giovedì 31 luglio 2008

Vino



Siete pronti per una notizia sconvolgente? Eccola. Oggi, 31 luglio 2008, ho sempre 45 anni -anzi, per la precisione, mi ci sto avvicinando sempre di più. E non ho nemmeno una gran voglia di parlare dei tempi addietro, ché, tanto, tutti quanti sono già in ferie e immagino che abbiano di meglio da fare che leggere dei miei tempi, indietro o avanti che siano. Poi, devo dirlo, ho appena letto il testo di una canzone straordinaria su un altro blog, una canzone che parla di campane che suonano; e si dà il caso, ovviamente del tutto fortuito, che stamani sia stato risvegliato da una campana. C'è una chiesa qui vicino; ma non mi capita quasi mai di sentirne le campane anche se, presumo, suonano tutti i giorni. Si vede che anche per le campane, come per ogni cosa, esiste il momento giusto.

Così per il vino. Pane e vino non si buttano mai via. Ieri sera, alla pizzeria sopra casa, una pizzeria calabrese che considero straordinaria, mi hanno servito un carpaccio di polpo favoloso con le olive nere e una salsina tiepida, talmente buona che non sono stato neppure a chiedermi di che cosa fosse fatta. Però hanno sbagliato il vino. Avevo chiesto un bianco secco, e invece mi hanno portato del rosso messo per sbaglio in frigorifero (evidentemente non si vedeva bene nella bottiglia scura). Poiché me ne ero già versato un bicchiere, quando la cameriera se n'è accorta si è scusata e mi ha detto che mi avrebbe fatto portare il bianco che avevo ordinato; ho rifiutato. La bottiglia di rosso già incignata sarebbe finita nello scarico dell'acquaio, e una cosa del genere mi ripugna. Le ho detto che non importava, che avrei bevuto il rosso freddo di frigorifero. In barba ai dettami della gastronomia, lo so bene. Ma il vino non si butta. Quel rosso sarebbe venuto a perseguitarmi la notte.

Aveva ragione Piero Ciampi quando diceva che il vino è “bello”. Nella sua canzone, forse l'unica sua veramente famosa, dice proprio così: Quant'è bello il vino. Non “buono”: bello. Prima di finire dentro il suo bevitore, passa per i suoi occhi. Ci sono degli sguardi al liquido nella bottiglia, ai suoi colori, almeno quando lo si può vedere bene; quando cade nel bicchiere, poi, c'è una specie di agnizione reciproca. Anche il vino riconosce, in qualche modo, chi lo sta per bere. Se credete che stia delirando di prima mattina, oppure -visto l'argomento- che sia già briaco, vi prego di ricredervi: l'espressione del vino che si fa bere non l'ho certo inventata io.

Riconosce, il vino, un tipo lungo e grosso, a un tavolo da solo accanto a una coppia che parla di cose loro. Riconosce quella sua annosa consuetudine al tracanno, mai al centellinamento coscienzioso e a volte pretenzioso di chi dice di “saper bere”. Allora si predispone a farsi inghiottire d'un botto, a bicchierate piene, senza per questo rinunciare a farsi gustare. Così dicevano, a quel tipo al tavolo, quand'era ancora piccolo, otto o dieci anni; in mezzo alle proteste delle donne di casa, che non volevano, il padre serviva al ragazzino il suo bicchiere in un atto tremendamente maschile, che d'illogico ha solo il non rendersi conto di che cosa siano un padre e un figlio. Giù d'un botto, diceva il padre; e io lo buttavo giù, quel vino dell'Elba, rosso o bianco che fosse. Di quel rosso indelicato, pieno, enorme; e di quel bianco torbido, fortissimo, che a berne un dito a digiuno fa andare a batter la campagna per sentieri tortuosi e ispidi.

Riconosce quel suo gusto nel mangiarci una midolla di pane addosso, ché a questo modo te ne puoi bere a bottiglie intere senza eccessivi danni. Riconosce tutte le sue serate, belle e brutte, allegre e tristi. Riconosce e accompagna; e sa dire basta. E quando non lo sa dire, come un migliore amico non si tira indietro e non abbandona al proprio destino. Non si gira dall'altra parte, non fa finta di non vedere. Non lascia soli, infilato in una tasca d'un vecchio spigato per strade d'inverno. E allora ci si parla per davvero, con quel vino; gli si raccontano le proprie storie, le paure, le sconfitte. E gli si cantano canzoni vere o inventate in quel momento.

