giovedì 31 maggio 2012

A yemma a kem-ǧǧeɣ



A me, devo dirlo, Bella ciao non è mai piaciuta granché. E' il canto fatto apposta per mettere d'accordo, lo si potrebbe chiamare il primo "inno della coesione". Inoltre, durante la guerra partigiana non veniva cantato affatto dai partigiani, che avevano in bocca ben altre cose ("Fischia il vento", in primis; ma anche "Insorgiamo", "Il bersagliere ha cento penne" ed altri). Però, almeno in una versione mi piace. E parecchio. Solo che non è cantata in italiano, ma in cabilo. O meglio: le prime due strofe sono cantate in italiano, e poi il resto in cabilo.

Il cabilo è un linguaggio berbero. Storicamente, la denominazione di "berbero" ha la stessa origine di "barbaro": significa, in pratica, "estraneo, incomprensibile". I dialetti berberi non sono arabi, e sono assai precedenti all'espansione araba nel Nordafrica. Addirittura, i romanisti (intesi come "studiosi delle lingue neolatine", non i tifosi della Roma) pregiano i dialetti berberi perché hanno mantenuto alcuni prestiti latini antichissimi, persi del tutto nelle lingue moderne (la stessa cosa accade, in misura anche maggiore, nel basco, o euskara). Ad esempio, il latino siliqua ("fava", "baccello") è passato nel berbero thasliuγa, con lo stesso significato (tha- è un prefisso che indica il genere femminile, quindi il confronto deve essere fatto col secondo elemento). Così ancora cicer "cece" ha dato in berbero akîker (o ikîker); porrigo "tigna; forfora", sconosciuto nel dominio linguistico romanzo, ha dato tfûriγ, e così via. Come si vede, non si tratta certamente di lessico "elevato": si tratta di prestiti del tutto inerenti alla civiltà contadina, risalenti all'epoca dell'Africa romana.

Il berbero non si scrive con l'alfabeto arabo. O meglio: lo si può fare, anche perché in generale i berberi (cabili e di altre componenti) sono fedeli musulmani e, in massima parte, conoscono l'arabo. Ma, adesso, lo si scrive con un alfabeto latino modificato (integrato, cioè, con diacritici ed alcune lettere greche). Oppure con l'alfabeto tifinaγ, usato perlopiù dai Tuareg. I Tuareg sono un popolo berbero. L'alfabeto tifinaγ è autoctono e non ha relazione con nessun altro al mondo. 

Bella ciao in cabilo l'ha tradotta, e la canta, Ferhat Mehenni. Se state leggendo questo post, vi suggerisco di dare almeno un'occhiata all'articolo Wikipedia lincato (ho deciso di non scrivere più "lincare" con la "k" perché le "k" mi hanno rotto i coglioni).

Il 19 giugno 2004 il figlio di Ferhat Mehenni, Ameziane, è stato assassinato a Parigi. Accoltellato per strada. Se avete letto l'articolo Wikipedia, non vi stupirete del fatto che i suoi assassini non sono mai stati trovati, e che il caso è stato rapidamente archiviato.

Al funerale di suo figlio, Ferhat Mehenni ha cantato la sua versione cabila di "Bella Ciao". La quale è un po' diversa da quella italiana. Sia come testo, sia come spirito. Per essere ancora più chiaro, non è la stessa cosa sentirla in cabilo da un combattente che onora suo figlio ucciso, e sentirla ad esempio da Walter Veltroni.

Fa così:

Ṣṣbeḥ mi d-nekker igenni yexṣeṛ
A yemma a kem-ǧǧeɣ a kem-ǧǧeɣ a kem-ǧǧeɣ
Ṣṣbeḥ mi d-nekker igenni yexṣeṛ
Aɛdaw yeṛẓa-yaɣ-d tawwurt

A wid t-iqublen ad edduɣ yid-wen
A yemma a kem-ǧǧeɣ a kem-ǧǧeɣ a kem-ǧǧeɣ
A wid t-yettnaɣen ad edduɣ yid-wen
Ula d nek ad mmteɣ f tmurt

Ma ɣliɣ ttlaḥqeɣ d argaz ara mmteɣ
A yemma a kem-ǧǧeɣ a kem-ǧǧeɣ a kem-ǧǧeɣ
Ma ɣliɣ ttlaḥqeɣ d argaz ara mmteɣ
Mḍelt-iyi ger yizmawen

Tamṭelt imennaɣ di taddart-nneɣ
A yemma a kem-ǧǧeɣ a kem-ǧǧeɣ a kem-ǧǧeɣ
Tamṭelt imennaɣ di taddart-nneɣ
Ijeǧǧigen a yi-ttarran tili

Imessebriden m’ aa ttɛaddayen
A yemma a kem-ǧǧeɣ a kem-ǧǧeɣ a kem-ǧǧeɣ
Imessebriden m’ aa tttɛaddayen
A sen ttakeɣ udem laɛli

Dɣa a s-qqaren wi d ijeǧǧigen
A yemma a kem-ǧǧeɣ a kem-ǧǧeɣ a kem-ǧǧeɣ
Dɣa a s-qqaren wi d ijeǧǧigen
N win yeɣlin ɣef tlelli.
In italiano sarebbe:

Una mattina mi son svegliato, il cielo si è oscurato
Mamma addio, addio, addio
Una mattina mi son svegliato, il cielo si è oscurato
Il nemico ci ha sfondato la porta

O voi che gli resistete, io verrò con voi
Mamma addio, addio, addio
O voi che lo combattete, io verrò con voi
Anch’io morrò per la patria

Se cadrò colpito, morrò da uomo
Mamma addio, addio, addio
Se cadrò colpito, morrò da uomo
Seppellitemi tra gli eroi

La sepoltura dei combattenti sarà nel nostro paese
Mamma addio, addio, addio
La sepoltura dei combattenti sarà nel nostro paese
E i fiori mi faranno ombra.

Ed ai viandanti, quando passeranno
Mamma addio, addio, addio
Ed ai viandanti quando passeranno
Presenterò un viso gentile

Allora diranno: questi sono i fiori
Mamma addio, addio, addio
Allora diranno : questi sono i fiori
Di chi è morto per la libertà.

Mi piacerebbe, una volta o l'altra, cantarla così quando mi troverò in mezzo a qualcosa. Oppure che la imparasse a cantare la Fiore Purtroppo, temo che ad entrambi ci si annoderebbe la lingua. 
Però, per me Bella ciao è questa qui.
Salud.

Anadrammi 5


Il futuro di una formazione politica nel suo stesso nome:

LEGA NORD =

DAL NEGRO

La Dal Negro, come molti sapranno, è la principale produttrice di carte da gioco italiana (con sede nella leghistissima Marca Trevigiana).


Non è difficile, infatti, ipotizzare per la formazione padana un futuro a base di lunghe partite a scopone o ramino (e canasta o burraco per le signore), anche se il gioco senz'altro più consigliabile sarebbe senz'altro il rubamazzo.

A tale proposito, si segnala anche che la denominazione LEGA NORD contiene anche tutta la parola LADRONE, anche se avanza una "G" che rende impossibile l'anagramma completo.

mercoledì 30 maggio 2012

С днем рождения, Михайл Алексaндрович! Buon compleanno, Michail Aleksandrovič!



"Ogni individuo umano è il prodotto involontario delle condizioni naturali e sociali in cui è nato e alla cui influenza continua ad essere sottoposto man mano che si sviluppa. Le tre grandi cause di tutta l'immoralità umana sono: la disuguaglianza politica, economica e sociale, l'ignoranza che naturalmente ne risulta e la necessaria conseguenza delle due cause precedenti, e cioè la schiavitù... Di conseguenza, perché la rivoluzione abbia successo è necessario che si rivolga contro la condizione di vita e i beni materiali, che distrugga la proprietà e lo Stato. Diventerà allora superfluo accanirsi contro gli uomini e condannarsi così a soffrire l'inevitabile reazione che ogni massacro ha sempre prodotto e sempre produrrà in qualsiasi società."

