lunedì 28 ottobre 2013

Paperino e la crisi (1a puntata)


Lo scorso 4 settembre, un nutrito gruppo di extracomunitari è stato espulso dalla Grecia devastata dalla crisi. Il provvedimento riguarda peraltro due comunità che si erano installate in Grecia oramai da decenni: quelle di Paperopoli e di Topolinia. Che cos'è successo il 4 settembre? Semplicissimo: nell'ambito dell'editoria greca, oramai ridotta ai minimi termini con intere e storiche case editrici che hanno dovuto chiudere i battenti e mandare sul lastrico tutti i propri dipendenti, ha chiuso anche la Nea Aktina ("Nuovo Raggio" in greco); e la Nea Aktina era quella che pubblicava il "Miky", il Topolino greco, assieme a tutte le altre pubblicazioni disneyane. Dal 4 settembre, quindi, Topolino, Paperino, Qui Quo Qua, Archimede Pitagorico, la Banda Bassotti, Eta Beta, Minnie, Paperina, Filo Sganga, Brigitta, il Commissario Basettoni e tutti gli altri hanno dovuto sloggiare dalla Grecia. Non ci sono più soldi per pubblicare le loro avventure. Stop. Pappati anche loro. Li hanno imbarcati su cinque o sei aeroplani mentre Atene li salutava con un cielo rosa nella prima vignetta, azzurro nella seconda, viola nella terza e nero nell'ultima.

Mi sarebbe piaciuto scrivere un'ultima storia per il "Miky", per il Topolino greco. Prima che tutta la "banda Disney" scomparisse per sempre dalla Grecia. La storia si intitola: "Paperino e la Crisi" (in greco: Ο Ντόνταλντ και η Kρίση); disgraziatamente, non saprei disegnare nemmeno uno scarabocchio e non credo esistano al mondo persone più negate per il disegno del sottoscritto. Mi toccherà quindi raccontarvela a parole, questa ultima storia greca di Paperino. Come nei vecchi albi di Topolino, è divisa in due puntate.

PAPERINO E LA CRISI
1a Puntata

La storia si apre con Zio Paperino oramai alla fame più nera, è stato sfrattato dalla sua casa e vive in una roulotte scassata nei pressi del Pireo. Qui, Quo e Qua si arrangiano in giro per Atene per racimolare qualcosa da mangiare, mentre le nipotine di Paperina, Emy, Evy e Ely, sono cadute in un giro di prostituzione minorile. La notte, zio Paperino fa incubi innominabili: sogna di arrostire almeno uno dei nipotini per mangiarselo, mentre la stessa fine l'hanno già ampiamente fatta i Tre Porcellini, divorati non solo da Ezechiele Lupo, ma anche da Lupetto (evviva l'amicizia, ma la fame è fame -da lupi, appunto). Zio Paperone piange miseria, anche perché il deposito, pur trasferito in un luogo inaccessibile sulle montagne cretesi, è stato ben presto requisito dal governo delle larghe intese su ordine della troika, e al posto del simbolo del dollaro è stata messa una gigantografia di Angela Merkel; nel frattempo, Topolino e Minnie sono emigrati in Norvegia, Pluto se n'è andato di casa e lo si vede in cima ad ogni manifestazione assieme all'amico Loukanikos ("Salsiccia"), Nonna Papera ha deciso di cacciare Ciccio via dalla fattoria, Pippo frequenta gli anarchici del quartiere di Eparchia assieme a Paperoga e al gatto Malachia, mentre il Commissario Basettoni e Manetta votano per l'estrema destra.

Una mattina, non sapendo oramai più cosa fare e mentre persino la casa editrice che li pubblica sta per chiudere inesorabilmente come la TV di stato, zio Paperino va da Archimede Pitagorico, a cui hanno tagliato la luce e che, per illuminare la stamberga dove vive, è costretto ad accendere con parsimonia la lampadina Edi. Intende chiedere qualche consiglio al geniale inventore, che sta lavorando a un marchingegno assemblando dei rottami pescati nelle discariche ateniesi. Col suo immortale genio ellenico, Archimede sta fabbricando una specie di arma letale e, sulle prime, non vuole dirlo a Paperino; poi, alla fine, gli racconta tutta quanta la storia. Stanco di tutta la situazione, e dopo aver visto persino il superfortunato Gastone darsi fuoco in Piazza Syntagmatos in un atto estremo di protesta e riscattando così una vita da stronzo, Archimede ha deciso di fabbricare un'ultima invenzione da usare due settimane dopo, in occasione della visita congiunta in Grecia di Barroso, Van Rompuy e delle autorità della BCE. L'arma, che funziona con un raggio catafotobionico ottenuto mediante la fermentazione forzata delle rape, è micidiale e può colpire da chilometri; avrà però un solo difetto insanabile. Affinché il raggio catafotobionico sia efficace, è infatti necessario avere a disposizione una quantità enorme di rape, che sono diventate preziose come l'oro in quanto divenute una delle poche fonti di alimentazione della popolazione.

Paperino, con generosità e capendo l'importanza della cosa, si offre per reperire le rape necessarie e inizia una lunga serie di avventure mentre Archimede continua a lavorare. Trova Qui, Quo e Qua mentre stanno tornando con pochi euro ricavati dalla vendita di tutti i trofei vinti con le Giovani Marmotte, acquistati da un rigattiere turco; Quo ha delle ecchimosi e racconta allo zio di essersi dovuto difendere da un'aggressione di alcuni militanti di "Alba Forata", il partito neonazista e populista fondato dal miliardario Rockerduckopoulos (e nel quale militano anche Macchia Nera -ovviamente!- e Pietro Gambadilegno). Sdegnato e deciso a farla pagare a tutti, Paperino spiega ai nipotini dell'arma di Archimede e del suo progetto, e i nipotini aderiscono con entusiasmo. Zio Paperone, una volta requisito il suo deposito, non si è perso d'animo e, individuato il nuovo business delle rape, ha iniziato a accumularne enormi quantità. I quattro, quindi, decidono di rivolgersi allo zio per farsi aiutare.

Impresa inutile: naturalmente non possono rivelare a Zio Paperone come mai abbiano bisogno di una grande quantità di rape, ed inoltre l'avarissimo riccastro, ammanicato anche lui con i poteri forti, non intende rinunciare ai suoi affari. Dopo un duro scontro, Paperino e i nipotini minacciano Zio Paperone di fargliela pagare cara; si recano quindi dalla Banda Bassotti per quella che si profila un'alleanza davvero inedita. Durante una riunione segretissima, Paperino e i nipotini esprimono ai Bassotti il loro sincero rammarico per aver sempre difeso il deposito di Paperone dai loro assalti, e per aver fatto loro assaggiare tonnellate di galera; i Bassotti capiscono commossi, mentre tutti insieme intonano H Διεθνής la versione greca dell'Internazionale.



Il reperimento delle rape avverrà su tre fronti. Del primo si occuperà Paperino attraverso canali pseudolegali, dopo aver rivelato la cosa a zia Paperina. Costei, assieme alle sue amiche e segnatamente Clarabella, organizzerà delle finte "raccolte di beneficienza" con slogan del tipo "UNA RAPA PER LA VITA"; i nipotini, invece, chiamati a raccolta tutti i piccoli amici delle ex Giovani Marmotte (ribattezzate "Brigata Alexis Grigoropoulous") si "lavoreranno" tutti i magazzini dove i nazisti di Alba Forata hanno ammassato le rape per distribuirle esclusivamente ai greci dietro presentazione della carta di identità. I Bassotti, infine, organizzeranno un decisivo assalto ai depositi dove Paperone ha ammassato tonnellate di rape deciso a venderle a prezzi esorbitanti.

Dopo le prime azioni, il successo è clamoroso e tutta la Grecia si interroga preoccupata. Il governo è in allarme, mentre sui muri cominciano a comparire scritte minacciose come "T FOR TURNIP" (con l'effigie di Guy Fawkes che tiene in mano una rapa), o ΕΚΔΙΚΗΣΗ ΜΕ ΓΟΓΓΥΛΙΑ ("Vendetta con le rape"). Archimede Pitagorico capisce tutto, e sviluppa con alcune molle arrugginite e pezzi del Meccano un meccanismo per rendere ancora più potente l'arma destinata a sterminare le autorità politiche e bancarie "europee". Il miliardario Rockerduckopoulos, vedendosi saccheggiare i magazzini imbandierati da branchi di misteriosi ragazzini,  va a protestare dalla sua fililale (detta "Polizia Greca", ndr) incaricando il commissario Basettoni di stroncare la cosa. Nel frattempo, al gruppo di Paperina e Clarabella si è aggiunta anche Brigitta, che intravede però anche un'occasione per arrivare finalmente a sposare l'amato Paperone. I Bassotti si vedono spesso a Eparchia, dove Paperoga e Pippo continuano a fare opera di propaganda. Come andrà a finire? Riuscirà Archimede ad avere tutte le rape necessarie per il raggio letale?... (Fine 1a puntata)



venerdì 25 ottobre 2013

Contro il futuro.