Arrivato un certo momento, sempre come un migliore amico, sa farsi da parte prima di diventare un carnefice, come a volte diventano gli amici più veri. Ci si ritrova allora a fare i conti con l'acqua e con l'aria, ed è un'aria che non mi riesce non immaginare salata, salmastra. Accade poi di ripassare per certe strade battute un tempo in compagnia di quel tuo amico, e di ripensare, e di ricordare; allora l'aria instilla risate lievi, e paragoni, e sicurissime incertezze.

Ma è il momento di tirar giù quel rosso sbagliato da una cameriera di fine luglio, senza ripensamenti, senza magagne. Coprirà magari il sapore di quel polpo così squisito, con la violenza d'una libecciata. Pazienza. Bisogna aver pazienza con gli amici. La pazienza paga sempre. Una notte, una certa notte, te la saprà ripagare.

martedì 29 luglio 2008

Acqua


Poiché ho 45 anni, continuo a non poter parlare di gran tempi addietro. O meglio, ne posso parlare per sentito dire, per racconti diretti o indiretti, per diecimila altri motivi; però non c'ero al di là di quella fine degli anni '60 e di quegli anni '70 in cui i ricordi sono miei per davvero. Si parla quindi dei primi anni '70, all'Isola d'Elba, e di quando arrivava il mese d'aprile. A volte, però, smetteva di piovere anche prima, gli ultimi di marzo, e non ricominciava un po' che a ottobre inoltrato, addirittura a novembre. S'era a Firenze, e dall'Elba arrivava un giorno una telefonata dalle cabine davanti al municipio, ché il telefono, in casa all'Elba, lo abbiamo avuto soltanto nel 1985.

Era sempre mia zia che avvertiva che l'acqua era andata via. Si sentivano strepiti, mòccoli, maledizioni e tutto il resto, e incominciava l'estate. All'Elba, negli anni '60 e '70, la situazione idrica era un disastro totale; come smetteva di piovere e si seccava la falda, dai rubinetti della piana non colava più nulla. Il sindaco razionava l'acqua, quel poco che c'era ancora doveva essere dato agli alberghi perché l'isola campava di turismo, e nelle case occorreva arrangiarsi. Soltanto la notte l'acqua tornava per un'ora o due, e c'erano i turni di veglia per riempire tinozze, bottiglie, conche, innaffiatoi, canistri, cristi, madonne e ogni altro recipiente che potesse contenere acqua.

Ora, se i miei moccolavano come carrettieri, io, essendo un ragazzino (e i ragazzini sono notoriamente tipi strani), ero contento. Per me quella telefonata, magari ancora a due mesi e rotti dalla fine della scuola, significava cominciare a sognare l'estate, il ritorno all'Elba, il portico, la spiaggia, le giornate che non finivano mai, i campi; accidenti all'inverno e alla sua acqua abbondante! E così, tirando avanti, la scuola finiva e mi facevano partire assieme a mia nonna.

Ora facciamo un gioco, assieme a tutti voi. Andate nel vostro bagno, o all'acquaio, o a qualsiasi rubinetto di casa vostra. Apritelo. Guardate come scorre, l'acqua. Bella, fresca, abbondante. Da bere con tranquillità, anzi con maggiore tranquillità dell'acqua minerale in bottiglia. L' “acqua del sindaco”, ora, è generalmente buona se non addirittura ottima. Fatto? Chiudete gli occhi, ora, e venite con me in un qualsiasi giorno del 1972, o '73, a Marina di Campo, Isola d'Elba.

L'acqua che per quell'ora o due di notte cadeva a piscio dal rubinetto non si poteva bere. Era salata e, spesso, fangosa. Guai a farci da mangiare: il caffé sapeva di non so cosa, la pasta sembrava condita col fenolo e a berne un bicchiere veniva la cacaiola. Serviva soltanto per lavarsi un po', mettendone pochissima nella vasca o nella tinozza, e per innaffiare un po' le piante e l'orto: e innaffiare voleva dire pianta pianta, non certamente “irrigare”. In riga bisognava starci noi, e dimolto.