Михаил Алекса́ндрович Бакунин 
Michail Aleksandrovič Bakunin 
30 - 5 - 1814 
1 - 7 - 1876

Per Paolo Braschi.
L'immagine e il testo sono mediati da Nutopia 2 [Sergio Falcone & Co.]

La faglia di San Capitale



L'Italia, come si sa, è terra ballerina. Fondamentalmente, non esiste nessuna porzione della Penisola che sia immune da eventi sismici. In Italia si sono avuti terremoti disastrosi, anche con decine di migliaia di morti; per non nominare i soliti, e più vicini, ne voglio ricordare uno lontanissimo, e forse non noto ai più. Il cosiddetto Terremoto della Rotta del 3 gennaio 1117. Riportato nella cronaca di Landolfo Iuniore, quel terremoto, che sconvolse l'intera Italia settentrionale fino alle porte di Pisa, fu avvertito fino a Reims. L'intera Pianura Padana, da Cividale del Friuli fino a Pavia, fu rasa al suolo; fu detto della Rotta perchè cambiò il corso dell'Adige. Il suo epicentro sembra essere stato a Ronco all'Adige, presso Verona; e la città di Verona fu tra le più colpite. La città nel suo aspetto altomedievale fu cancellata; crollò anche una parte dell'Arena, creandone la forma “ad ala” che si vede ancora adesso. La Verona romanica fu in massima parte figlia della ricostruzione dopo quell'evento disastroso; ma colpite in maniera gravissima furono anche Padova, tutta l'area tra Piacenza e l'Appennino Tosco-Emiliano, Milano, Pavia, Bergamo, Treviso, Venezia, Parma, Cremona e Modena. Si ipotizzano, studiando le cronache ed altre testimonianze documentali coeve, circa trentamila morti. Si ebbero violentissime scosse di assestamento per tutto l'anno 1117: il 12 gennaio, il 4 giugno, il 1° luglio, il 1° ottobre e il 30 dicembre. In tutte le città colpite si ebbe poi una ricostruzione frenetica, rapidissima; in definitiva, il Terremoto della Rotta determinò il vero stacco tra l'alto Medioevo e i periodi successivi in tutta l'Italia del Nord, fino alla Toscana; stacco che, nelle strutture storiche di parecchie nostre città, è ancora perfettamente visibile.

Solo per dire che dei terremoti come quello del 20 maggio e di oggi, in Italia, pur essendo naturalmente degli eventi gravi e luttuosi non sono classificabili tra i maggiori, né per quanto riguarda i danni, né la quantità delle vittime. Ho 49 anni, e nell'arco della mia vita, che è ancora breve, ci sono stati i 400 morti del Belice, i 1000 del Friuli, i 3000 dell'Irpinia e i 400 dell'Aquila; oltre a non so quanti terremoti più limitati (Tuscania, Sicilia sudorientale, Umbria/Marche, San Giuliano di Puglia...). Potrei fare in tempo a vedere, in Italia, almeno un paio di altri terremoti veramente catastrofici e cinque o sei come quello di oggi. Però, quello di oggi almeno una peculiarità ce l'ha. O forse no. O forse accade sempre così. Chissà.

Riassumiamo. Il 20 maggio, in una zona definita “poco sismica” (e magari, quindi, con criteri costruttivi e parametri antisismici, diciamo, “allentati” rispetto ad altre zone), batte un terremoto che lascia tutti sbigottiti; figurarsi che, nel 1993, alcuni sismologi riuniti a convegno in quel di Ferrara avevano ammonito che, il 17 novembre 1570, la città era stata colpita da un sisma dell'VIII grado Mercalli che la aveva semidistrutta e provocato circa 200 morti e che, quindi, la zona non era affatto al “riparo storico”, per chiamarlo così. Come in tutti i terremoti superiori ad una certa magnitudo, crollano case, chiese, infrastrutture, monumenti; e crollano capannoni industriali. La zona, infatti, ne è ricca; ha un tessuto economico di tutto rispetto, c'è il polo biomedicale, si ragiona di fatturati misti a madonne e duomi, di imprese miste a castelli e torri. La cosa singolare è che come simboli di tale terremoto (di non eccelsa gravità, torno a dirlo con il rischio di essere preso per il cinico che non sono affatto) vengono presi la torre dell'orologio crollata e l'antico castello, mentre i morti sono quasi tutti nei capannoni venuti giù come fuscelli. A nessuno, chiaro, verrebbe di prendere un capannone industriale come “simbolo”; nel capannone si possono fare solo due cose. Lavorare e crepare. Ci lavorano e ci crepano italiani e stranieri; bisogna mandare avanti la realtà economica, basata sul mercato, sull'imprenditorialità, sulle competenze, sulla qualità, sulla competizione e sulla competitività. Batte il terremoto, una domenica mattina alle quattro; e la domenica mattina alle quattro muoiono degli operai al lavoro. Ma non era il giorno del Signore, la domenica? Quello del riposo? Che ci stanno a fare delle persone a lavorare in una fabbrica di qualcosa una domenica mattina ad ore antelucane?

Eh, certo. C'è da lavorare anche alle quattro di una domenica mattina (magari con la solita storia commovente di quello che sostituiva un collega malato, o qualcosa del genere, e che quindi è morto al posto suo) perché così si deve. Perché sennò i cinesi vincono. Perché sennò i contratti non vengono rispettati. Perché il mercato è spietato. Perché sennò la produzione si arresta e sei fottuto. Perché sennò si delocalizza. Perché sennò la fabbrica chiude, e se chiude si perdono i posti di lavoro. Un sacco di perché, però tutti riconducibili a due parole: società capitalista. E non le uso certamente, queste due parole, per fare il solito sovversivaiuòlo da due blogghi bucati; le uso per una semplice relazione di causa e di effetto. La società così strutturata, basata cioè sulla produzione concorrenziale finalizzata al profitto mediante lo sgobbo “salariato”, ti fa lavorare anche la domenica alle quattro del mattino. Se poi arriva il terremoto, baby, sono affari tuoi. Tu chiamala, se vuoi, scalogna nera.

Qualche ora dopo, mentre si piange sulle rovine della torre e del castello e mentre una gru salva la madonna dai calcinacci, l'imperativo non è mica quello di mettersi un po' al sicuro (vista la quantità di capannoni crollati e visti, soprattutto, i disgraziati che ci sono morti dentro) e di aspettare finché tutto non si sia davvero, prima o poi, calmato; no, bisogna ricominciare subito a lavorare, produrre, sgobbare, concorrere. Altrimenti è la fine, specialmente ora che la società capitalista si sta trastullando col suo divertente balocchino della “crisi”. Altrimenti gli imprenditori suicidi superano le vittime del terremoto. Quindi, via con le “verifiche strutturali” e con l' “agibilità”; e via al lavoro, a macerie ancora fumanti. Al lavoro col terrore che tutto venga giù, e mentre continuano scosse e scossettine di assestamento; ma il terrore di non poter più passare la vita a servire un padrone è molto, molto più forte. Non si può campare la famiglia. Non si può sperare nella famosa “vita migliore”, ottenuta magari arrivando a Ferrara o a Modena da quello stesso Pakistan o da quella stessa India dove il padrone sarebbe pronto anche domani a spostare la sua attività se gli convenisse per la manodopera pagata venti volte di meno. Non si può alimentare all'infinito il meccanismo perverso di un intero mondo. Quindi, caro, vai a lavorare. E subito.