Non solo le linguistiche teoriche (e la filosofia del linguaggio) hanno da dire molto sulla contemporaneità; anche la linguistica storica porta a considerazioni da tenere presenti. Ad esempio, ogni indoeuropeista sa che la ”protolingua”, vale a dire l'indoeuropeo ricostruito (o meglio, ipotizzato) attraverso la comparazione tra le varie lingue storiche e documentate nella loro evoluzione, era totalmente privo del futuro nella coniugazione verbale. Il ”futuro” è stato inventato molto dopo, e ogni lingua ha provveduto a modo suo; il greco antico, ad esempio, lo ha formato a partire dall'aoristo ”sigmatico”, ed ha quindi in origine un valore non tanto di futuro, quanto di tempo indefinito. Nello sviluppo di quella lingua, poi, ad un certo punto il futuro è di nuovo scomparso, ed è stato riformato in epoca medievale in modo del tutto differente (vale a dire premettendo una particella alle forme del congiuntivo, θα o θενά, derivata da θέλω να “voglio che”). Le lingue germaniche più antiche (gotico, antico alto tedesco, antico islandese, anglosassone...) non avevano la benché minima forma autonoma di futuro, e si sono poi arrangiate ognuna per sé (l'inglese col verbo “volere”, il tedesco con “diventare”, le lingue scandinave con “dovere” e così via). Il latino ebbe un futuro formato in parte con un suffisso derivato dalla radice dell' “essere” (-bo, -bis), in parte da un antico congiuntivo (faciam, facies); ma tale futuro si è perso del tutto nelle lingue neolatine, che in genere hanno detto “ho da fare”: facere habeo, da cui “farò”, “haré”, “ferai”. Il rumeno, però, che va sempre per conto suo, ha fatto in due modi differenti: uno letterario col verbo “volere” (ancora), voi face, e uno popolare con una particella e il congiuntivo, o să fac. Ciò non toglie che, anche nelle lingue neolatine compresa l'italiano, il “modo antiquo” sia rimasto come in tutte le altre lingue: vale a dire fare a meno del futuro. Il futuro è inutile, dire “domani faccio” invece di “domani farò” è esattamente la stessa cosa, come gli inglesi dicono I go tomorrow (o I'm going tomorrow) e i tedeschi ich gehe morgen. E i rumeni merg mâine, gli svedesi jag går i morgon e i greci πάω αύριο. Dalla gente che parla, il futuro non è riconosciuto: si usa il presente, come è sempre stato. Uscendo dalle lingue indoeuropee, l'ungherese ha un suo futuro formato o col verbo “cominciare” e l'infinito (menni fogok “comincio a andare” = “andrò”), ma è una forma libresca; per la strada si dice majd megyem “vado fra un po'” o semplicemente megyem, come dappertutto. Il suo “cugino” finlandese ha ritenuto del tutto superflua qualsiasi forma di futuro; non ce lo ha mai avuto e dice tuttora menen. Non si parli poi delle lingue, come il cinese o il malese, che non coniugano nemmeno i verbi; lì il problema non si pone. Il futuro, insomma, non esiste; ad un certo punto qualcuno deve avere avuto una geniale pensata.

Gli è che se ne può fare tranquillamente a meno, del futuro. Nei verbi come in qualsiasi altra cosa. Vuoi diventare geometra? Certo, non puoi dire “sono geometra” col presente, perché vorrebbe dire che lo sei già; ma puoi dire “voglio essere geometra”, poi dipende da te e dalla geometria. Il fatto è che il “futuro”, nei verbi come altrove, sembra essere stato inventato per tutta una serie di cose che vanno dal fregare all'illudere, dall'opprimere al piegare, dal convincere all'obbligare, dall'ingabbiare al morire. Così, a forza di “futuro”, si crea la macchinetta obbediente, si crea la “speranza” e la “delusione”, si dà a credere che “bisogna crearsi un futuro”, si fabbricano i “vincenti” e i “perdenti”; così si costruiscono le categorie sociali e generazionali, tipo i famosi “giovani in cerca di un futuro”, con tutte le conseguenti strutture al servizio di un'altra cosa che, lei sì, ha bisogno del “futuro” nella sua vera essenza: il profitto. Il profitto ha bisogno di programmare per riprodursi nei suoi meccanismi, quindi deve stabilire la trafila che porti l'essere umano ad essere inserito costantemente, e ineluttabilmente, nei suoi ingranaggi. Tutti questi “giovanotti in crisi”, “senza un futuro” e via discorrendo, tutte le loro “fughe” condite con le “speranze”, tutto quel loro “non avere un futuro” da Vimercate a Canicattì, è indice preciso di tutto questo stato di cose. C'è stato forse un periodo in cui dei loro coetanei hanno parlato molto poco del “futuro” basato sull'affermazione personale concepita come soddisfazione di “esigenze” interamente circoscritte in un tipo di società, e si sono concentrati sull'abbattimento di un presente che avrebbe creato il solito “futuro” da schiavitù; sono stati distrutti. Alcuni hanno pensato bene di rientrare nell'alveo, alcuni altri hanno addirittura abbracciato il profitto con passione, a volte servendosi del loro passato; ora basta accendere la televisione per sentire le quotidiane geremiadi dei “giovani senza futuro”. Che “futuro” desiderano, dunque, 'sti giovani?

Vogliono il lavoro, naturalmente. Il lavoro e tutte le sue “conquiste”. Vogliono il reddito, magari per potersi fare la famiglia. Vogliono le cose senza le quali, chiaramente, il “futuro” non può esistere; in questo senso, tra l'altro, non si creda che esistano bisogni “primari”, “secondari” e “superflui”. Nel sistema capitalista questa suddivisione non ha ragione di essere, la casa vale quanto l'iPad. Le “famiglie che non vanno avanti” non ci vanno perché non possono più permettersi il “tenore di vita” che è stato loro fabbricato come necessario. A questo modo non si va più via per conoscere il mondo, ma esclusivamente per cercare di ricreare altrove ciò che nel proprio paese, in un dato momento storico, non appare più possibile. Lavoro, casa, famiglia, soddisfazione personale, sicurezza della materialità. So che è un discorso parecchio duro da fare, ma è la molla che spinge anche la maggior parte degli immigrati, anche quelli che scappano sui barconi da guerre e carestie. Chi si è vista distrutta la propria materialità, scappa per cercare di ricrearsela altrove; e sono diventato parecchio scettico sul “valore rivoluzionario” o comunque di cambiamento che certuni attribuiscono ai flussi migratori. Gli immigrati “non ci salvano dagli italiani”, come si legge sui muri; vengono, o passano di qui, per andare nel famoso “mondo migliore”, vale a dire dove ci siano lavoro, terra e possibilità, dove possano fare figli, dove possano avere istruzione e “integrazione”. Non sono portatori in sé di nessuna forza di cambiamento, in quanto anch'essi facenti parte di un sistema i cui ruoli non sono messi affatto in discussione. Senza vedere e capire questa cosa elementare, si fa come sempre: il fine ultimo, anche della maggior parte degli immigrati, è una bella vita borghese nei suoi vari gradi, con tutta la famiglia di prammatica. Si può sopportare anche il razzismo, per questo. Per questo la “comunità senegalese” di Firenze si è accontentata di una bella preghierina dell'imam, e di due o tre cittadinanze concesse per far fare bella figura al sindaco, e non ha spaccato ogni cosa dopo i fatti di Piazza Dalmazia; per questo preferiscono la “moschea” alla rivolta, con noialtri che immaginiamo chissà quali sollevazioni che non possono esistere. I “dannati della terra” non hanno confini né colore; siamo tutti dannati all'interno di un percorso obbligato che, però, non viene assicurato a tutti.

Dovrebbe quindi essere chiara la truffa del “futuro”. Come scrivono alcuni sui muri, perlopiù anarchici: Lavoro, casa, famiglia, macchina, telefonino....e domani muori. Usando, come si vede, il tempo presente. Gran tecnologia, “comunicazione” planetaria senza in realtà comunicare mai nulla se non la propria impotenza e la propria incapacità di ribellarsi (a parte qualche ribellione personale espressa in “stili di vita” o “concezioni” che in gran parte si rivelano del tutto innocue), “sollevazioni” in pompa magna che si risolvono in colloqui col signor ministro, “lotte per la casa” che si concludono non appena ti danno un buco e chi s'è visto, s'è visto (vale a dire: chi il buco non lo ha avuto, cazzi suoi; basta che ora io e la mia famigliuola di merda ci abbiamo dove stare e dove arrivare a fine mese, italiano o immigrato che sia). In questi ultimi tempi hanno tirato fuori alcune perle, come ad esempio la “decrescita”: qualcuno mi dovrebbe spiegare come mai si deve per forza “crescere”. O non si doveva abbattere il capitalismo? Che sarà mai questo “decrescere”? Del tutto persa la capacità di inventare e portare avanti nuove forme per superare l'esistente, senza perdere di vista quelle già inventate e che sono state peraltro dimenticate, irrise e distrutte, ci si è di nuovo infilati a pie' pari nell'esistente senza alternative, con conati di “lotta” che non supereranno mai un bel niente a parte la rivendicazione di “diritti” o di “beni comuni”. Rivendicazione che può essere soddisfatta o aggirata, ma che rimane sempre all'interno del capitalismo e delle sue strutture. Non è che non ci si accorga di questo: semplicemente lo si rifiuta. Si fa riformismo cianciando di chissà quale “rivolta”. Nemmeno capaci di atti squisitamente concreti tipo, che so io, ripulire una città dalle “telecamere amiche”, tutti gelosi della privacy e della riservatezza come siamo diventati, e poi zitti senza fiatare di fronte all'osservazione poliziesca continua cui non si sfugge. Si fa il bel corteone a Roma, e settantamila persone che vogliono cambiare sarebbero in grado di mettere a ferro e fuoco una città; altro che focherelli con qualche buffetto e qualche arresto non convalidato. Invece no: si sfila per la casina, per i “diritti”, “isolare i violenti”, la mammina di famiglia con cinque figli che fa la commovente intervista, e gli “antagonisti” che (ant)agonizzano. Contentandosi che “esista un movimento”, ma de che? Va bene, sono sconfortato e non mi sono accodato a chi si vuole ancora illudere a base delle stesse manifestazioni cui io stesso ho partecipato, a decine e decine. Ma il “futuro”, anche se non sono più “giovane”, l'ho definitivamente buttato nel cesso e tirato lo sciacquone. Almeno quello, per quel che mi riguarda, è abbattuto; come nelle lingue indoeuropee storiche, e contro tutte le fregature coi verbi ausiliari, le particelle e la maiala di su' ma'.