Per fare da mangiare e per bere bisognava fare quanto segue. Alle cinque o alle sei di mattina, sempre a turno, montare sull'otto e cinquanta di mio padre o sull'Ape di mio zio, e andare su al Monte Perone o a Chiessi, dove c'erano le fonti che venivano dalla montagna; e entrambe le cose avevano certi piccoli inconvenienti. Per andare al Perone c'era allora una strada sterrata che non aveva nulla da invidiare alla “Tremola” che sale al San Gottardo (ora l'hanno asfaltata, ma rimane sempre una strada da affrontare con estremo rispetto). Arrivati in cima, alle sei e mezzo di mattina ci si trovava già la folla con furgoncini, macchine, qualcuno persino con la moto e le cinghie elastiche per tenere legati i bidoni; e bisognava avere pazienza. Si aspettava muniti di panini, di giornalini, di settimane enigmistiche; e quando toccava, si dovevano mettere i canistri sotto un pisciolino d'acqua, buona ma pur sempre un pisciolino. Ci si faceva tranquillamente mezzogiorno, stipando la macchina d'acqua in ogni centimetro quadrato; e bisognava andare pianissimo per non farla arrovesciare, ché ogni goccia era preziosa.

Per Chiessi la strada è comoda, anche se a pigliare male una curva si fa un volo di 150 metri diritti in mare e nell'eternità. Però lì c'erano le due matte. Due sorelle vecchie già allora, che difendevano la fontana con le unghie e coi denti. Non volevano che i “forestieri” venissero a rubare l'acqua ai chiessini, e guai a dire che si veniva da Campo perché coi campesi ce l'avevano in modo speciale. E erano, a volte, graffi, botte e cazzotti: quelle non scherzavano, prima ti riempivano di insulti e poi passavano ai graffi, alle spinte, alle seggiolate. Matte, certo; ma chissà. In quella loro follia bisognava immaginare tempi in cui quella fontana era l'unica cosa dalla quale, in un paese intero, si prendeva l'acqua. Bisognava pensare che, in estate, la fontana magari seccava pure lì. Bisognava figurarsele da ragazze, quando nemmeno c'era la strada, a passare giornate senza una goccia d'acqua. Loro facevano la guardia.

Allora, come vi butta il rubinetto di casa? Aspettate un attimo. In casa, quando arrivavano anche i miei e mio fratello, s'era una tribù. D'acqua se ne consumava tanta, e altrettanta ce ne voleva. Quella buona finiva alla svelta, e ogni giorno bisognava tornare su al Perone o a Chiessi; quella poco buona finiva alla svelta lo stesso. Fu così che, nell'estate del '73, mio padre e mia zia decisero che era l'ora di far scavare un pozzo. Almeno quell'acqua sarebbe servita per l'orto.

Arrivarono due energumeni da Portoferraio, padre e figlio. Il padre, un ometto risecchito e color bronzo, in canottiera bianca, che faceva anche da rabdomante; il figlio, una massa di muscoli da fare spavento e un bel sorriso che ce l'aveva sempre, particolarmente quando sollevava da solo un cerchio da pozzo in cemento armato, centoventi chili di roba, e se lo portava tranquillamente a giro per il campo. Il padre che, con aria compunta e in preda alle “vibrazioni”, con la bacchetta in mano, a girare per il campo finché il “frùido” (sic) non l'ebbe fermato; e lì incominciarono a scavare a forza di pala. E cazzo, l'acqua c'era per davvero. Quindici giorni a lavorare come bestie, con misure di sicurezza fenomenali (tipo i fili scoperti per il compressore, corrente trifase a 380 V che Bibbolo ci prese una scossa che avrebbe ammazzato un bove; ma non lui); e il pozzo fu fatto. Mio zio comprò un motorino elettrico che funziona ancora, e all'improvviso ci ritrovammo a non dover più andarci tutti i giorni, alle fonti, ma un giorno sì e un giorno no. Quando si dicono le conquiste.

Ma c'erano anche di quelle decine di giorni in cui si bruciava dal caldo, e che si sarebbe bevuta anche l'acquaccia salata degli smunti rubinetti. C'erano di quei giorni in cui il qui presente, a nove, dieci o undici anni, era costretto a andare a lavarsi in mare. Veniva una pelle di quelle che vi raccomando; poi, magari, si passava davanti all'albergo delle Tre Colonne, dove mia nonna lavorava come cuoca, e si guardavano i milanesi e i tedeschi a fare il bagno in piscina. "Sciàise", diceva mia madre, che da piccola, durante la guerra, aveva imparato qualche parola di tedesco; sarebbe stato "Scheiss". Ma noi s'era i servi, e loro i padroni. Alla Grechea, dove mia zia faceva giustappunto la serva in una casa d'ammiragli e di milanesi, l'acqua ce l'avevano; eppure era sì e no a un chilometro da casa nostra. Misteri.