A questo punto, però, là sotto si prepara un altro bello scherzetto. Un altro terremoto, a pochi giorni di distanza. Stavolta un martedì mattina, con le maestranze tutte al lavoro in turno diurno. E giù capannoni, manco fossero fatti di paglia e sputo. Crolla la fabbrica delle porte blindate, perché in questo frangente bisogna blindare tutto, sepolti nella blindatura della paura e della sicurezza; crolla la fabbrica dei componenti elettromedicali; crolla ogni cosa. E stavolta se ne accorgono; qualcuno comincia timidamente a dire che al lavoro non bisognava tornare affatto, che certe verifiche sono state fatte un po' troppo in fretta, che un sacco di cose. Senza, però, andare fino in fondo. Andare fino in fondo significa rendersi conto che il lavoro la domenica mattina alle quattro è normale. Tornare al lavoro tre ore dopo un terremoto è normale. Emigrare dal Pakistan per venire a sgobbare in fabbrica a San Felice sul Panaro è normale. Morire sotto le macerie dei capannoni è normalissimo, come lo è morire nel laminatoio esploso, nella cisterna satura di gas, nel cantiere edile, nella stiva della nave, nel laboratorio al nero, nel camion dopo dodici ore di guida senza fermarsi. Tornare a morire sotto le macerie di altri capannoni è arcinormale. E si ha quindi la ben precisa sensazione che il terremoto, in fondo, sia il minore dei colpevoli. Mentre la faglia di San Capitale è sempre in movimento, e di morti ne fa migliaia al giorno.

martedì 29 maggio 2012

Perché sarebbe meglio che il loro duegiugno e la loro parata militare di merda la dedicassero ai loro coglioni avvizziti.



I terremotati possono dormire (nelle tendopoli, nelle macchine, nelle new towns dell'Aquila, nelle "zone rosse", dovunque) sonni tranquilli. Il Napopresidente ha dichiarato, solennemente come gli compete, che la parata del duegiùgno si svolgerà. "Celebreremo sobriamente il 2 giugno ma lo dedicheremo alla memoria delle vittime, al dolore delle famiglie e anche a momenti di scoramento che devono essere superati. Lo celebreremo perchè la Repubblica deve dare conferma della sua vitalità, forza democratica, serenità e fermezza con cui affronta le sfide".

Ecco. La "sobrietà" e la "dedica". Ma naturalmente. Come dubitarne. In questo bel paesello dove si taglia ogni cosa, a parte le spese militari. A parte le "missioni di pace". A parte l'acquisto dei cacciabombardieri. Ma vi pare che questo bello Stato, così forte, vitale e democratico, rinunci ad autocelebrarsi facendo sfilare tutti i suoi poderosi armamenti, tutte le sue belle truppe in pompa magna e tutta la sua violenta boria? Impossibile, magari imprecando per quello stronzo di terremoto che ha osato battere proprio alla vigilia della festa della repubblica. Una repubblica che, effettivamente, ha la vocazione a fare la festa, specialmente ai suoi concittadini. Però esistono le contromisure anche per i terremoti e per altre calamità; basta una sobria dedica

E, mi chiedo, come sarà una parata militare sobria? Faranno sfilare i modellini degli aerei invece di quelli veri? I carrarmati a molla? Le truppe di assalto in maglietta e pantaloncini? Con le armi giocattolo? Invece delle marce militari suoneranno Papaveri e papere? La Brigata Sassari, così pettoruta, intonerà Diavolettos invece di Dimonios? Vabbè che alla parata del duegiùgno se ne son viste di tutte, tipo il compagno Bevtinòtti che assisteva col distintivo antimilitavista (come dire: andare a vedere un film di Rocco Siffredi col distintivo di Santa Maria Goretti), ma così si oltrepassa persino quel miscuglio di tracotanza e di ridicolo che, del resto, è una delle principali caratteristiche del Napopresidente e della sua Repubblica.

Gli fa eco immediatamente il ministro Profumo, che sobriamente afferma: "Ehhh...ma che ci volete fare...tanto i soldi per la celebrazioni son già stati tutti spesi...eeehh...."; una "dedica alla memoria delle vittime e al dolore delle famiglie", invece, non costa nulla. Marò, come siamo vitali e sereni. E fermi, soprattutto. Mi raccomando il passo dell'oca. Con Papaveri e papere ci azzeccherebbe parecchio. Sarebbe bello che nessuno ci andasse, a quella parata del cazzo. Che tutti se ne restassero a casa. Che li facessero sfilare nel vuoto, che è la cosa che più loro assomiglia. Che li lasciassero spendere i loro sobri quattrini a palate, che poi non sono loro ma nostri, preceduti e seguiti dal niente. Mentre si crolla, si crepa, si paga, si vola giù delle impalcature, e ci si suicida in un'unica, immensa galera.

Il tripaliomoto



Forse, chissà, nelle loro viscere della terra e nelle loro faglie che sbattono anche i terremoti si adeguano a quel che succede su quella determinata porzione di crosta terrestre che vanno a sconvolgere.

Così, per esempio, in una situazione in cui i lavoratori sarebbero già ampiamente terremotati anche senza l'intervento di alcun sommovimento tellurico, ecco che te ne arriva uno che sembra seppellire quasi esclusivamente gente che si trova a lavorare. Operai. Il tripaliomoto.

Capannoni che vengono giù come birilli nel modenese e nel ferrarese, nel polo biomedicale; e lavoratori che ci rimangono sotto. Impalcature edili che fanno la stessa fine, e lavoratori che cadono di sotto; insomma, questa non è una novità, a pensarci bene. Da qualche tempo la cifra degli operai edili, più o meno in nero, che sono volati di sotto si sta avvicinando a quella di un terremoto di ragguardevoli dimensioni. Una "Casamicciola", come dicevano i nostri vecchi a partire dal terremoto che, il 28 luglio 1883, distrusse l'isola d'Ischia il giorno prima che nascesse Benito Mussolini.

Naturalmente sono tutti ragionamenti così alla 'ioboia, sia ben chiaro. L'unica cosa che è chiara è che, in un modo o nell'altro, terremoto o non terremoto, quando si lavora c'è una seria probabilità che si vada a morire.

Ed è un tripaliomoto che colpisce ogni giorno, ma senza nessuna scala di misurazione, senza oscillografi, senza niente.

Poi, ora, ci si mette anche la faglia.

lunedì 28 maggio 2012

Fermata soppressa


La piazza è di una bellezza elegante, misurata, composta. C'era, ieri pomeriggio (ancora caldo e soleggiato, mentre poi, la sera, il tempo è mutato all'improvviso con pioggia e vento gelido), persino il trenino automobile, quello che porta in giro i turisti. Un tizio suonava la fisarmonica, mentre due altri (un uomo e una donna) facevano una specie di performance, raccontando la città e i suoi monumenti ai forestieri in dialetto bresciano. Ce ne stavamo in disparte proprio sotto la Loggia, quella che dà il nome alla piazza; un'atmosfera da sabato pomeriggio, i tavolini dei bar, poca gente. Su un lato della piazza, quello dove s'entra da Piazza Formentone, s'affitta un appartamento a un piano nobile. Dalla Loggia pende un manifesto con una bandiera tricolore che invita a liberare i nostri Marò (i quali vi sono raffigurati); la Loggia è costellata di lapidi di morti. I caduti di tutte le guerre; i partigiani; quelle delle Dieci Giornate. C'è anche, come dubitarne, il "bollettino della vittoria" del generale Diaz, quello che ha dato il suo nome a parecchie scuole (comprese le elementari del Ponte a Mensola, dove sono andato io, e una a Genova sulla quale hanno fatto anche un film); e, addirittura, sempre su una lapide, l'intero testo del decreto con il quale Alcide De Gasperi conferì alla città di Brescia la medaglia d'oro ad un qualche valore, non mi ricordo più se civile o militare, o forse persino tutt'e due. Valore più, valore meno.
 