L'altro giorno, a una non so quale trasmissione televisiva, ecco l'ennesimo giòvine, ecco l'ennesima ragazzotta che “se ne vogliono andare” perché “non hanno un futuro”. La cosa sembra essere passata: le stesse cose le dice Gianni Letta, non so se avete notato. Il “futuro” serve a far inghiottire ogni cosa; la “legge di stabilità” non si fa mica per rastrellare soldi e per continuare a pagare le “missioni di pace” e gli F35, si fa per “creare un futuro ai giovani”. Bisognerebbe cominciare a fucilare un bel po' di giovani e del loro futuro del cazzo, delle loro Americhe e delle loro Inghilterre, dei loro lavorini e delle loro speranzielle di stramerda, ché tanto sono tutte uguali e non escono mai dalle gabbiette preparate. Fucilare i loro “profili Facebook” che poi servono per “fabbricare la storia” quando incocciano in un gruppo di pazzi briachi che li ammazzano a Milano come nel Kent. Fucilare il futuro potrebbe, questo sì, portare ad un reale cambiamento; ma prima bisogna cominciare a fucilare il presente. Ora come ora, al massimo gli si tira un uovo e questo può essere già sufficiente per la galera. Ma, del resto, la galera piace tanto. Piace nelle strutture mentali e nella pratica quotidiana. Piace perché è rassicurante al massimo grado. Piace, soprattutto, perché si crede che una galera sia soltanto un edificio con le sbarre, i reticolati, le celle e le guardie, dove si rinchiudono coloro che hanno contravvenuto alle “regole”; quella galera lì si può anche fantasticare di “abbatterla”. Ma la galera è dovunque, ed è dentro di noi che siamo incapaci di vederla in tutti gli aspetti della vita; la galera è nella famiglia, è nella scuola, nel lavoro, nei desideri inculcati, nel nostro zampettare al suo interno come scimmiette in gabbia; ed è una galera globale che ha il “futuro” come uno dei suoi più zelanti e spietati secondini. Quando cominceremo finalmente ad ammazzarlo, quando saremo capaci di eliminare il dopo per prenderci l'adesso, se ne riparlerà.

Peraltro, la lingua albanese, ora che ci penso, pure ci ha il suo futuro con la particella: do të shkruaj “voglio scrivere”; e così il bulgaro šte pišem. In russo hanno deciso che il presente dei verbi perfettivi abbia valore di futuro, per decreto, come con un ukase dello zar. E se si va nelle lingue artificiali, beh, dal doktoro “Esperanto” non ci si poteva aspettare che nella sua lingua non ci infilasse pure il futuro; ma che ti pare! Ora che ci penso, persino io stesso nel “kelartico” non ho saputo farne a meno: potevo anche tenermi il mio semplice madăm “io amo” ed evitare il madsyem “io amerò”. Certo, in passato ho eliminato dalla lingua tutta una serie di complicate declinazioni, chissà che il futuro non faccia presto la stessa fine; me lo posso permettere.

Nell'immagine: Qualcuno che, col "futuro", l'ha preso nel culo alla grande. Ogni tanto qualche scarna soddisfazione esiste; si completerebbe vedendo Gianfranco Fini emigrare in Inghilterra ed essere riempito di cazzotti da quattro o cinque estoni strafatti di "Vabarigis Valge".

giovedì 24 ottobre 2013

Rubare il lituano


Direi, dai, su, che possiamo tirare tutti quanti il classico sospiro di sollievo.

Ieri era arrivata la notizia del ragazzo di Nibionno (Lecco) ammazzato di botte in Inghilterra. Le prime notizie parlavano di un'aggressione da parte di un gruppo di inglesi, al grido di ”Ci rubate il lavoro!”; e qui si impone una piccola riflessione.

Per un certo periodo ho avuto serissimi dubbi sullo scrivere, qui e a volte anche altrove, sui fatti di cronaca. Il problema dei ”fatti di cronaca” è che, nel 99,9% dei casi, si apprendono dai media; può capitare in una vita di assistere di persona a un fatto di cronaca, come ad esempio mi è capitato molti anni fa con l'attentato di via dei Georgofili; ma sono casi molto rari.

Si impone quindi una scelta, sintetizzabile nel modo che segue: sempre che se ne voglia parlare, e trarne spunti di varia natura, lo si deve fare ”a caldo” oppure attendere ”notizie più precise”? Farlo a caldo espone, come nel caso di ieri, a ”brutte figure” in quanto, molto spesso, la realtà del giorno dopo è molto diversa da quella riportata immediatamente.

Eppure si dovrebbe essere ammaestrati: il giornalista cerca la ”notizia”, e senz'altro un giovane cameriere italiano ammazzato da un branco di inglesi che urlano ”Ci rubate il lavoro!” fa più notizia del medesimo cameriere italiano ammazzato (forse addirittura per uno sbaglio di persona) da quattro lituani ubriachi.

A questo punto, occorre fare un po' di chiarezza.

Le aggressioni a sfondo razziale esistono. Non è un caso poi rivelatosi diverso che le fa scomparire. Se dovessimo parlarne soltanto quando assistiamo di persona ad una cosa del genere, non ne parleremmo mai, anche per la propensione che abbiamo a voltare il capino dall'altra parte, quotidianamente. Quando, sull'autobus navetta per la Coop, senti numerosi passeggeri che hanno visto una ragazza Rom sul marciapiede con un bambino in braccio invitare calorosamente l'autista a montare sul marciapiede con il mezzo e a schiacciarla assieme al bimbo, lo capisci meglio. Solo che questa non sarà mai una notizia; al massimo, qualcuno che assiste casualmente alla scena potrà parlarne su un blog letto da pochi intimi.

Viceversa, leggere una notizia come quella di ieri (o meglio: la notizia come si presentava ieri) fa scattare immediatamente delle ”molle”. È questo il famoso ”commentare a caldo” di cui si ragiona, quello che espone alle smentite, alle correzioni, alle brutte figure ed anche ad essere definito un cialtrone.

Anche perché, invariabilmente, ci sono legioni di saggi in agguato. Quelli che non ne parlano, in primis, preferendo rifugiarsi in vari ”luoghi” più o meno immaginari, in mitici passati ”in cui valeva la pena vivere”, eccetera. Poi ci sono quelli che aspettano, saggiamente assai per carità, fornendo valutazioni ragionate, sferzando i cialtroni che si sono lasciati trascinare dopo tre minuti, e così via.

Non mi vergogno affatto nel dire che sono, non di rado, uno che commenta ”a caldo”. Esponendomi quindi a tutto quanto sopra. Incapace di attendere un'ora o due e vedere come si ”evolve” una notizia, e di vedere gli inglesi razzisti assassini che si trasformano in lituani sempre assassini, ma ubriachi fradici.

Sarà forse che da certe cose sono toccato nel profondo, perché sono un osservatore di ciò che mi circonda (uno dei miei rarissimi lussi) e vedo la violenza gratuita e quotidiana attorno a me. Violenza che si esprime in mille modi, i quali non consistono soltanto nell'ammazzare di botte la gente (cosa che comunque accade). Violenza quieta, espressa a volte come ”battuta”, ma non per questo meno atroce. Può darsi che non sia portato, è vero, all'eccessivo ragionamento analitico. Può darsi che non sia un saggio, anche se questo mi preserva dall'opportunismo che è tipico di parecchi savi. Può darsi anche che odi l'indifferenza più di ogni altra cosa, e che mi metta a sbraitare sull'autobus dicendone di tutti i colori a chi fa le ”battute” sulla ragazza Rom e sul suo bambino e constatando non sempre con piacere che, in tali casi, aiuta abbastanza essere degli armadi con una barbaccia curata pessimamente e coi capelli a coda di cavallo. Aiuta, ad esempio, a non far sentire sempre e comunque al sicuro tutti quegli stronzi sull'autobus, anche se magari tra di loro ce ne sarebbe qualcuno capace di stendermi facilmente. Non mi riesce stare zitto. Né sull'autobus, né sull' ”Ekbloggethi Seauton Asocial Network”.