Fino ai primi temporali dopo ferragosto. Nel frattempo bisognava osservare i riti e le regole: mai incominciare una bottiglia d'acqua fresca, in frigo, senza finirla. Incignarne un'altra senz'avere finito quella prima era reato di “bottiglia malimessa”. Mia nonna vegliava sull'osservanza di questa regola come un rottweiler. Di notte, severamente vietato buttare lo sciacquone quando ci s'alzava per andare a pisciare o a cacare; passava qualcuno con un orinale pieno d'acqua e eliminava la deiezione, come si dice ora. In bagno c'era spesso un puzzo da andare via di cervello, ma ci si faceva l'abitudine. Dimenticarsi aperto un rubinetto comportava ceffoni nel muso, ma una volta che se ne dimenticò mio padre gli feci una pernacchia da Guinness dei primati. Forse però riuscirete a capire perché ho cominciato a bere il vino a otto anni. Quello non mancava mai.

E così di anno in anno. Nel canale di Piombino viaggiavano le bettoline cariche d'acqua dal continente, che ve le immaginate delle navi cisterna cariche d'acqua tutte intere? L'acqua minerale? Con le bollicine, magari? Costava troppo. Ora facciamo un ultimo gioco: andate al frigorifero e apritevi una bella bottiglia di acqua “Vitasnella”, o di quell'altra povera di sodio, o di quell'altra ancora con Del Piero dentro, o di quell'altra più che ancora con le nanosfere o che minchia sono. E mica sono verginello, non crediate: ci ho due belle cataste di acqua minerale pure io, qui in casa. Ma di nuovo nessuna morale; quand'anche vi ripungesse vaghezza di rimettercela, ve la rifate da voi. Io mi rifermo qui.

lunedì 28 luglio 2008

Pane



Poiché ho 45 anni, non posso parlare di gran tempi addietro. O meglio, ne posso parlare per sentito dire, per racconti diretti o indiretti, per diecimila altri motivi; però non c'ero al di là di quella fine degli anni '60 e di quegli anni '70 in cui i ricordi sono miei per davvero. Si parla quindi dei primi anni '70, a Firenze, e di una scuola comunale per territorio, ma già abbondantemente in campagna; e una campagna ancora tale, coltivata, non fatta per le ville e le villette dei signori -che pure già c'erano, visto che si era alle pendici di Settignano, al Ponte a Mensola.

Mi capitò, molti anni dopo, di conoscere un documentario di un regista verso il quale ho sempre nutrito una passione smodata, Luis Buñuel. Nel 1932 il calandese dei tamburi di Nazarín girò Tierra sin pan, “Terra senza pane”, nella desolata regione delle Hurdes, in Castiglia. Una contrada talmente arretrata e in condizioni così primitive e miserevoli, che neppure si conosceva l'uso del pane. Nel 1932, in Spagna, alla vigilia della guerra civile. Pane. Quanto mi garba, il pane. Mi garba alla toscana, terra che almeno fu di pane, e di pane dappertutto. La zuppa di pane, il pandiramerino, il pane e olio. E il pane da solo. Nel 1970 o giù di lì, in una normale scuola elementare comunale fiorentina di campagna, dotata di cucine, cuciniere (dire “cuoche” non si poteva) e di poca roba mandata un po' dai servizi dell'Annona e un po' portata dai babbi contadini dei ragazzi, la merenda consisteva esattamente di questo. Pane solo. Pane e basta. Di quello fiorentino, senza sale, inconcepibile da Aosta fino a Capo Passero.

Dico la merenda, perché c'era il doposcuola. Finite le lezioni della mattina, si restava quasi tutti a mangiare; dei tavolacci sistemati in un corridoio al pianterreno, davanti alle classi. E si mangiava per davvero quel che c'era. Pasta condita quasi sempre con un sugo di pomodoro il cui colore variava dal giallo pallido all'arancione smunto. Quantità abissali di verdure che mi hanno lasciato come imperituro ricordo l'odio per i fagiolini lessi. Qualche volta una carnaccia filacciosa, forse fatta per il lesso ma che la Franca e la Claudia aggiustavano in salsa, tagliata a fette. Al sabato la festa: siccome s'era di meno, ci davano anche dei formaggini di dubbia provenienza e del succo di pera in barattoli di metallo, e che infatti aveva un deciso gusto metallico.