Attorno al ventotto di maggio, a partire da quasi quarant'anni fa, qualcuno appone uno striscione dove si dice di non dimenticare, sul lato opposto alla Loggia. E' un pezzo della Lombardia veneziana; i palazzo coi portici e la torretta campanaria con l'orologio. Quest'anno, come si legge nello striscione, non dimenticano i pensionati CGIL, CISL e UIL. Nel guardarlo, mi chiedo come mai i "sindacati confederali" vengano nominati, anche per iscritto, sempre in quest'ordine; un vero e proprio mantra, "ciggiellecisleuìlle". Mai, che so io, "uillecisleciggièlle", o "cisleciggieleuìlle". No, si tratta evidentemente di un ordine che rileva della natura divina e, comunque, tale pensiero basta per distrarmi da quello della Camusso, di Bonanni e di Angeletti, e anche dei rispettivi pensionati non dimenticanti. Ci vuole una fotografia, certo; e qui il destino gioca uno scherzetto dei suoi. Dalla piazza passano diverse linee degli autobus urbani; esattamente il 2, il 10, l'11, il 17 e il 18. Curiosamente, mi dico gironzolando attorno alla fermata, il 10 era anche l'autobus che mi portava alla scuola Diaz, e il 17 fa capolinea proprio dietro la casa dove sono nato. In un'altra città, d'accordo; ma che importa. Ora, proprio in quel momento un autobus della linea 2 sosta alla fermata, che dev'essere anche il suo capolinea. Esattamente sotto lo striscione. E, così, i pensionati confederali che non dimenticano si confondono con l'autobus che dice, quasi minaccioso: Io vado a metano, e tu? 


Statti calmo, por favor. Io non vado a metano, me ne guardo bene. Quel che adopero come propellente, poi, saranno o no cazzi miei? Però, penso aggirandomi per la piazza come un perfetto ebete, e con indosso una maglietta rossa con la scritta L'unica chiesa che illumina è quella che brucia (me l'ero messa, lo confesso, in onore del maggiordomo del Papa), il faut que tout se tienne. I pensionati, chissà, non dimenticano a metano. Dal 1974 al 2012. Trentotto anni. Trentott'anni fa, mio padre venne a prendermi a scuola, ero in quinta elementare. Alla famosa scuola Diaz del Ponte a Mensola, quella senza il film. Aveva una faccia terrea mentre mi faceva montare sull'850 Special beige. Gli chiesi che c'era, e mi disse che era scoppiata un'altra bomba; e, allora, anche in quinta elementare bisognava saperlo che scoppiavano le bombe nelle banche e sui treni. Stavolta no; era scoppiata in una piazza. A Brescia. Di Brescia avevo sentito parlare solo per due cose: la squadra di pallone, detta Le Rondinelle, perché c'era sull'album delle figurine dei calciatori, e un curioso detto che mia madre usava sempre quando, tipo, sentiva una canzone piuttosto vecchia oppure in TV davano un film decrepito: le anticaglie di Brescia. Chissà perché, mi sono sempre chiesto, a Brescia ci dovevano essere le anticaglie.

Accidenti al cazzo, mi son detto, ecco che mi sono messo a ricordare pure io. Mi sono avvicinato alla fermata dell'autobus, che sarebbe stata soppressa. C'ero già stato una volta, in quella piazza, e casualmente un ventotto di maggio. Suonavano e cantavano, sempre per ricordare. C'era Ivan Della Mea e avevo portato due bottiglie di buon vino svizzero, perché allora abitavo nella Confederazione (non quella dei pensionati ciggiellecisleuìlle); andò a finire che divenni titolare della mia prima e unica sbronza assieme al lucchese milanese, e anche a Paolo Ciarchi. Mezzo briaco com'era, il Della Mea era andato a cantare Ringhera. E' una lunga, lunghissima canzone in spagnolo e in milanese. Parla della guerra di Spagna e della bomba che scoppiò in quella piazza; prima di andare sul palco, però, mi fu presentato un signore. Poi mi dissero che era il marito di una delle donne saltate in aria, e che la canzone parlava proprio di lui; era lui quello del tocc ross de bandiera. Mi venne da tirar giù una bicchierata di vino che avrebbe steso un cavallo. Accidenti ai ricordi, sì. Fermata soppressa. Ecco, dovrebbero essere soppressi come la fermata, i ricordi. Non servono a una minchia di niente.


 

Una piazza, i nomi, la croce, il manifesto originale della manifestazione antifascista che esplose, lì, una mattina che pioveva a dirotto; servirà a qualcosa continuare a chiedersi "chi sia stato"? Lo si sapeva già dal primo minuto dopo, che non era stato nessuno. E che eravamo stati tutti quanti. Siamo stati tutti noi, appiattiti sulla difesa delle istituzioni e su simili altre baggianate. Noi che scendevamo in piazza per "difendere la democrazia", quando era proprio la "democrazia" che ammazzava e massacrava, e continua a farlo. Per cessare di essere anche noi dei perfetti colpevoli, avremmo dovuto abbattere il nemico. Avremmo dovuto sbarrare la strada alla "legalità", ai giudici-eroi, alle deleghe rappresentative, alle "istituzioni", alle polizie, alle galere, allo stato intero. Quella sarebbe stata l'unica strada percorribile per conoscere, e soprattutto per praticare, la verità. Ora è tardi per stupirsi che in quella piazza, millant'anni fa, delle persone accorse a sentir parlare un tizio, un sindacalista, siano state fatte a brandelli. Ancor più tardi per esterrefarsi e indignarsi che non sia stato nessuno. Accusare lo Stato da un lato, e difenderlo dall'altro. Lo Stato buono e lo Stato cattivo. Lo Stato democratico e lo Stato deviato. E via intristendo, e via raccontandosi frottole, e via reclamando "verità" e "giustizia" quando l'unico modo per avere queste cose sarebbe stato insorgere e spazzare via tutto. Distruggere uno Stato che non esitava neanche un attimo a distruggere noi, però utilizzandoci per alimentare all'infinito il suo gioco di morte. 

E' ora di sopprimere tutte queste fermate, come quelle degli autobus di Brescia; gioverebbe, a tale riguardo, ricordarsi anche dell'autobus linea 37 di Bologna. Che dico ancora, ricordarsi. Azzerare tutto, invece. Cessare di commemorare morti che ci sputerebbero addosso. Tenere in mente soltanto che cosa sia lo Stato e quale sia la sua essenza univoca e la sua continuità infrangibile; e non scordarselo mai, prima che dobbiamo saltare in aria anche noi per capirlo con male maniere. Me lo ha ricordato (che dico ancora, ricordarsi), andando via da quella piazza dove non tornerò mai più, mentre montava il vento (gonfiando le facce e i "tricolori" di due militari assassini di povera gente, proprio di fronte ad altra povera gente ammazzata trentott'anni prima da facce del tutto simili alle loro), la cosa che segue. Trovata in una strada laterale che dà sulla Piazza. Brescia, 27 maggio 2012. Partito Nazionale Fascista. Gruppo Rionale "Italo Balbo".