Allora mi espongo, e lo rivendico pure. Perfettamente conscio del fatto di aver letto la notizia da un giornale che detesto e che attacco ogni volta che posso, e che la notizia possa poi risultare imprecisa o, a volte, addirittura fasulla. Rivendico anche il dovere di parlare ”a caldo” di certe cose, con tutti i rischi che comporta. Li ho corsi in passato e ne correrò ancora, ma non lascio stare. Ritengo che non sia più tempo di ”approfondire”, ma di reagire.

Non cambierei una virgola in quel che ho scritto ieri, perché forse non si ha ben presente -ad esempio- a che cosa ha fatto in questi anni Alba Dorata in Grecia agli immigrati cavalcando la devastazione. O forse Rosarno è già stata dimenticata; e si dimenticano quotidianamente le volte che sentiamo dire quella frasetta, ”ci rubano il lavoro”. Quando si ”commenta a caldo”, senza aspettare nessuna ”evoluzione”, si hanno invece bene in mente certe cose e significa che si è fatto veramente il pieno e non si intende più lasciar passare nulla. Si affrontano le cose tentando, in qualche modo, di abbatterle; altrimenti si fa soltanto l' ”inchino” alla realtà, ci si avvicina alla costa su una nave di lusso e si tira avanti tutti soddisfatti della propria bellezza. O della propria ”profondità di vedute” e della propria capacità di analisi, senza mai fermarsi a sporcarsi le mani.

Abbiamo così appreso che non c'è da ”rubare l'inglese”, certo. Curioso, senz'altro, che le metafore linguistiche che usavo ieri siano sfociate nel lituano. Ma quella famosa frase, ”ci rubate il lavoro” (che sembra comunque essere stata detta, ma poi vattelappesca), sarà stata detta in inglese o in lituano? Jūs mums pavogtas darbą! Proprio un bel sospirone di sollievo; il ragazzo italiano non ha nessuno sfondo razziale, gli inglesi sono salvi e più che altro siamo salvi noialtri. Possiamo continuare a ”sognare l'Inghilterra” e tutta una serie di altri paeselli, sperando naturalmente di non incontrare i lituani briachi. Quelli che qualche tempo fa, assieme ai russi e ai polacchi, ci ritrovavamo agli incroci con il secchio in mano, e qualcuno ce n'è pure ancora. Possiamo ancora continuare a mandare i figli a imparare l'inglese tranquillamente, e sculo per il povero Joele Leotta che si è ritrovato nel posto sbagliato al momento sbagliato. Ma i posti sbagliati e i momenti sbagliati sono molto rassicuranti e permettono di passare avanti senza guardare, mentre là accanto c'è un anziano signore col pacchetto di pastarelle in mano che si fa rubare il lavoro dal senegalese che sposta file di carrelli fuori da un supermercato. Magari, chissà, un Bennett vicino a Nibionno (Lecco).

Non si corre poi certamente il rischio di rubare il lituano. Troppo difficile da rubare, quella lingua infernale.

mercoledì 23 ottobre 2013

Rubare l'inglese



Joele Leotta, diciannove anni, non era un “cervello in fuga”; era un ragazzo come tanti che se n'era andato in Inghilterra a fare il cameriere. In Inghilterra c'è una tradizione praticamente secolare di camerieri italiani; tant'è vero che l'espressione “The Waiters” indica spesso, tout court, gli italiani. Specialmente in senso spregiativo; ad esempio, i terrificanti tabloids britannici la usano spesso in occasione delle partite di calcio tra squadre italiane e inglesi, o tra le nazionali. Quando l'Italia vinse la sua prima storica partita a Wembley contro l'Inghilterra, nel novembre del 1973 con un goal di Fabio Capello a tre minuti dalla fine, il giorno dopo il Sun, o qualcosa del genere, titolò con un gigantesco SHAME! Battuti dai camerieri!.

Stando alle prime notizie, il cameriere Joele Leotta veniva da Nibionno, in provincia di Lecco. Ultimamente, le pagine Wikipedia dedicate ai comuni italiani riportano rigorosamente la consistenza della popolazione straniera nel comune preso in esame. Così, dalla pagina Wikipedia, risulta che a Nibionno (Lecco) vivevano, al 1° gennaio 2011, 97 marocchini, 50 albanesi, 31 rumeni, 22 senegalesi, 13 algerini, 10 turchi, 9 polacchi, 9 indiani, 7 moldavi (si dice “moldavi”, non “moldovani”) e 7 tunisini. Un totale di 324 stranieri su una popolazione residente di 3681 persone (al 1° novembre 2011). Nella medesima pagina Wikipedia si mette particolarmente l'accento sull'invecchiamento della popolazione di Nibionno; l'aumento di 50 unità registrato a quella data è dovuto principalmente all'apporto degli stranieri. I diciannovenni del posto, invece, se ne vanno a fare i camerieri in Inghilterra, dove vengono ammazzati.

Joele Leotta, diciannovenne proveniente da un paese di vecchi, è stato ammazzato come un cane a Maidstone, capoluogo del Kent, città di circa 75.000 abitanti famosa per il “Castello di Leeds”. Wikipedia inglese dice soltanto che, a Maidstone, il 5,9% della popolazione è straniera; preferisce, poi, effettuare suddivisioni per colore della pelle e per religione. Si scopre così che, a Maidstone, il 97% degli abitanti ha la pelle bianca, lo 0.4% la ha nera e l'1,5% la ha “asiatica” (“white” e “black” vanno bene, “yellow” no). Poi c'è un 74% di cristiani, uno 0,8% di musulmani e uno 0,7% di induisti; il restante 24% circa non si sa, che siano atei e quindi arrabbiati col buon Dio, come dice un famoso twittatore nelle sue perle di saggezza e di umorismo? Chi lo sa. A buon conto, Joele Leotta, da Nibionno (Lecco) doveva avere tutti i requisiti per rientrare sia nel 97% dei bianchi di Maidstone, sia nel 74% dei cristiani (o nel 24% dei nonsisà, magari era seguace del neopaganesimo o magari credeva nel potere soprannaturale di Elvis Presley o di Kurt Cobain).

Ciò non gli ha impedito di essere ammazzato da alcuni coetanei (“dai 21 ai 25 anni”, come recita l'articolo) perché rubava il lavoro agli inglesi. In realtà, pare che Joele Leotta fosse andato in Inghilterra per imparare l'inglese, e che si mantenesse servendo in tavola in un ristorante della zona. Bisognerebbe una buona volta smetterla di voler imparare l'inglese; ci sono ancora migliaia di altre lingue, pare che ora ci sia il “boom” del cinese e del russo ma apprezzo incondizionatamente i diciannovenni che vogliono imparare il finlandese, puhutteko suomea? Si faranno magari ammazzare lo stesso a Jyväskylä o a Tampere da una banda di ragazzotti che li accusano di rubare il lavoro ai finlandesi, ma almeno avranno la consolazione di non morire per il solito inglese del cavolo. Lo avrebbero comunque imparato assai peggio, l'inglese, di quei somali dei barconi che sbarcano a Lampedusa, o ci affondano in prossimità. Pochi giorni fa, sulla tramvia di Firenze, ho chiesto gentilmente a un ragazzino cinese con lo zainetto di scuola di spostarsi perché dovevo scendere; mi ha guardato dicendomi Do you speak English?, e mi è toccato dirglielo in inglese. Al che si è sposato, e mi ha salutato con squisita cortesia e in un ottimo inglese, devo dire. Dopo essere sceso, però, ho rimpianto di non aver mai studiato il cinese.

Naturalmente, ignoro quanti a Nibionno (Lecco) abbiano, almeno una volta, pensato o detto che quei trecentoventiquattro stranieri che abitano nel comune siano venuti a rubare il lavoro ai nibionnesi. E' possibile, e per questo non importa neppure ricorrere alla “Lega” perché il “lavoro rubato” dagli stranieri è una delle cose che unisce l'Italia da Aosta a Capo Passero. Per non parlare di Firenze, naturalmente. Così è andata a finire che un nibionnese di 19 anni, oggi, è stato ammazzato di botte da otto ragazzotti che “volevano impartire una lezione a lui e a un suo amico”. Scopriamo così che, nell'anno 2013 e con la Bossi-Fini ancora in vigore (e lo resterà, non abbiate alcun timore), coi CIE tutti belli in funzione e con Alba Pentastellata che imperversa assieme al suo guru, ancora ce ne andiamo in giro per il mondo a rubare il lavoro, ad esempio in un ristorante di Maidstone nel Kent. E che, per questo, altro non siamo rimasti che degli italiani, degli emigranti, dei sottosviluppati degni di essere massacrati di botte in quanto tali.