La merenda del mattino veniva da casa, e giù pane. C'erano ancora di quelle mamme che sbraitavano a pieni polmoni contro quelle maledette merendine tipo Brioss o Fiesta Snack, e che infilavano nelle cartelle sleppe di pane e marmellata o di pane e salame; ma quelle venivano fucilate durante la ricreazione delle undici. Dio madonna, che razza di fame che s'aveva. Ora, dunque, a me è rimasta. Non mi si noterà mai per la mia linea perfetta, ma se ci avete da spazzolare gli avanzi chiamatemi pure ché non fo storie. Vi ripulisco la tavola, e se non ci state attenti c'è il pure il caso che attenti alla verginità del vostro frigorifero. Stàtev' accuort'.

Finito il lautissimo pranzo, s'andava in giardino a giocare. I maschi a pallone e le femmine ai loro giochi, che a noi non ce ne fregava assolutamente un cazzo. C'era un giardino circondato d'alberi, ma col ripiano asfaltato; e giù “finali”. Ogni giorno una finale, i tornei con le eliminatorie non erano contemplati. Dopo avere corso per du' ore, i nostri stomachini erano di nuovo simili al pozzo di San Due Patrizi, perché un san Patrizio solo non renderebbe bene l'idea. E allora, al rientro in classe per fare i compiti sorvegliati dalla maestra del doposcuola, bisognava arrangiarsi. Passava il bidello, un giorno il Conti che stava lì accanto in via Madonna delle Grazie, un giorno Beppino coi suoi baffi. Con gran ceste di pane. Solo.

Pane, pane e pane. C'era l'assalto a quelle povere ceste, ché ancora oggi mi chiedo come facessero e non essere mangiate pure loro. Tempeste di bricioli, l'acquaccia dei rubinetti dei bagni che allora sembrava il monumento al cloro, e molliche, e ciomp, e mangia fette su fette, a strippapelle. E non vorrei che mi si prendesse per un bieco laudator temporis acti (beh, avrò mangiato pane e basta ma, a differenza di qualche presidente del consiglio, il latino non lo sbaglio): in quel pane non mi riesce di ricordarci “sapori antichi”, “bellezze rustiche”, “tempi più semplici e veri” ed altre stronzate del genere. Sapeva di pane sciocco, e come tale me ne ricordo. Ci avremmo tutti quanti infilato sopra un bel po' di companatico, ci avessero portato anche soltanto l'olio e il sale. Ma l'olio e il sale servivano per il pranzo (anzi, per la refezione, come si diceva allora; una parola, credo, oramai scomparsa dall'uso), e poi figurarsi come si sarebbe conciata un'orda di ragazzini e ragazzine assatanate -ché anche le femmine, coi loro giochi alle bandierine e a sonasega cos'altro ché tanto noi ci s'aveva da giocare a pallone, di corse ne facevano-. Quindi, pane. Con la pancia piena di pane s'affrontavano le lezioni da fare, tipo i problemini d'aritmetica in cui il solito babbo portava a Giacomino sei mele, due fette di torta, otto noci e cinque caramelle. Il problema consisteva, nelle nostre teste e particolarmente nella mia, come sottrarre a Giacomino tutto quel bendiddìo, e papparcelo, e andassero pure in culo lui e il su' babbo ché mentre si leggevano quelle cose altro non s'aveva che panaccio.

No, no, niente lodi ai tempi che furono. Anche perché non furono mica ai primi del '900, ai tempi dei bisnonni; trentacinqu'anni fa, o poco più. C'erano dei maestri e delle maestre giovani, che alla nostra età, sotto la guerra, ci parlavano di quando non c'era manco il pane. “Avercelo!”, ci dicevano; e noi ce lo avevamo. Non c'erano toccate né la guerra né le Hurdes; anche se, fin da bambini, conoscevamo il significato di parole come sfollato, tessera annonaria, oscuramento. S'era stati fortunati. C'era la mia, di maestra, la Pierina Marziali da Livorno, che era già anziana e che s'era vista una novantina di bombardamenti nella sua città. Fumava in classe come un torcione, e a noi non ci ha mai dato nessuna noia. Ma proprio nessuna. Anche perché ogni tanto, alla ricreazione, una nazionale fregata in casa ci scappava eccome. Poi pane, pane e pane. E nessuna morale; quand'anche vi pungesse vaghezza di mettercela, ve la fate da voi. Io mi fermo qui.

martedì 22 luglio 2008

Opporsi al destino?