"La nostra costituzione, voi lo sapete, vieta la riorganizzazione, sotto qualsiasi forma, del disciolto partito Fascista. Eppure, il Movimento Sociale Italiano vive e vegeta! Almirante, che coi suoi lugubri proclami in difesa degli ideali nefasti della Repubblica Sociale Italiana, ordiva fucilazioni e ordiva spietate repressioni, oggi ha la possibilità di mostrarsi sui teleschermi come capo di un partito che è difficile collocare nell'arco antifascista e perciò costituzionale. A Milano, al.... "

Una rosa diafana nel giardino dell'Universo



Accingendomi ad un periodo diverso della mia vita, che recepisce da un lato la mia peculiare osservazione della realtà e, dall'altro, l'introspezione che mi sono trovato a vivere e cercar di scandagliare in questi ultimi tempi, darò conto di un sogno. I sogni non mentono mai; e non credo che sia un caso che lo abbia fatto proprio in questi giorni (stanotte, per la precisione). Ogni anno, la fine del mese di maggio è per me legata a dei ricordi precisi e non belli; a due fatti avvenuti in perfetta contemporanea. Il primo è un avvenimento tragico, che mi vide presente; il secondo è un episodio personale, una separazione definitiva che muoveva il suo passo proprio mentre ero presente sul luogo di quel terribile, primo avvenimento. Non ne parlerò ulteriormente; sia perché l'ho già fatto in passato, sia perché intendo qui attenermi solo al sogno, ai suoi elementi e ad alcune considerazioni. Avverto che tale sogno è stato del tutto neutro; non mi ha lasciato al risveglio, cioè, alcuna sensazione particolarmente gradevole o particolarmente sgradevole. È soltanto andato a scavare nei miei recessi più profondi; di questo mi sono immediatamente reso conto.

Il sogno che ho fatto ha un'ambientazione comune, persino banale. Il portone del condominio dove abita mia madre, e dove sono nato. Nelle sue condizioni attuali; per quel che sono riuscito a percepire, lo scenario era di oggigiorno (oltre che del tutto realistico, compresa la strada, le automobili parcheggiate, il numero civico). Era una tarda sera di una stagione non calda, a giudicare dagli abiti; già buio, comunque. Il portone a vetri era chiuso, e l'androne illuminato; i particolari erano del tutto esatti (la guida sulle scale, le cassette della posta). All'esterno del portone c'ero io assieme a delle persone presenti nella mia vita attuale (che chiamerò, d'ora in poi, i “Presenti”): la mia compagna, quattro amici (due uomini e due donne), una vicina di casa, un collega, due musicisti, tre frequentatori di un dato luogo che anch'io frequento, mio fratello e mia madre. All'interno, nell'androne, dietro il portone a vetri chiusi, c'erano invece delle persone non più presenti (che chiamerò, d'ora i poi, i “Passati”); questi ultimi sembravano impegnati in una discussione molto animata. C'era mio padre, morto, che quasi stava litigando con un vecchio condomino del palazzo, pure scomparso; nessuno dei due sembrava essersi accorto della mia presenza. C'erano due ulteriori vecchi condomini, un uomo e una donna, che sono però entrambi ancora vivi; c'era un giovanissimo ragazzo ateniese che avevo conosciuto oltre vent'anni fa, durante una vacanza, senza poi averlo mai più rivisto; la mia bisnonna materna, che è morta davanti a me, a tavola, quando avevo cinque anni; e, infine, la mia vecchia insegnante di greco e latino al liceo. Di questa avrò a riparlare parecchio; anch'ella non è più di questo mondo. Di tutti, interni e esterni (compreso me stesso) distinguevo perfettamente le fattezze, del tutto corrispondenti; e tutti, Passati e Presenti, erano vestiti in modo assolutamente normale, consueto. Per “consueto” intendo, ad esempio, che mio padre aveva una vestaglia rossastra, e piuttosto lisa, che portava spessissimo in casa; e l'insegnante aveva un pullover color salmone e una gonna “folk” con cui me la ricordo più che bene.

Mentre i Passati discutevano, i Presenti (me compreso), all'esterno, osservavano senza dire una parola. C'erano scambi di sguardi, ora interrogativi, ora rassegnati. A volte dei gesti, come alzate di spalle o braccia allargate. Nessuno però mostrava particolare disagio; per la strada non passava nessuno, ma si scorgevano finestre illuminate. Tra i Passati, all'interno, mio padre e l'altro vecchio condomino stavano quasi arrivando alle mani; ma gli altri, pur continuando a discutere, non facevano nulla per calmarli. Il ragazzo ateniese sembrava avere un atteggiamento sia di sfida, sia divertito. Soltanto la mia vecchia insegnante di greco e latino stava da una parte, discosta, cercando sì di intervenire nella discussione ma senza troppa convinzione. Della discussione in questione, all'esterno, si coglieva pochissimo; sia per i vetri che attutivano il rumore, sia per l'incrociarsi delle voci. Sembrava che il portone fosse come sigillato.

Ad un tratto, all'esterno, ho avuto una precisa sensazione; e ho fatto un'osservazione laconica, rivolgendomi agli altri che non parlavano. Ho detto: “No, non c'è. Non c'è.” E nel sogno si è aperta come una finestra. Per “finestra” intendo un ragionamento collaterale, che mi sono fatto sognando mentre, al tempo stesso, continuavo a osservare gli eventi. Come fosse un pensiero che, tra me e me, mi sono fatto in sogno, e del quale conservo un ricordo perfetto ancora adesso che sto scrivendo. Mentre gli altri accoglievano la mia osservazione pressoché con indifferenza, io pensavo ad una determinata persona, della quale avevo notato l'assenza tra i Passati. Se ne avevo notato l'assenza, significa che “ci doveva essere”. Questo perché tutti gli anni, attorno a questo periodo, mi era comparsa in sogno; in varie situazioni, come protagonista o semplice comparsa, ma c'era sempre stata. Ed è del tutto naturale, dato che si tratta proprio della persona legata esattamente a quel periodo, alla dolorosissima separazione che avevo sperimentato allora. Come se la attendessi; ma non c'era. Il pensiero onirico si spingeva fino ad una spiegazione data a me stesso: “Non c'è perché non ci deve essere più. Ci sono voluti diciannove anni, ma alla fine se n'è andata via. C'è persino Manos. Da oggi cambia ogni cosa.” Quel pensiero mi lasciava assolutamente sollevato, e dovevo evidentemente darlo a vedere; le persone che erano con me all'esterno, i Presenti, formavano attorno a me una specie di cerchio protettivo. Proprio in quel momento il portone del condominio si apriva. Sentivo il bisogno di entrare, e lo facevo canticchiando una vecchia filastrocca inglese, Oh the cuckoo she's a pretty bird, she sings and she flies...

Nessuno, compreso mio padre, sembrava notare minimamente la cosa. Continuavano a discutere. Entrando, mi accorgevo che l'oggetto del contendere era l'installazione di uno schermo nel garage per guardare le partite di calcio degli Europei; una delle vecchie condomine si copriva la faccia con le mani mentre piangeva e diceva: “Ma guarda lì, ma guarda lì.”. Me ne andavo verso la mia vecchia insegnante di greco e latino.

Debbo fare una parentesi. La mia insegnante di greco e latino era quanto più agli antipodi potesse esistere con il sottoscritto. Lo era allora quando avevo diciassette o diciott'anni, e lo è maggiormente adesso. Figlia di un generale piemontese, conservatrice fino al parossismo, cattolica tradizionalista (addirittura “lefebvriana”); peraltro, una delle persone che erano con me all'esterno, nel sogno, cioè uno dei “Presenti”, ci aveva pure avuto a che fare riportandone sempre espressioni di disgusto, se non di odio. E avevo presente la cosa anche nel sogno. Con me, invece, si era instaurato uno stranissimo rapporto. Lei mi considerava, dicendolo palesemente, un pessimo elemento; arrivò a definirmi cattivo d'animo. Io la consideravo una fascista e non perdevo occasione per prenderla per il culo e sfidarla. La variante era che non lei non si aspettava che un “pessimo elemento” fosse però uno che nelle sue materie se la cavava più che egregiamente, e per purissima passione. Adoravo il greco e il latino. Capace di scrivere “gags” su di lei direttamente in greco, o roba del genere; rimasta “celebre” al liceo quella che scrissi sulla sua abitudine di mangiare pane e pomodoro. Alla fine si era instaurata una specie di stima reciproca, una delle cose più improbabili che mi siano accadute nella vita (e di cose improbabili, francamente, me ne sono capitate parecchie). Verso la fine dell'ultimo anno venne a parlare di filologia classica un laureando, un giovane che, anni prima, era stato pure suo allievo; mentre parlava, io cominciai a fare osservazioni qua e là, e su questioni che non erano propriamente di livello liceale. Il laureando chiese all'insegnante chi mai io fossi, e le rispose, sottovoce: “Uno da starci attenti, è bravo ma è peggio della peste nera, e anche pazzo.” E così via. Sarà stato, probabilmente, un tipico caso di attrazione degli opposti. Chi lo sa. Aggiungo che è la prima volta in assoluto che questa persona mi compare in sogno. E' morta qualche anno fa, mentre abitavo in Svizzera. A lei debbo, fra le altre cose, il mio interesse per l'Islanda. Unica cosa che avevamo davvero in comune, erano i gatti. Ne aveva in casa tre, con dei nomi assurdi. Torniamo al sogno.