Sicuramente chi scende da un barcone non viene qui per “imparare l'italiano”. Si spargerà per qualche paese di quest' “Europa” sempre più di merda e in preda all'idiocrazia. Ciò non toglie che il ragazzo italiano che va in Inghilterra a “imparare l'inglese” faccia la stessa fine del pakistano massacrato in Grecia da Alba Dorata, e in Pakistan l'inglese lo sanno generalmente molto bene, anche se lo pronunciano con un accento un po' strano. Forse Joele Leotta era andato a rubare l'inglese facendo il cameriere; non si era iscritto a una di quelle costosissime “scuole” dove l'inglese lo si vende a carissimo prezzo. E vorrei poter andarlo a riprendere all'ultimo momento, prima che entrino quegli otto o nove mentecatti, con un corso di Esperanto in mano. Venu amiko, mi iras en sennacieca mondo.

martedì 22 ottobre 2013

domenica 20 ottobre 2013

Il signor Rossi




Succede di rado, ma oggi 'sto ragazzo si merita un intermezzo palloniero su questo blog, cazzo. E in culo ai gobbacci di merda e al Conte parrucchinato! Come nel '75: Giuve quattr'ova !

sabato 19 ottobre 2013

Conti da fare


Bisognerà, prima o poi, presentare i conti a questi signori qua. Sì, dico proprio quelli di Repubblica. Presentare i conti a loro, ai loro "editoriali" di merda, a erremoscia Scalfari, a tutti quanti. Alle loro "colonnine a destra" coi goal sbagliati accanto a tette e culi all'aria. Alle loro "larghe intese", alla "legalità", alle loro Boldrini e ai loro Napolitano. Ai loro "black bloc", alle loro polizie, alle delazioni organizzate. Al loro quotidiano inno alla servitù. Al loro Saviano e al loro Benigni. Alle loro bave pro-TAV. Bisognerà per forza, e bisognerà che siano conti parecchio salati. Schifosi sbirri dell'informazione manipolata e della menzogna eletta a sistema. Sono conti da fare, e non sono più rimandabili.

giovedì 17 ottobre 2013

Il pane e le ruote


Sant'Ilario (e San Piero) li hanno fabbricati sul granito, e sono fatti di granito. Col granito del Campo nell'Elba, e in particolare con quello delle vicine cave del Seccheto, sembra ci abbiano costruito almeno una parte del Pantheon a Roma; questo è quel che si dice sull'Isola. Sicuramente, però, ci hanno lastricato interamente i vicoli dei due paesi. Qui siamo a Sant'Ilario.

Come tutti quelli lunghi come la fame, cammino spesso con la testa bassa; così mi è caduto lo sguardo su queste due pietre del selciato in granito di una strada dedicata a chi lo dirò dopo. W il pane, qualcuno ci ha inciso sopra; e non dev'essere stato un atto particolarmente semplice. Per incidere qualcosa su due lastre di granito non basta una chiave o un chiodo; bisogna pigliare uno scalpello e smartellarci sopra. Arnesi che, comunque, non devono essere mai mancati a Sant'Ilario e San Piero, paesi di cavatori e scalpellini.

Mi sono messo a ragionare su quando possa essere stata incisa questa cosa, e mi sono venuti a mente gli anni del secondo dopoguerra, quando c'era sia poco pane (e il granito dell'Elba non lo voleva più nessuno), sia si poteva in qualche modo ricominciare a invocare "pane e lavoro". Nell'invocazione e nell'esaltazione del pane ci sono un mondo intero e tutta una simbologia che non sono più correnti; risalgono ad una povertà nera che voleva pane, non telefonini di IV generazione. Ad una povertà che non aveva bisogno di lottare per l' "acqua bene comune", perché andava alla fontana in piazza. Ad una povertà di poveri elementari e di emigrazione, come quella di chi monta sui barconi. Si prendeva allora uno scalpello e un martello e si picchiava il pane sulla pietra dura, in modo che nessuno potesse mai cancellare quel che c'era scritto; non avesse a essere che certi tempi tornassero. 

Più in là, probabilmente la stessa mano ha inciso un'altra pietra:

 
Si legge,  a dire il vero, molto peggio di quell'altra; il calpestio la deve aver consumata maggiormente per qualche ragione che sia, sebbene sia a pochi centimetri di distanza da quella del pane. C'è scritto: W Bartali. Fra Bartali e Coppi, secondo me è naturale che Sant'Ilario tifasse per il secondo, e non solo perché era toscano. Troppo lontano e troppo "moderno", Fausto Coppi. Troppo libertino e miscredente per dei paesi di pietre e pane. Poi è andata a finire che la più bella canzone su Bartali l'ha scritta un piemontese come Coppi, però.

Salire in bicicletta a Sant'Ilario e San Piero era normale; avercela anzi, la bicicletta. Le strade erano tutte sterrate, anche quelle principali. Mi capita di vedere spesso, oggigiorno, forestieri che arrancano su per quelle pettàte, ché pettàte sono e serie, bardati come se fossero al Giro di Francia e con biciclette che devono costare ben più di una Dacia Logan; e m'immagino le biciclette di allora, che la gente si faceva da sola con gli scarti e coi rottami. E ci saliva su, dato che la sola alternativa erano i piedi. Fatica, fatica quotidiana. Come il pane. Per questo le due scritte sono così vicine; per questo, credo, lo sport del ciclismo non riesce a morire anche se è diventato quel che è diventato. 

Le due pietre incise si trovano in una strada dedicata a questo signore qua sotto:

  

Già, Pietro Gori. Proprio lui: l'anarchico santo (o il santo anarchico). Era nato a Messina per sbaglio, da un pezzo di famiglia elbana e proprio di Sant'Ilario; a Sant'Ilario tornava quando non era in galera e in esilio; all'Elba è morto l'otto di gennaio del 1911. Nel 1974, a più di sessant'anni dalla sua morte, due ricercatori milanesi stettero mesi all'Elba per indagare sulla memoria che aveva lasciato nei vecchi (era vivo ancora qualcuno che lo aveva addirittura conosciuto di persona); va da sé che Pietro Gori aveva assunto dei caratteri pienamente religiosi, del resto perfettamente connaturati con la sua Anarchia assolutamente mistica (e sottolineata persino dalla castità). Inutile dire che la speranza, del tutto malcelata, dei due ricercatori era di trovare qualcuno che attribuisse a Pietro Gori un miracolo; non fu così, ma il modo in cui Pietro Gori era ricordato all'Elba atteneva alla santità. Non a caso Via Pietro Gori, già via dei Forni, mena diritta alla piazza della Chiesa. Non a caso reca le pietre del pane e delle ruote.

mercoledì 16 ottobre 2013

La chiesa che bruca



Facciazza ieri e facciazza oggi; si vede che in questi giorni ci avrò un rigurgito faccista, sia pure in modo del tutto autosufficiente dal magico mondo di Zuckerberg. Qui mi si vede qualche giorno fa alla "Vetrina Anarchica" di Firenze, a capello sciòrto, sigariglio in bocca e con una maglietta presa proprio un par d'anni prima alla medesima Vetrina. Dice, in modo decisamente brutale, che L'unica chiesa che illumina è quella che brucia; del resto, bisogna pensare (con un ragionamento abbastanza elementare, peraltro) che, nella storia, ne ha bruciati ben di più la Chiesa di quanto sia stata bruciata lei. Per un gioco di pieghe della maglietta e di angolazione dell'inquadratura, però, la "i" di "brucia" è stata nascosta; così è diventata la "chiesa che bruca". Beh, come dire: difficile farla alla Chiesa Cattolica, mi sa. Uno che già non si fa fotografare parecchio si decide finalmente a slegarsi i capelli e a sfoggiare la maglietta ferocemente anticlericale, e zàc: una pieghetta ed ecco che dai roghi si passa alle pecorelle al pascolo, alla missione pastorale, alla mitezza e a quant'altro. E non si scampa: anche se si prende il verbo brucare nel senso tipicamente toscano, si passa all'ulivo e alla sua simbologia ("brucare le ulive" vuol dire pettinare i rami durante la raccolta), con tutto quel che ne consegue. E così la solforosità si tramuta in ecumenismo; ben mi sta e piglia e porta a casa. Volevo fare il bischero, e mi ritrovo praticamente con addosso la maglietta di papa Francesco. Unica, ma non lieve consolazione, è l'autrice della foto: la Pralina Tuttifrutti, che con decisione seminale e alla vigilia di una sua possibile e definitiva partenza dalla città di Firenze, vorrei salutare e abbracciare in sé e per sé, come persona e come amica, e non soltanto come la compagna di Horst Fantazzini. Con questa premessa, che è anche conclusione, la chiesa sulla maglietta può pure brucare; senza dimenticare che, da qualche tempo fa in Valsusa, anche dare di pecorella può portare a dei guai piuttosto seri.