Opporsi al destino non si può. Il fato -dicevano gli antichi, e gli antichi hanno sempre ragione (saranno mica stati un po' fascisti, a volte?)- aveva la prevalenza anche sul volere degli dèi. Così, è inutile stupirsi più di tanto se, oggi, ci ritroviamo per l'ennesima volta il personaggio nella foto come "ministro", e anche come menestrello a base di "Robin tax" (questa l'origine della parola: ministrellus, "piccolo somministratore" o roba del genere; e, come si sa, le ballate di Robin Hood erano affidate giusto ai menestrelli). Sarebbe sufficiente conoscere almeno un po' gli antichi documenti dei nostri padri, come le primitive attestazioni della lingua latina.

Tra di esse ce n'è una che sancisce una volta per sempre il nostro fato. E' il cosiddetto Carmen Saliare, risalente con tutta probabilità al VI secolo a.C., che veniva intonato dal cosiddetto "Collegio dei Salii" nei mesi di marzo e ottobre, in onore della Luce. Il documento, tramandatoci in forma scritta da Varrone, era in un latino talmente arcaico che, in epoca repubblicana e imperiale, non veniva più compreso dai coevi. Era rimasta, come si dice, una formula rituale. Ma guardate come dice nel suo testo originale:

Divom parentem cante
Divom deo supplicate.
Quonne tonas, Leucesie,
prai tet tremonti
quot ibei tet dinei
audiisont tonase.

Letto? Ecco, allora capirete meglio il nostro fato quando vi dirò che il collegio dei Salii si sarebbe costituito in un'epoca antichissima per impedire il trafugamento di uno scudo sacro caduto dal cielo, che i Salii presero sotto la propria custodia. A tal fine fecero forgiare dal fabbro Mamurio Veturio undici scudi, e il dodicesimo di origine divina sarebbe rimasto mimetizzato tra gli altri. I Salii avevano il compito di proteggere il Tesoretto. Come non parlare di destino in questo caso?

E la stessa traduzione del "Carmen Saliare", pur incerta che possa essere, sembra confermare il tutto: si tratta di una primitiva forma di lode a Berlusconi!

Lui, padre degli dèi, cantate,
Inginocchiatevi davanti al dio degli dèi.
Quando tuoni, o signore della luce,
davanti a te c'è Tremonti
e quanti dèi nel cielo t'udirono tuonare.

Devo ancora convincervi? E non bastano certo le interpretazioni alternative, secondo le quali tremonti sarebbe la forma arcaica di tremunt, "tremano". E che importanza avrebbe, visto quanto tremano le nostre tasche di fronte alle grandiose iniziative del ministrellus? Senza contare che, ad ogni modo, a Sondrio, dove costui è nato (o risorto?) il suo cognome si dice, appunto, Tremùnt.

Insomma, già da millenni sta tutto scritto, e senza cambiare una virgola. Rassegniamoci.



martedì 15 luglio 2008

Maglia gialla



Lo vedete il signore con la maglia gialla? Non siamo mica al tour de France, siamo a Genova nel luglio di sette anni fa. Perugini, si chiama quel signore. Faceva il vicequestore. Ai questurini deve piacere chiamarsi con cognomi geografici, Perugini, Calabresi e roba del genere. E piace anche, a questi signori, pestare, bruciare, accanirsi su gente inerme a terra, fare i blitz nelle scuole, prendere la mira e ammazzare ultras nelle aree di servizio, sparare, manganellare. Ah, già, dimenticavo: il capo della polizia che c'è da un po' di tempo si chiama Manganelli. Quando si dice il destino.