Senza convenevoli. Senza un “come sta”. Ci davamo sempre del lei, reciprocamente. Gli altri “Passati” continuavano a discutere ignorandomi, e non me ne stupivo; forse nemmeno di mio padre. Comincia un dialogo, sottovoce, dentro l'androne del condominio di mia madre, tra me e lei. Mi fa: “Venturi, cosa ne dice di questo?” “Ne dico, professoressa, che il tempo non c'è.” “Però lei è invecchiato parecchio, sa.” “Può darsi, e che com'è che lei sta qui?” “Sto qui perché mi ci ha portato lei. La sa una cosa? Noi conteniamo tutto quanto e il suo opposto. In me c'è una parte di lei, e in lei c'è una parte di me.” A questo punto, si metteva a sorridere. Io no. “Allora siamo condannati”, le dicevo. “Non la metta così. Ci son più cose in terra di quante da capire. Ma lei l'ha fatta la sua strada?” “La sto facendo.” “Non dev'essere una strada battuta.” “Non lo so, professoressa. Non lo so. E lei che strada ha fatto?” “Ho fatto una strada che è come una rosa diafana nel giardino dell'Universo, e se ne ricordi. Lei è tutto e il suo contrario. Ha visto che non c'è?” “Ah, l'ha visto anche lei.” “Sì, sì. Quella che aveva un vestito, a volte, che sembrava un peplo.” “Me ne ricordo di questo, una volta glielo disse pure.” “Sono contenta per lei, sa. Addio.”

Il sogno finisce qui. E' suonata la sveglia, dovevo prendere un treno e partire. E' stato uno dei sogni più nitidi che mi è capitato di fare; nitidi e particolareggiati. Senza la sveglia, forse, sarebbe continuato; ma non è bene chiedersi a che cosa avrebbe portato. Doveva terminare lì. E penso che mi abbia dato delle risposte che cercavo chissà da quanto; avrà delle conseguenze non da poco. Non saprò forse mai dirne il perché esatto, ma dentro di me sento, da stamani, maggiore chiarezza. Maggiore esattezza, arrivo a dire. Lucidità. Senza né un velo di gioia o di tristezza. Queste le sensazioni precise lasciatemi; assieme a quella, ancor più netta, che niente arriva a caso. Una “summa”. Così sarà.

lunedì 21 maggio 2012

Abbattere gli angeli



Pur non essendo vegetariano, sono parecchio avverso alla caccia e ai cacciatori. Naturalmente, lascio aperta a chiunque qualsiasi (eventuale) reazione, ivi compresa quella di considerarmi un ipocrita. Non troverei alcunché di sensato da ribattere, e non mi sento immune dall'ipocrisia. Però esistono due forme di caccia per le quali mi sentirei d'imbracciare un fucile e sparare senza pietà e con estrema soddisfazione: quella ai babbi natale alle finestre, sotto le feste di fine anno, e quella agli angeli.

Veramente non ne posso più degli angeli. Abbatterli scientificamente sarebbe un dovere civico e politico (che, almeno in origine, era la stessa cosa). Munirsi di un fucile a pompa, esercitarsi, mirare bene e procedere. Certo, se ne potrebbero sempre padellare alcuni; ma vuoi mettere vederli venire giù in picchiata, con alucce e faccine beate, e sciogliere Fidobàu, cane da angelo. Riempirsi il carniere di angioletti custodi, di cherubini, di serafini, di angeli dell'apocalisse (che la venga a annunciare il Principale in persona, per la madonna, e si assuma le proprie responsabilità dirette senza mandare gli uscieri!). Poi, eh beh, spennarli ammodino. Rigorosamente. E infine arrosto, oplà! E buon appetito a tutti; con tutta l'abbondanza di angeli che c'è, potrebbe essere un contributo non indifferente per risolvere il problema della fame nel mondo. Angeli arrosto di tutte le dimensioni e di tutti i colori; si dice anche che l'angelo negro della famosa canzone di Fausto Leali (“pittore, ti voglio parlare”...) sia squisito; pure l'angelo azzurro, nonostante qualche comprensibile problema per il colore. Fare attenzione a pulire bene gli angeli con la pistola, inghiottire una P38 potrebbe provocare qualche problema gastrico.

A dirla proprio tutta, oltre agli angeli bisognerebbe abbattere metodicamente anche gli angelicatori. Chiàmansi angelicatori tutti coloro che ci hanno sempre l'angelo pronto. La dodicenne viene massacrata dal paparino che, previamente, ha riservato la stessa sorte alla mamma (troppo pesante, naturalmente, per volare in cielo)? Arriva un gruppone che va dal sindaco al parroco, dalla professoressa d'italiano all'anonimo cittadino che lascia il mazzodifiori imbigliettato, dal maresciallo de' carabinieri al giornalista della Vita in diretta, ed ecco immediatamente un profluvio di angeli che risolvono tutto e preparano il terreno al prossimo (qualche ora dopo, massimo un giorno o due). La sedicenne salta in aria davanti al cancello della scuola, per un ordigno sistemato da un lupo solitario mafio-anarchico greco squilibrato bestiale? Non passano tre minuti, che gli angelicatori arrivano a frotte. In questi casi, gli angelicatori sono inarrestabili: non soltanto arruolano seduta stante la disgraziata vittima tra le schiere celesti, ma si premurano immancabilmente di informare il mondo quant'ella fosse straordinaria e solare. Porca puttana, mai che si possa morire di mala morte da persone ordinarie e lunari. Tocca già fare una fine di merda in giovanissima età, senza nemmeno il diritto di essere una ragazza qualsiasi, coi propri pregi e i propri difetti. Gli angelicatori non perdonano. In attesa di mettere in moto l'altrettanto inesorabile macchina del perdono, si preoccupano di decorare la vittima. Un paio d'ali, la crema solare, e vai a volare in cielo levandoti dai coglioni alla svelta, dopo la commovente omelia e dopo Storace che invoca la “pena di morte ineludibile”. E se per caso, caro il mio angioletto, senti staccartisi le ali in un ultimo, disperato desiderio d'essere rimasto a terra a viverti il tuo schifo di vita fino a un'età ragionevole, non ti preoccupare. Arriva immediatamente Koesione®, la supercolla diecimila volte più potente dell'Attak. Con Koesione® sei a posto e volerai per sempre. L'Italia intera ti vuole angelo, ora; fino a due minuti prima dello scoppio, perlomeno una sua parte ti avrebbe tranquillamente dato -a scelta ma cumulabilmente- di ragazzetta tipica rappresentante di una generazione senza valori, di rizzacazzi da stuprare perché portavi i jeans a vita bassa che scoprivano mezzo culo, di pallosa bimbetta di paese, di giovane senza futuro, di target di ogni sorta di mercato. Poi, stupr!, oppure, boom!, oppure genov-poliz!, oppure lavoronèr!, oppure terremòt!, oppure incidentbriàk!, oppure qualsiasi altra cosa; e allora diventi all'improvviso un angelo solare. Condannata per sempre al sorriso, mentre nulla viene fatto per fermare la fabbrica degli angeli. Per quella, mai nessuna crisi. Lavoro a pieno regime.