martedì 15 ottobre 2013

Isola d'Elba, 14 ottobre 2013



Sarò perdonato (e se poi non lo sarò, chissenefrega) se, in questi giorni d'ottobre oramai inoltrato non ero a Roma a difendere la Costituzione, "sana e robusta" come titolava il "Manifesto - Quotidiano Comunista" (ah ah ah!). Il fatto gli è che, con la loro "Costituzione", per me ci si possono anche pulire il culo fare la birra, questi signori qua che, con un semplice cambio di sillaba iniziale, si troverebbero assai meglio a difendere la Prostituzione; la morte loro. E anche la loro "repubblica" (sia lo stato, che il giornale), il loro "lavoro", la loro "legalità" e tutto il resto. Si accomodino. A dire il vero, sabato 12 ottobre all'Elba era un po' nuvolo; un paio di giorni dopo, invece, si poteva tranquillamente fare il bagno e l'acqua non era nemmeno quel granché di diaccio; indi per cui, in tutta la mia smajante bruttezza e col mio fisico da urlo (di raccapriccio), me' so buttato a mare dedicando sentitamente un bras d'honneur a parecchia gente, e anche alla "crisi", ai guai, alle costituzioni, alle repubbliche, ai quotidiani "comunisti", alle galere, alle repressioni, alle famije che nun cia'a' fanno, ai nazisti morti, alle larghe intese, alle decadenze da senatore e a tutto il resto. Anche perché quel che si vede nella foto sopra deve essere accompagnato dalle foto sotto:



Ecco qua: una spiaggia d'ottobre completamente vuota alle tre del pomeriggio. Del tutto priva di Prodotto Interno Lordo. Assolutamente indifferente all'Economia reale, e anche a quella irreale che vi sta schiacciando a tutti quanti, babbei. Con un mare sovrano e maestosamente calmo. E pensare che c'è chi si suicida; io, invece, piglio un traghetto senza nemmeno sapere se avrò i soldi per tornare indietro. Homme libre, toujours tu chériras la mer...

mercoledì 9 ottobre 2013

Il volo


Stasera una ragazzina di 12 anni si è buttata dalla finestra, a Firenze. Un volo di dieci metri, gravissima all'ospedale. Il motivo: un rimprovero della madre perché non aveva finito i “compiti di matematica”.

Non è matematica, quella. La matematica è creazione, è inventiva, è poesia. Quella è, come tutte le altre cose, mercato. Non è lingua inglese o francese quella che ti sparano addosso senza costrutto, non mettendoti in grado di chiedere neppure del cesso in Inghilterra o in Francia. Non è letteratura italiana, la letteratura italiana ha dei segreti senza fondo che ti verranno sempre tenuti nascosti. Non è scienza, non è conoscenza, non è niente. E' soltanto macello cui dovresti rispondere con la ribellione, ché la ribellione viene meglio a dodici anni che a cinquanta.

Ma, certamente, c'è la famiglia. La tua piccola galera quotidiana, come il panaccio del Paternoster. C'è la mamma che, a dodici anni, covava in sé un infantile bisogno di scappare, non appena percepito, seppur vagamente, il fardello di merde secolari, millenarie, universali recate in sé dall'istituzione primaria e intoccabile. Si legge che i genitori, alias trombatori ad uso riproduzione dell'orripilante razza umana, siano disperati. Ah ah ah. Creperai, forse, ragazzina dodicenne, per un compito di matematica. Avrai intuito, sia pure per un milionesimo di secondo, l'assurdità dell'imposizione, di qualsivoglia imposizione.

Ci sono delle serate in cui si rimpiange di non essere un valente portiere. Di non essere stato là sotto a quella finestra di famiglia, dieci metri sotto, e di non averti parata, ragazzina unica e irripetibile. E di non averti presa e portata via per farti vedere una via differente, senza galere e matematiche inesistenti. Di non avere acchiappato al volo il tuo sorriso e averlo incamminato su stradacce erte e petrose, come erta e petrosa è ogni conoscenza che promana dalla consapevolezza.

Ché niente sta nelle finte regole cui devi sottostare, e che si riproducono e si rincorrono in una tremenda sarabanda di convenzioni e di autorità assolute. Senza che io ti consideri minimamente “figlia”, ma mia uguale e sodale; senza gerarchie, senza sangui costringenti, senza prigioni quotidiane, senza orari e senza bandiere. E senza definizioni.

Stroncare la famiglia come si dovrebbe stroncare la finta conoscenza, la cultura fatta di schifose nozioni da quiz televisivo. Insegnare vuol dire trasmettere la libertà assoluta di pensare, vuol dire giocare come se il gioco fosse profondità dell'essere, e come se essere in profondo fosse giocare. Lo vedi che cosa ha significato: gettarsi nel vuoto, un breve e libero volo prima del selciato.

Ma tu vivrai, vero? Non può, non può finire così. Anzi, tutto deve incominciare. Bisogna scardinare tutto, bambina mia. Hai quell'età in cui lo scardinamento è vita, in cui la mammina che ti rimprovera obbedendo a melme cui non ha saputo opporsi e che intende darti un'educazione senza sapere nemmeno da lontano che cosa significhi elevarsi da pecora a pensiero fondante e elèutero si rivela come misero strumento di oppressione non diverso dal carceriere e, en resumidas cuentas, dal boia, in cui ti si affaccia la morte che, da meravigliosa sorella qual è al di là del deleterio e spiccio francescanesimo di cartapesta, ti orienta a bivi di vita.

Rifiuterai gli ingranaggi.

Il pericolo è che tua figlia, un giorno, se ne avrai una, ricada da quella finestra. Non sottostare al lager della famiglia. Lascia evolvere la tua vita. Scappa. Non avere mai maestri, ma compagni e compagne. Forza ogni lucchetto, ogni gabbia, ogni destino precotto. La biologia dell'uovo e dello sperma ti frega ogni istante che vivi. La tua matematica sia appresa dall'osservazione senza confini, i tuoi padri veri sono Euclide, Eulero, l'adolescente Étienne Galois. Le tue stelle si confrontino con Galileo in persona, di meno non vali. Le tue parole si formino dal magma indistinto che hai dentro e che si attiva soltanto con la libertà assoluta e immediata fin dalla tua nascita da un corpo che si dovrebbe guadagnare nei fatti la qualifica di vivizie e di progenie, e non per decreto istituzionale.

Tu puoi cambiare il mondo, puoi invertire la rotta tracciata che ha inghiottito quel povero essere che ora si dispera. E' tutto falso. Ha servito come serva di qualcosa che non capisce, tua madre. Che si fotta, lei e la sua disperazione. Lo vada a fare lei, il compito di matematica. Calcoli la velocità accelerata con cui sei caduta al suolo, obbediente pedissequa alla schiavitù predeterminata.

Stanotte c'è un filo senza fine. Nella pioggia che è caduta, nelle stelle che si son fatte strada. Nelle biglie che rotolano e schizzano, nell'angiporto dei tuoi sguardi voltaici, nell'inizio e nella fine, nel sonno che genera insottomissione al posto dei mostri, nel Peter Pan che è foriero di scienza, nelle sbarre che crollano sotto i colpi, implacabili, della ribellione.

Auguri, ragazza mia. Auguri, dodicenne mia pari e complice.
Ti voglio un libero bene.
Ti spiegherei come una favola quel che so.
Quel che non so, lo creerei per te.
Mi spiegheresti come una favola quel che sai.
Quel che non sai, lo creeresti per me.

martedì 8 ottobre 2013

Ma vattinn'



Il mondo di Roberto Saviano, come oramai dovrebbe essere noto a tutti, ruota interamente attorno a Roberto Saviano anche se, più esattamente, si dovrebbe parlare di Universo. Roberto Saviano è il perseguitato più presente (e presenzialista) della storia. Uno legge quella parola, "perseguitato", e s'immagina oscuri antri, Pinocchio inseguito dagli assassini, l'attenzione estrema a non lasciare nessuna traccia; Roberto Saviano ha totalmente ribaltato questa immagine. Lui incarna praticamente tutto: il futuro, la speranza, l'impegno civico, la resistenza e l'autentica mozzarella di bufala. Le pagine dei ringraziamenti dei suoi libri sono oramai più vaste di un sacrario militare; ha ringraziato le più sconosciute forze dell'ordine e magistrature della Terra, dai poliziotti campestri kazaki alla procura della Repubblica di Asunción. Altrettanto vaste le sue figure di merda, come quella con la madre di Peppino Impastato; ma non è niente di fronte alla sua Divinità. Roberto Saviano è ovunque; mentre sta a Zuccotti Park è anche al processo dei Casalesi, e mentre sta al processo dei Casalesi è anche da Fabio Fazio, e mentre è da Fabio Fazio sta anche spiegando la Costituzione a' bambini, e mentre spiega la Costituzione a' bambini è pure in copertina di Vanity Fair.

Il prodotto "Roberto Saviano", giusto giusto a un processo di Casalesi in corso questi giorni, ha finalmente espresso la sua volontà di abbandonare definitivamente l'Italia con una "nuova identità", per poter finalmente "vivere la sua vita" (con tutti i soldini che deve aver guadagnato, è senz'altro un'aspirazione legittima). Mi sia permesso, però, dubitare fortemente di tutto questo. Il cambio di identità a fini di protezione è una faccenda parecchio complicata; comporta una reale sparizione, una nuova vita, la cancellazione pressoché totale del proprio passato e dei propri legami. in un altro luogo e, forse, addrittura in un altro tempo. Mi viene a mente il caso del rappresentante di commercio che assistette all'omicidio del giudice Livatino, fornendo la sua testimonianza: di lui non si è saputo assolutamente più niente. Lui soltanto sa, chissà dove, che un tempo si chiamava con un altro nome, che ha avuto una famiglia e un lavoro, e che è come morto. Ce lo vedete, Roberto Saviano? Lui rinunciare alla sua immagine così fotogenica, da copertina? Non potrebbe più presentarsi da Fabio Fazio. Dovrebbe, lontano da tutto, vivere realmente una vita "normale" con una diversa identità; rientrare, e definitivamente, nell'anonimato. Mi viene, praticamente, da ridere. Roberto Saviano ha bisogno dei Casalesi come il pane, si tratta di una simbiosi. In un momento in cui l'attenzione sul suo Prodotto si è allentata, è bastato paventare la sua definitiva dipartita dall'Italia per scatenare il coro di solidarietà e, ovviamente, gli articoli di Repubblica.