Ieri, dicono, c'è stata una "sentenza". Sì, perché in questo paese ci sarebbe ancora chi si aspetta "giustizia" dallo Stato. Cosa di dovrebbe fare, in questi casi? Ridere o piangere? Un "processo" durato anni, dal quale è emerso che sì, a Bolzaneto e alla Diaz è stato tutto uno scherzo. Magari un po' pesante, ma uno scherzo. Ma quale torture! Si chiamano "abusi", casomai. Ma quale "macelleria messicana", tutto è stato ridotto al massimo a un porchettaro sull'Ostiense. E, suvvia, non venitemi a dire che non ve lo aspettavate. Ma cos'altro vi ci vuole, per convincervi che lo stato non processa se stesso, e che, quando finge di farlo, si sa fin dall'inizio come va a finire? Qualche annetto fittizio di galera tanto per dare un po' di belletto, la "procura" che si accontenta ("è stato riconosciuto che qualcosa di grave è avvenuto", all'anima!), gli "avvocati di parte civile" che esultano per i "forti risarcimenti" e perché è stato "riconosciuto l'abuso di autorità".

Di "sentenze" come queste ne abbiamo viste fin troppe, tutte uguali, tutte dello stesso tenore. Nel frattempo continuiamo a vivere nel paese dove i "familiari delle vittime" sono soltanto familiari di certe vittime, quelle buone, quelle sante come –giustappunto- quel commissario Calabresi per cui è stato fatto il francobollo, per cui stata proposta la beatificazione -suprema espressione del connubio inscindibile fra stato e chiesa, fra sbirri terreni e sbirri divini. E giù commossi libri del figliuolo del commissario, già diventati persino audiolibri letti dall'attore di grido. Ci sono poi le vittime che non si possono neppure nominare, quelle senza audiolibri, quelle invisibili. Vittime dello Stato e delle sue forze del disordine. Vittime che "potevano starsene a casa e non gli sarebbe successo niente".

Allora, basterà questo a convincervi a smettere di credere nella "giustizia" dello Stato? Oppure, alla prossima Bolzaneto, alla prossima Venaus, alla prossima Chiaiano ve ne starete sempre lì bel belli a attendere "fiduciosi" il processo, a sentire il procuratore disegnare scenari che tanto saranno cancellati dal "giudice"? Bisognerebbe davvero che vi riascoltaste un genovese, uno che sapeva parlare di giudici. "Oggi un giudice come me lo chiede al potere se può giudicare". E che questi abbiano il cuore troppo vicino al buco del culo, lo si vede sempre più chiaramente. E non importa neppure che siano nani.

Non si aspetti "giustizia" da chi giudica in nome di uno Stato terrorista. Non si deleghi più la propria azione. Si cessi di andare a spararsi in vena illusioni di democrazia a base di voti, partiti, parlamenti, istituzioni: quel che si ha in cambio sono manganelli, bastoni, sangue e morte. Una piazza ripresa vale più di qualsiasi finto processo del potere, delle requisitorie di qualsiasi servo, dei risarcimenti che puzzano di merda insanguinata. Una ribellione qualunque, un'aggregazione spontanea per dire "no", una nuova coscienza civile antitetica alle impronte digitali; questo è l'unico vero risarcimento che si può offrire ai ragazzi e alle ragazze presi a calci dalle maglie gialle, incarcerati, uccisi. Il definitivo rifiuto dello Stato è la definitiva ripresa della vita.

venerdì 4 luglio 2008

A che serve volare

Proprio non ce ne avevo voglia di mettermi a tavola a casa mia, stasera; c'era qualcosa che mi chiamava fuori, in queste giornate torride di veneziane abbassate, di aire acondicionado, di antizanzare e di Philip Dick. Ma di Philip Dick, dei suoi marziani e delle stimmate di Palmer Eldritch si parlerà un'altra volta, anche se nel mio tardivo amore per la fantascienza sono certo di aver terminato di leggere una delle cose più folli e più belle che mi siano capitate fra le mani.

Così, con la scusa di mangiare, me ne sono andato dal lampredottajo all'angolo fra via Simone Martini e via Livorno; passando rigorosamente per via dei Bassi, perché mi sono messo a adorare quel miscuglio di palazzoni e di casette antichissime che è questo bizzarro quartiere che sta diventando uno dei tanti luoghi in cui sono nato. C'è un piccolo spiazzato, al quadrivio; una baracchina, sedie di plastica. Alle dieci di sera di luglio è tutto quel parcheggiare di motorini e apecar, e sulle sedie una congrega d'uomini e birre. In questi casi mi metto nella mia posizione preferita, defilata, sotterranea quasi; ad un angolo a osservare, coi miei panini e il bicchiere di vino. Vino si fa per dire, perché non gli era rimasta che una bottiglia di lambrusco, e m'è toccato adattarmi; ma sul lampredotto non ci si bevono né l'acqua e né la cocacola.