Quindi, mi spiace ma è così, cominciare a abbattere gli angeli risulta l'unica soluzione praticabile. Sradicare gli angeli dalla cultura. Chiudere l'angelificio una volta per sempre. Anonymous, fra le tue benemerite iniziative non potresti dedicarti almeno en passant a hackerare quegli stracazzi di siti dedicati agli angeli? Rocco Siffredi, Traci Lords, Gabriel Pontello, Ilona Staller, ma non è che potreste metter su un pornazzo come si deve tutto a base di angioletti, ché così si risolverebbe una volta per tutte anche il secolare problema del sesso degli angeli? Ah no, giusto, porco cane; ci avete angeli anche fra di voi, santa Moana Pozzi, il beato John Holmes e Madre Teresa di Calcutta (vera, impareggiabile pornostar della sofferenza). Fabbricanti di armi, invece di fare le bombe a grappolo per angelicare mezza Gaza e mine per creare in tutto il mondo angeli senza gambe e senza braccia (ci credo che, poi, hanno bisogno delle ali), perché non implementate con il vostro know-how un bel set di armi anti-angelo? Quanto al sottoscritto, se per caso dovesse saltare in aria o beccarsi una pallottola vagante (o anche non vagante, come quella toccata all'angioletto Alexis Grigoropoulos), le mie dimensioni e il mio aspetto dovrebbero tenermi al di fuori; però non si sa mai. Magari a qualcuno salterebbe il ticchio di dire che sono un angelo e che ero solare; e il Padreterno, per vendicarsi di tutti i mòccoli e le prese per il culo che gli ho riservato, non perderebbe occasione per munirmi di un paio d'ali di terza mano. In quel caso non abbiate pietà. Abbattete anche me e arrostitemi, badando però di buttare via i miei polmoni incatramati. Fatelo, perché sennò non perderei occasione di fare qualche looping e cacarvi addosso; cacca d'angelo, cacca solare.

domenica 20 maggio 2012

Il Venturi


Venturi è un cognome piuttosto comune. In tutta Italia, ma particolarmente in Toscana e in Emilia. In ultima analisi, pare che la mia famiglia, da parte di padre quindi con cognome e ammennicoli, sia stata, secoli addietro, originaria di Bondeno (Ferrara). Probabilmente ci dev'essere stata qualche storia di lavoro stagionale; o almeno m'immagino così. Raccontava mio nonno Bruno, morto nel '78, che quando nella Fiorentina del primo scudetto giocava come portiere Giuliano Sarti, che era nativo proprio di Bondeno, gli faceva particolarmente piacere (pur non essendo un tifoso esagerato, ma proprio per nulla) perché gli ricordava di quel sentito dire, che poi chissà se era vero sul serio. 

Bondeno è uno dei paesi colpiti dal terremoto di oggi. Ci saranno comunque ancora dei Venturi, in quel posto. Di sicuro ce n'è uno a Rovato, che poi sarebbe in provincia di Brescia; è quello lì che si vede nella foto. Sta con la "Lega Nord-Bossi" e con "Rovato della Libertà", e vuole il Martinelli sindaco. Oggi, sulla sua pagina del Libro de' Ceffi, ha scritto, tramite cellulare, quanto segue:


"Terremoto nel nord italia...Ci scusiamo per i disagi, ma la padania si sta staccando (la prossima volta faremo più piano)."

Sembra che, per questo, sia stato costretto alle dimissioni (non so esattamente da che cosa, però non me ne importa granché).
Certo che siamo veramente un paese traboccante di umorismo; bisogna soltanto decidere se è più umoristico il Venturi Stefano con la sua battutona feisbuccara, o tutti coloro che si sono indignati e lo hanno fatto dimettere.

Ultimamente il qui presente, che è (peraltro) ugualmente un Venturi, reputa che le indignazioni di cui tracima non soltanto questo paese, siano una manifestazione veramente impagabile di humour; specialmente quando si sente un segretario provinciale della Lega (tale Fabio Rolfi) tuonare contro il Venturi da Rovato obbligandolo a togliersi di mezzo perché simili esternazioni sarebbero contrarie al codice etico

Forse, anzi, sono proprio i vari codici etici, e certamente non solo della Lega, che sono le manifestazioni più superlative dell'umorismo nazionale.

E sono giornate, queste, in cui l'etica impazza. Travolti da un Maelström etico. Le Olimpiadi dell'etica, fedeli tutti al motto decoubertiniano: l'importante non è vincere, è partecipare. Invia una propria rappresentativa ai Giochi persino la Santa Anarchia. Il Vítelíú esprime tutto il comico di cui è capace (il paese di Grillandia) e, al tempo stesso, fa estrema professione di serietà. Di cui fanno le spese, tra gli altri, i Venturi da Rovato. Tramite cellulare. E piove, piove, piove. Trema la terra e fa un rumore bizzarro, come d'una serissima sghignazzata, o di uno scoppio di risate appoggiate su un muretto, fuori da una scuola.

sabato 19 maggio 2012

Un buio senza fine


Me ne sto qui, in silenzio, a leggere che cosa stanno dicendo e scrivendo sull'attentato di Brindisi.
Dicono, ad esempio, che è la prima volta in Italia che “vengono toccati degli studenti”, dei “ragazzini a scuola”.
Dimenticando magari che gli studenti e i ragazzini a scuola vengono, da qualche annetto qua e là, “toccati” senza nessun problema da “forze dell'ordine”, fascisti vari e quant'altri. In quei casi, che peraltro di morti e feriti ne hanno fatti parecchi. Lo sbirro che manganella a sangue una quindicenne dandole di “puttana comunista” (Firenze, via della Colonna, 11 maggio 2009) non fa notizia. Di Perugini che massacra di botte un ragazzino inerme della stessa età (Genova, 20 luglio 2001) si sono scordati tutti. Non parliamo del diciassettenne Soriano Ceccanti, là siamo oramai nella preistoria. Valerio Verbano tornava da scuola, quando fu ammazzato come un cane in casa sua. Fausto e Iaio, di anni, ne avevano diciotto il 18 marzo 1978. Eccetera. Sono stati toccati eccome, i ragazzini e le ragazzine. E da chi, lo si sa benissimo.
Mancava giustappunto una bomba fatta esplodere all'ingresso della scuola.
Si chiedono tutti “a chi giovi” un fatto del genere.
Non lo so, e non lo posso sapere, se sia stata la “mafia” o chiunque altro.
Quello che vedo è però il solito, desolante balletto. E' cominciato due minuti dopo l'attentato. Stanno già danzando sul cadavere di quella povera ragazza. Già hanno trovato le foto “commoventi”; stavolta, in mancanza dei consueti pupazzetti dei terremoti e delle alluvioni, ci sono i libri e i quaderni sparsi e bruciati.
E le foto della ragazza prese da “Facebook”, ovvio. Ma andate in culo voi e Facebook, stupidi pezzettini di merda.
Ci avete, da oggi, da “piangere” su una ragazzina smembrata mentre entrava a scuola, da “piangere” e da fare i vostri appelli alla “coesione nazionale”; non vale, però, la vostra “coesione” sui cadaveri fisici e psichici delle ragazzine che vengono violentate e uccise ogni giorno; quelli non sono “attentati”. Per farvi “piangere” tutti ci vuole la bomba fuori dalla scuola.
La quale, come è perfettamente ipotizzabile, vi sarà terribilmente utile. A chiunque, poi, venga attribuita. Tanto, come dice la Cancellieri, “lo stato c'è”. Accidenti, se c'è!
Poi alla povera ragazza verrà applaudita la bara.
Vi s'arronchiàssero le mani.
Oggi qui, di fotografie, non ce ne sarà nessuna.
C'è un buio senza fine, e basta.