Ma come sarebbe un Roberto Saviano anonimo, in un paese lontano? La sua immagine è oramai fissata nell'immaginario collettivo, e non sarebbe quindi un giochetto da ragazzi. Quelle che seguono sono alcune possibilità:


1. Roberto Saviano con una nuova identità nella Repubblica del Nepal
(da dove alcuni intrepidi viaggiatori sono tornati parlando di
uno strano "Abominevole uomo delle nevi" con accento napoletano).

 
2. Roberto Saviano con una nuova identità in Australia durante un 
corso intensivo di lancio del boomerang. Si è lasciato sfuggire,
durante una segretissima intervista a "Ragazza In":
"Erano meglio i Casalesi".


3. Hróðbertur Sávjánsson hinn Sterki, la nuova identità vichinga di
Roberto Saviano nell'estremo nord della Norvegia.
In un'intervista esclusiva a "Miracoli" (in vendita a solo 1 euro!),
ha mostrato la sua perfetta padronanza della lingua norrena
esclamando: "Maronn' ! Teng' nu' fridd'..."


4. Infine, la nuova identità che ha palesemente più soddisfatto le aspirazioni
di Roberto Saviano: Dio.
 

domenica 6 ottobre 2013

È morto Võ



Post pedante e didascalico. Siete avvertit*.

È morto il generale Võ, capo dei Việt Minh e dell'Esercito Popolare Vietnamita. Aveva centodue anni (almeno così si dice, dato che la sua reale data di nascita -fissata per convenzione al 25 agosto 1911- non è in realtà per nulla certa). In tutto il mondo stanno dicendo che è morto tale "generale Giáp", ma sarebbe come dire che è morto il generale Piero o il generale Giacomo; secondo le regole dell'onomastica vietnamita (che ricalcano quelle cinesi), infatti, il cognome (o nome di famiglia) viene al primo posto. Nel nome Võ Nguyên Giáp, quindi, "Võ" è il cognome, "Nguyên" è il secondo nome o "tribale" (comunissimo in Vietnam) e "Giáp" è il nome dato, il given name. Funziona esattamente come in "Mao Tse Tung": "Mao" è il nome di famiglia, e infatti tutto il mondo lo chiama giustamente "Mao"; con il generale vietnamita, invece, sarebbe come se qualcuno dicesse "Tung" per chiamare Mao. Il grande timoniere Tung, o il libretto rosso del presidente Tung, insomma. Cose strane, ma -naturalmente- Giáp è Giáp rimane. La "á" su "Giáp" indica uno dei sei toni del vietnamita standard: esattamente quello ascendente.

Il vietnamita si scrive con l'alfabeto latino (integrato da una miriade di segnetti) oramai da diversi secoli: tutto è dovuto ai missionari europei, in particolare francesi, portoghesi e italiani. Ai portoghesi, naturalmente, è dovuta la grafia "nh": Hồ Chí Minh ("Ho che illumina") funziona come il portoghese minho. Agli italiani è dovuta invece proprio la grafia di Giáp, con quel "gi" che, un tempo, si pronunciava proprio come in "Giappone". Poi la pronuncia si è evoluta e modificata: attualmente si pronuncia "z". Si dovrebbe, quindi, dire "Záp". Capisco però che è un po' troppo. Già si dovrebbe parlare del generale Võ, il generale Záp provocherebbe in molti delle autentiche crisi di identità e, forse, di rigetto. Tanto più nel paese dei Carefré salvaslip, del dentifrico Colgàte e del detersivo Tìde. Saluti e buonanotte, sapendo che vi sto mandando a letto più consapevoli.

Nota a margine. In vietnamita, Mao Tse Tung è Mao Trạch Đông. Niente in confronto al Vahcuengh, importante lingua parlata in Cina, dove è Mauz Cwzdungh. L'ho imparato dalla Wikipedia in Vahcuengh, che del resto si chiama Veizgiek Bakgoh.



giovedì 3 ottobre 2013

Parbuckling



Ho come la vaga impressione che, a Lampedusa, non ci sarà nessuna operazione di parbuckling. E che non se ne continuerà a parlare a distanza di anni. La legge per vietare gli “inchini” l'hanno fatta subito dopo la grande impresa del comandante Schettino, mentre un po' più in giù si continua ad applicare la Bossi-Fini. Si arrestano gli “scafisti”, ma non ci si interroga nemmeno un po' perché gli scafisti esistono. Eppure dovrebbe essere chiaro: esistono perché niente consente alle persone di immigrare legalmente. Esistono perché la clandestinità è un business. Esistono per il profitto. Pare che, negli ultimi anni, nel Mediterraneo siano morti circa 6000 immigrati, seimila; e viene il sospetto che quelli di oggi facciano notizia solo perché la cosa è avvenuta a cinquecento metri dalla riva e non al largo. Perché i cadaveri sono stati allineati coi teli sopra e sono diventati immagini; diverso è quando tutto accade in mezzo al mare e le persone sono inghiottite dagli abissi. Così possono restare cadaveri invisibili, diventano quasi leggendari. Oggi, nessuna leggenda. Si tocca con mano tutto quanto. Si possono mettere finalmente in moto i cordogli, i lutti nazionali, i tweet del papa, i sindaci in lacrime, le guardie costiere, i ministri, i leghisti, i blog. 

Restano masse di senzanome. Al Giglio cercano ancora due dispersi con nome e cognome, che per questo restano e resteranno persone; a Lampedusa, e in tutto il Mediterraneo, si ragiona esclusivamente per provenienza: “somali”, “siriani”. E, naturalmente, per “donne incinte” e per “bambini”; le donne incinte e i bambini fra i morti hanno, praticamente, la stessa funzione dei pupazzetti di pelouche fotografati tra le macerie dei terremoti o dopo la disastrosa alluvione. Naturalmente, oggi, ci sentiamo tutti quanti “colpiti”, tutti quanti “commossi” nell'attesa della partita di coppa UEFA. Nel profondo dell'animo di molti, si tirano anche dei gran sospiri di sollievo: due o trecento immigrati in meno. Non importa nemmeno “ributtarli a mare”, il mare ci pensa da solo. Il tizio che, solo ieri, era protagonista della telenovela istituzionale di palazzo, oggi si mette gli abiti di ministro e i lutti colmi di fermezza e vola a Lampedusa; a fare che cosa? Non si capisce. Si capirebbe meglio se, una buona volta, ci decidessimo a prendere uno di quei barconi malandati e a infilarceli sopra loro, tutti quanti, destinazione di sola andata per la Somalia. 

 I morti, sì. Sembra che ci siano anche centocinquanta superstiti, attesi dai CIE. Attesi da razzismi, da odio, da indifferenza. Anche sull' “emozione” che ci prende non ci giurerei affatto; si vedono dei teli e dei lenzuoli, magari si percepisce che sotto c'è il corpo morto di qualcuno ma, in realtà, non ce ne importa assolutamente nulla. Figuriamoci, poi, se si fanno ragionamenti sul profitto, sul capitale e quant'altro; al massimo si chiedono “aiuti all'Europa”, aiuti per continuare a fare gli sbirri alle frontiere dell'Impero. E quelli che ce la fanno a passare senza finire in mare? Rosarno. Pomodori. Capitanate e Agri Domiziani. Ma, tanto, sono sempre gli stessi discorsi. 

Dunque accettiamo di dover constatare la morte di massa che, del resto, è già pronta per una rapidissima rimozione. Mica stiamo a Lampedusa; mica sbarcano a Marina di Pisa o a Lignano Sabbiadoro. In fondo, le “tragedie” come quelle di oggi sono dai più percepite come una sorta di selezione naturale; e chi se ne frega. Fossa comune. Logiche necessarie. Inevitabili. Certi paesi servono solo a tirar su materie prime, a vendere armi e a esercitare strategie; ciò ha peraltro, di fatto, eliminato il pericolo di una “guerra globale”. Non ce n'è nessun bisogno, ci sono le valvole di sfogo di turno, e chi vi abita, beh, sculo loro. C'è sempre un bel barcone che li aspetta. Ci sono le Bossi-Fini italiane come ci sono quelle australiane. Ci sono le Albe Dorate che ti accoltellano, e ci sono le Leghe che proteggono Trecate e Pieve di Cadore dagli sbarchi. E, naturalmente, c'è il mare. Ti avvicini a fare un inchino alla terra promessa, e non importa nemmeno la manovra sbagliata del comandante imbecille: basta il tuo peso a far rovesciare l'imbarcazione. Puoi scegliere tra il lager o il telo, tra il diventare carne da sicurezza o carne da cordogli. Tra Alfano in elicottero o i tweet del papa.

martedì 1 ottobre 2013

A Mikis Theodorakis (nientepopodimeno).