Uno di quei siciliani segaligni, ossuti, che, se non fosse stato per la bassa statura, sarebbe parso Piero Ciampi nato e sputato. La stessa espressione, la stessa ubriachezza anche se a base di Ceres e non di vino. Parlava quella strana lingua dei siciliani trapiantati a Firenze da chissà quanto tempo, il siciliano con le "c" aspirate, inframezzando frasi per me del tutto incomprensibili ad aperture gridate ai suoi compari, siciliani o calabresi anche loro, le camicie sbottonate. Assieme a lui, il suo amore di cui stava raccontando la storia tra una birra e l'altra: una cagnetta, un cucciolo di cane lupo di nome Stella con un orecchio ritto e l'altro piegato, l'andatura goffa e un'attrazione irresistibile verso chi se ne stava lì a mangiare il panino. Ogni tanto se la prendeva in collo, Stella, e giù baci su baci; "la terrò con me finché campo", diceva. Poi la rimetteva giù, quei tre mesi o poco più di morsi al mondo, e di nuovo a dirigersi verso i mangiatori di panini. Tant'è che, in seguito ad uno sguardo eloquente di approvazione, le ho fatto cuocere un würstel, gliel'ho fatto spezzettare e mettere in un piatto di plastica e le ho fatto preparare un po' d'acqua da bere in una delle vaschette che si usano per metterci il lampredotto o la trippa. E il siciliano giù a carezzarsela con la bottiglietta di birra in mano, a dirle cose in cui non ci capivo nulla ma che, credo, si capivano benissimo; e l'amore è amore. Per un essere umano, per un cane, per un'idea o per un'illusione. Poca differenza fa.

Guardavo, perché mi piace guardare. Mi piace anche pensare che nessuno, in quel momento, sa che cosa mi stia passando per la testa. Nessuno sa che tornerò a casa entro pochi minuti e mi metterò a raccontarlo, e nessuno di loro probabilmente lo saprà mai. Mi piace immaginare d'aver fermato un momento e di averlo installato nel ricordo d'una qualsiasi serata d'un quartiere di periferia. E le periferie non sono facili, mai. Passa una madre con una bambina di sette o ott'anni che, chissà, voleva andare a fare una carezza alla cagnetta; la madre comincia a tirarle un ceffone, le dice che la deve smettere, che non la porterà più fuori, e giù una serie di manate quando la bimba si mette a piangere, ci sarebbero mancati soltanto i calci e i tackle scivolati per completare l'opera. Il gestore della baracchina s'azzarda a gridarle un ironico "complimenti, signora!", mentre la donna tira la bimba per il braccio per farle attraversare la strada. Nel frattempo, Stella si mangia il suo würstel, sovrana, piccolo cane in mezzo ai piccolissimi umani.

Un ragazzo che bercia al cellulare con la sua fidanzata, una storia di qualcuno che lei non deve più vedere, i "ma io fo quel che voglio" che si captano dall'apparecchio. E il siciliano che continua a carezzare la cagnetta, guardandola, guardandola. E' ora di pagare e di andarsene, perché i momenti è sempre bene non dilatarli. Riprendo la macchina, passando per un'altra serie di antiche case. San Bartolo a Cintoia, un borgo inglobato tra i palazzoni, ma rimasto com'era. Gli incroci con vecchie strade con le targhe bianche e blu, i nomi di tempi lontani, via dei Querci, via del Saletto, via della Madonna di Pagano. La casa del popolo aperta, e un gruppo di donne e di anziani con le sedie sul marciapiede, a chiacchierare. Procedo pianissimo, e non soltanto perché la strada è stretta. Mi metto a canticchiare la prima canzone che mi passa per la testa, A che serve volare di Roberto Carlos, che in brasiliano si chiama Por isso corro demais; e per la testa, di certo, le cose non passano quasi mai a caso. A che serve volare, appunto. Servirebbe andare piano, con lentezza, per via di San Bartolo a Cintoia e per la vita intera. Mettersi a pensare che c'è qualcosa, qualcosa che non vuole morire; anche in forma d'un salsicciotto dato a un cucciolo di cui un uomo mezzo ubriaco di birra è innamorato. Qualcosa con le sue bellezze, le sue bruttezze, le sue strade, le sue bottiglie, la sua infinita meraviglia qualsiasi.