che la piastrella è di assai vetusto stile ed aspetto.

Il numero otto, come si sa, è identico al segno dell'infinito; siamo quindi in presenza di un messaggio inequivocabile, vale a dire quello di un infinito arrovesciato. O del mondo alla rovescia, se si vuole; e riecheggiano, prepotenti, i versi di una remota filastrocca.

Aller wunder sî geswigen,
das erde himel hât überstîgen,
daz sult îr vür ein wunder wîgen.
Erd ob und himel unter,
daz sult îr hân besunder,
vür aller wunder ein wunder.

Il sovvertimento dell'infinito; si provi a pensarci ogni qual volta si esca di casa, in perfetta solitudine. Un altro gatto sfila accanto, concentrato su chissà quale particella soltanto a lui nota; si aspetta il refolo di vento, ed eccolo che arriva mentre, da una finestra, si accende e si spegne una luce in un istante. Non c'è nessuna paura, nessuna inquietudine; si arriva, anzi, a pensare che l'unico, vero senso di pace lo si abbia in una quotidiana e vicinissima realtà, e soprattutto nella percezione esatta della sua diversità, della sua eccezionalità. Il mondo alla rovescia è qua fuori, basta saperlo cogliere senza sobbarcarsi inutili e vuoti viaggi. I viaggi non danno nessuna conoscenza e, casomai, è vero il contrario. E' la conoscenza che dà il viaggio.


Ma le vecchie case suburbane di via del Palazzo dei Diavoli riservano altri segni della presenza del suo Abitatore. Vi ha operato più d'una sovversione numerica, e l'alterazione dei numeri è indice di una piacevolmente diabolica assenza del continuum. Adoro gli accidenti nelle sequenze, nel predeterminato, nell'ordine consueto e costituito; quella che vedete sopra ne è la sua dimostrazione raccolta a poco più di un chilometro da casa mia.


Seguendo infatti la normale sequenza di due portoni appartenenti allo stesso blocco d'antichi immobili, lato dispari, al numero 203A dovrebbe seguire il numero 203B, o il numero 205; invece, guardate il numero recato dal portone esattamente accanto:


Che cosa dunque può essere se non un altro segno del Diavolo, nella via del suo Palazzo, questa incongruente e misteriosa sequenza la quale fa sì che al numero 203A segua il numero 181? Siamo quasi alla fine della strada, che termina al numero 207; al limite del Territorio che sto attraversando, dell'Inferno in una ventosa e luminosa notte al termine dell'inverno che si è trasformata in un Voyage au bout de la nuit. Mi viene a mente che, in questa città, non è l'unico caso del genere. Ad esempio, via Domenico Maria Manni, nel quartiere di Coverciano, inizia dal lato dispari con il numero 29. I numeri dall'1 al 27 non esistono. Al Salviatino, una recondita e elegante viuzza dal nome di via Pietro Betti parte col numero 8, seguito dal 95A e da una schiera di terratetto che vanno dal numero 91 al numero 53, interrompendosi all'improvviso per dar luogo ad una diversa via, dedicata al naturalista Paolo Mantegazza (quello dell'Heracleum Mantegazzianum, o Pànace di Mantegazza, una bellissima pianta dotata di un singolare veleno che si attiva soltanto se c'è il sole). Via Bolognese, sempre lato dispari, parte regolarmente col numero 1, seguito però immediatamente dal numero 5; il numero 3 non c'è. Mi sono sempre immaginato d'essere convocato, un giorno, in via Bolognese al numero 3; sarei stato certo d'andare incontro ad un bizzarro ed affascinante destino. Una Shunned House lovecraftiana senza nessun bisogno di andare fino a Providence.

Ma è tempo di rientrare nel Territorio normale. Al termine di via del Palazzo dei Diavoli, tale rientro non può essere segnato che da un simbolo antagonista, un tabernacolone ammadonnato piantato là, in mezzo a un incrocio, su di una via che ne è l'esatto proseguimento ma che ha un diverso nome, quello d'un pittore. Una via che percorro alla ricerca del giardinetto delle rose, un piccolo pergolato che, nella sua stagione, è un delirio di fioriture, di profumi, di bellezze. Da lì, però, si entra, con una breve deviazione attraverso quella che dev'essere la più breve via di questa città, di nuovo in Territorio Satanico. Via dei Sabatelli, un'altra strada antichissima e di vetuste case; quella da dove si può mettersi in comunicazione diretta col Maligno sfruttando la Teleselezione. Proprio così; all'ingresso di una casa identica a quelle di via del Palazzo dei Diavoli, troneggia infatti, indisturbato, un cartello rotondo che era comune parecchi decenni fa, quello con la sagoma di un telefono nero a disco combinatorio su sfondo giallo. Quando, con la creazione della SIP e dei prefissi automatici per le chiamate interurbane, si poté fare a meno di passare dal centralino; quando nacquero gli 055, gli 02, gli 06, gli 081; e quando si scendeva per andare al posto telefonico pubblico. Una diversa funzione sembra aver mantenuto quel cartello, in quella via di antiche case e di giardini.

Aspiro profondamente. Il tempo è stato sospeso. Mi accorgo d'aver camminato per più di un'ora, sono oltre le una; di non avere accettato il normale scorrimento. Vanno e vengono le nuvole, e mi si para davanti un'altro gatto, reclamando una carezza a suon di miao; poi se ne va. L'alternanza dei territori vuole che mi ritrovi in una via dedicata a Pio Fedi, scultore, ché nome più divertentemente cristiano non pòle esistere.  Mi sento di una leggerezza che non esito a definire soprannaturale; e decido, prima o poi, di scrivere questa cosa facendo estrema attenzione a che i suoi eventuali lettori non capiscano mai appieno se li stia coinvolgendo in una Bildungsreise di banlieue in compagnia del Signore dell'Ade, o se stia ammannendo loro una gigantesca presa per i fondelli. La risposta, come sempre, è 42. 

"E da dominatrice, nel silenzio acuto entrò la luce."