La seguente è -addirittura- una risposta a Mikis Theodorakis a proposito delle sue affermazioni del 28 settembre scorso, in relazione all'assassinio del rapper antifascista Pavlos Fyssas e del susseguente arresto dei vertici di Alba Dorata. L'immagine sotto il titolo è un disegno originale di Gian Piero Testa, la cui spiegazione si trova qui.

Ma sì che lo sapevano, Mikis. E lo sapevi benissimo anche tu, che in parlamento ci sei stato chissà quanto tempo; potrai essere morto politicamente, ma mi rifiuto di credere che, alla tua veneranda età, tu faccia il finto tonto. Naturalmente non è così; ancor più naturalmente, la tua, è una domanda retorica.

Lo sapevano benissimo con chi stavano nel “parlamento”, anzi, nella βουλή. Quella bellissima parola ellenica, che alla lettera significa “volontà”; imparentata persino etimologicamente, in modo esatto, col nostro verbo volere. E, infatti, si tratta di una volontà ben precisa; e, soprattutto, di un comodo ben preciso.

Ora, tutto può essere al mondo, Mikis, fuorché tu non conosca i fascisti. Non starò a ripercorrere la tua vita, i tuoi campi di concentramento, i tuoi esili. Nella Grecia del 1967 i fascisti facevano un gran comodo, come lo hanno sempre fatto quando ci sono un po' di cose da rimettere a posto alla svelta e senza tanti complimenti. Sono fatti per questo, no? Sono nati per questo, e c'è chi li ha fatti nascere per questo.

Si chiama capitale, si chiama possesso, si chiama industriale o si chiama agrario. Si chiama finanza, si chiama cannoni, si chiama aeroplani, si chiama Krupp o si chiama Fiat. Si chiama “nazionalismo”, si chiama “liberalismo” e, non di rado, si chiama anche “democrazia”.

Il resto, sono i necessari condimenti, quelli che servono per ottenere il consenso. Un tempo possono essere consistiti in colonie, in “imperi”, in “tradizioni”, in “religioni”; adesso consistono prevalentemente, questi condimenti, in “stranieri”, in “sicurezza”, in “valori”, in “famiglia”. Ma ce ne sono infiniti altri, ad libitum.

Come dici giustamente, Mikis, perché la “sfilata si svegliasse” c'è voluto che ammazzassero “un ragazzo” che non resuscita. Dici giustamente che il ragazzo ha avuto bisogno d'essere greco; le decine, le centinaia di immigrati assaltati, massacrati e, in alcuni casi, uccisi dai fascisti di Alba Dorata non avevano fatto svegliare nessuna sfilata. Cerchi, sicuramente, di stare sulla terra anche se ti definisci un “morto” mentre un'organizzazione nazista si prendeva la Grecia aiutata dalla sua filiale, quella cosa che va sotto il nome di “Polizia”.

Cerchi di stare sulla terra, perché sono cose, queste, che hai già viste e pagate carissime. Il “sangue greco”? Eri in quella piazza il 20 luglio 1965, sì un venti di luglio, quando la polizia greca imbottita di fascisti ora come allora ammazzava un altro ragazzo, Sotiris Petroulas. In una piazza che si chiama “dei Giuliani”, pensa un po'. Ci scrivesti sopra anche una famosa canzone. Ma questi ragazzi morti non li hanno fermati. Non li ha fermati Alexis Grigoropoulos. Non li ha fermati nessuno.

Mikis Theodorakis: Canzone per Sotiris Petroulas (Τραγούδι Σωτήρη Πέτρουλα).
Interpretazione di Maria Farandouri.

E non li ha fermati nessuno perché sono gli organizzatori della violenza al servizio del potere. Il suo strumento più utile. Intimidire la gente. Creare un clima di incertezza per prospettare “soluzioni” di forza (la cosiddetta “sicurezza”). Legami precisi non soltanto con la Polizia, ma con le autorità investigative e coi Servizi. E che ti sto a dire, Mikis Theodorakis? Faccio solo il punto, da persona del mio paese, che ha visto tutte queste cose, bagnate dal sangue delle banche agricole, dei treni popolari, delle piazze.

E ti domandi, Mikis, se costoro “non sapevano” con chi sedevano nel parlamento? Sedevano coi loro sodali. Perché Alba Dorata faceva esattamente il suo comodo proprio alla “democrazia”, a quella cosa di cui il parlamento dici essere il Tempio. Ο ναός in greco, altra solenne parola e antichissima.

Come ogni partito nazifascista, Alba Dorata opera a favore del sistema. Nel “parlamento”, o “tempio della democrazia”, vota regolarmente a favore di armatori, banchieri e potentati finanziari; nella società, invece, si presenta come partito “anti-sistema”. E che è, forse, qualcosa di nuovo? Il fascismo è nato così, e così è stato ovunque perché non può essere altro che lo strumento più duro e autoritario del capitale. “Il nazionalsocialismo ha liberato l’operaio tedesco dalla morsa di un dogma, quello comunista, che era fondamentalmente ostile sia al datore di lavoro che al lavoratore. Adolf Hitler ha restituito l’operaio alla sua nazione. Lo ha trasformato in un disciplinato soldato del lavoro e quindi in un nostro compagno”. Lo affermava, nel 1934, l'industriale tedesco Alfred Krupp. 

Alba Dorata è finanziata dall'imprenditoria greca. E c'è un ministro in Grecia, tale Nikos Dendias, che fino a pochi giorni fa si inalberava contro chiunque rivelasse i legami tra Alba Dorata, la Polizia e i corpi di Sicurezza. Escludeva categoricamente, il signor ministro, che la Polizia compisse attacchi a sfondo razziale; minacciava, sempre il signor ministro, il giornale inglese Guardian per un articolo dedicato a tutto ciò. All'improvviso, il signor Dendias fa una conversione a U: si sveglia una mattina e fa mettere in galera mezza Alba Dorata, ivi compreso il Führer, Michaloliakos. 

E si sospetta allora, in modo esageratamente preciso, il gioco di potere. Prima si inventa la favola, e poi la si fa terminare per diventarne gli eroi. Dopo il “sangue greco” versato (quello pakistano o di altri paesi del genere, Mikis, ti sei già accorto da solo che conta poco o nulla) si mettono su gli arresti in pompa magna, con tanto di “Stato che risponde” e di “Democrazia salda”, provocando la reazione dell'Alba Dorata perseguitata. E così ci saranno altri scontri, e scorrerà altro sangue in base sia a decisioni prese a tavolino, sia in base alla realtà contingente. 

Continuerai allora a chiederti, Mikis Theodorakis, come mai “accettavano di sedere nel Tempio della Democrazia assieme a simili rifiuti”? Lo accettavano, semplicemente, perché Alba Dorata è un'utile componente del sistema, del loro stesso sistema. I fascisti sono sempre stati, e sempre saranno, una componente dello Stato, e ne fanno pienamente parte. Di converso, lo Stato considera i fascisti dei suoi rappresentanti assai dinamici, oltre che uno strumento facile da utilizzare. Lo si è visto fin dalla nascita del fascismo. Ovunque si sia manifestato, i suoi modus operandi sono stati pressoché identici, come identici sono stati i suoi finanziatori più o meno occulti. 
La “sfilata” non si è svegliata, probabilmente, neppure per il “sangue greco” del rapper antifascista Pavlos Fyssas. “Killah P” è stato preso al volo, in un momento in cui Alba Dorata veniva accreditata del 12% dei voti nei sondaggi, ed in cui l'erosione dell'elettorato conservatore stava facendosi assai preoccupante per “Nuova Democrazia”; la creazione di nuova paura ha funzionato benissimo, e chi ha votato per i nazisti nell'infinita devastazione greca, tornerà in gran parte all'ovile. Non soltanto: la paura è servita a rendere i cittadini ancor più conservatori.


Lo Stato, con tutte le sue istituzioni, non “accetta” i fascisti. Non c'è nessun bisogno che li “accetti”, e sedersi accanto a loro nel parlamento è del tutto normale. Nel parlamento italiano nessuno ha mai avuto problemi a sedersi accanto a torturatori e assassini fascisti; qualcuno magari si ricorderà, che so io, dell'onorevole Sandro Saccucci. Nell'attuale parlamento italiano siede una Mussolini (mentre in quello tedesco non siede una Hitler, va detto). I fascisti non sono “accettati”: sono parte integrante, e necessaria, del sistema istituzionale statale. Fanno il gioco sporco, e a volte capita che li buttino -per finta- nella spazzatura; ma sono sempre lì, pronti alla bisogna.


Credo, Mikis Theodorakis, che questo andasse, seppur sommariamente, detto prima del tuo ben giustificato e sdegnato ritorno nella tomba. Gradirei però che in una tomba, non soltanto politica, ci finissero quei luridi topi di fogna assieme a tutti coloro che li foraggiano, finanziano, sostengono.

Con deferenza, RV.