Rieccola




La cara, vecchia strategia della tensione.
Puntuale come la morte.

giovedì 17 maggio 2012

L'Amareggiato


Il tipo che si vede nella foto è il nuovo primo ministro greco.

Ad interim, naturalmente, fino alle prossime elezioni che si svolgeranno fra un mese. Quelle appena finite, come tutti sanno, quelle di Alba Dorata, di Syriza eccetera, hanno portato a un risultato che potrebbe sintetizzarsi con l'elegante espressione ellenica πέος στον πρωκτό (cazzo in culo). Come tutte le "elezioni", del resto, ma almeno in Grecia si sono premurati di sancirlo ufficialmente. 

La cosa interessante, nella particolare situazione greca, è però il cognome di quel povero cristo (perché se a me, ora come ora, proponessero di fare il primo ministro greco, seppure ad interim, preferirei -e di gran lunga- arruolarmi nella Legione Straniera, come fece Stefano Rosso).

Si chiama infatti, il tipo, Panayotis Pikrammenos (greco: Παναγιώτης Πικραμμένος).

Pikrammenos significa esattamente: afflitto, amareggiato. Ad essere rigorosi, il participio si scrive con una sola " μ " (πικραμένος, pikramenos); ma poiché, in greco moderno, le doppie non si pronunciano, le due parole si leggono esattamente allo stesso modo. Insomma: la Grecia ha un primo ministro amareggiato di nome e di fatto. Credo che un fatto del genere sia avvenuto soltanto durante la "rivoluzione rumena" del 1989, quando il generale di stato maggiore che, di fatto, portò l'esercito dalla parte degli insorti, si chiamava Nicolae Militaru. Il generale Militaru fu poi ministro della difesa nel governo provvisorio. 

Come il Militaru non poteva fare che il generale, il Pikra(m)menos, viene da dirlo, non poteva che fare il primo ministro della Grecia. Amareggiato è nato, e amareggiato ha da essere. Il festival dell'afflizione!

A tutto questo si aggiunga anche il suo nome di battesimo, Panayotis. Deriva dal nome della "Madonna" (in greco: Παναγιά, Panayá, alla lettera: "tutta santa"). Insomma, il primo ministro della Grecia si chiama: "Madonna, sono amareggiato". E s'ha a andà benino!

Intèlligenz


E così oggi, i lavoratori dell'Ansaldo, dopo aver già "scioperato" in solidarietà con il loro dirigente gambizzato da quei cattivacci di anarkici informali, "scenderanno in piazza" (a migliaja, come annunciano entusiasti tutti i media). Insomma, la quintessenza del lavoro: i "lavoratori" che solidarizzano col povero padrone che s'è fatto la bua. Ah, dimenticavo un par di cose. La prima è che all'Ansaldo sarebbero in "lotta" perché i solidarizzandi padroni vogliono vendere non mi ricordo quale settore; indi per cui, subito dopo la krante manifestazziòne "no ar terorìsmo" andranno a incontrare la loro ultima speranza: l'Arcivescovo. Eh. Non ci sarà mica da stupirsi: tutte 'ste lotte "operaje" hanno da tempo, come dire, un andamento prettamente ecclesiastico; e non sono, in fondo, neanche troppo sicuro che un arcivescovo sia poi tanto peggio della Camusso o di Landini. La seconda: alla manifestazione genovese parteciperà, naturalmente, Guido Rossa. Guido Rossa non può mancare a una manifestazione del genere, come un pesce nell'acqua. Saranno assenti, invece, Riccardo Dura, Annamaria Ludmann, Lorenzo Betassa e Piero Panciarelli. Fine di questa parte delle notizie.

Anche perché, come tanto vo dicendo, bisogna stare nel presente; perché mai, che so io, riandare al 28 marzo 1980. E men che mai al 17 maggio 1972, quando fu istituito il vero, unico Santo che può far concorrenza a Padre Pio. San Commissario. Un'altra notizia è che ora persino il Questore di Milano vuole "avviare una riflessione", arrivando persino a ipotizzare la posa in Questura di una lapide in ricordo dell'anarchico Pinelli. Una volta, forse, mi sarei rivoltato; ora, non più di tanto. Pinelli, suo malgrado, ha assunto la funzione di "anarchico buono". Abbracci di vedove tra la sua e quella di San Commissario (avvenuti nientemeno che al Quirinale). Di fronte a queste cose, mi corre l'obbligo ma mi punge anche vaghezza di dirlo, il problema non è né reagire, né trattenere i conati di vomito; è ostinarsi a rimanere e a definirsi qualcosa come "anarchico". E' convincersi di continuare a voler avere a che fare con certa gente, con risposte sempre più incerte. Specialmente dopo aver letto anche certe notiziuole, che del resto, per l'ennesima volta, devono restare ben lungi dallo stupire più di tanto. Io non ho mai buttato nessuna bomba. Non ho mai sparato a nessuno e il coltello lo uso per tagliare il pane. Ma di fronte a certe cose, ho la coscienza di non aver paura di dire dove sto, perché mi sembra una cosa terribilmente naturale e logica; qui, invece, di logica non ne vedo più. Vedo soltanto parole e parole, e una costante ritirata, una fuga quando si prospettano scenari che fino a due giorni prima si preconizzavano e invocavano. Non fa piacere a nessuno sapere o quantomeno immaginare di essere sotto tiro; ma quando ho visto, in una stanza dell'antiterrorismo in Questura, che anche su uno che scrive articoli su dei blog facendo finta di essere una gatta nera, esiste un fascicolo consistente, ho capito parecchie cose e, in mezzo a tutte le mie infinite contraddizioni (io sono una persona contraddittoria, e scusatemi se nelle cose che scrivo non cesso di usare quell' "io" così individualista e autistico), cerco di agire di conseguenza ricacciando in culo paure e dubbi che pure ho, e da sempre.

Ho capito bene l'intèlligenz. L'intèlligenz è quella cosa che anche oggi la ministra interna Cancellieri (cognome che ricorda senz'altro cose piacevoli, come i tribunali e Adolf Hitler) non manca di nominare: bisogna rimodulare le forze dell'ordine e usare l'intèlligenz. Di fronte all'intèlligenz bisognerebbe sapere che cos'è, quando ne parla un ministro di polizia: e, bah, direi che non è così difficile capirlo, specie quando lo si prova sulla propria pelle a livelli che vanno dalle stazioni di carabinieri o dalle questure che ti "monitorano" il blog (come nel mio caso: Shinystat ne dà preciso conto) all'essere sbattuti in galera. Ecco, davanti a questa cosa non serve minimamente fare frenatone che assomigliano di più a quelle di merda nelle famose "mutande del pittore" (leggasi: cacarsi addosso), perché tanto sei lo stesso nel mirino e ci resti. Da una parte "anarchici" che fanno a gara nel prendere distanze più o meno ampie e si affidano persino al "Fatto Quotidiano", dall'altra la polizia che si frega le mani e può addirittura mostrarsi benevola nei confronti di certi, innocui "sovversivi" che non sovvertirebbero nemmeno Calimero, pulcino nero. Una profusione di zolfi, di umanità nove, di anarchismi pedagogici (imperdibile l'articolo di Gurrieri che "spiega l'anarchia a suo figlio" o roba del genere; ma ci tornerò sopra, la voglio spiegare anch'io l'anarchia a un figlio che non ho, ma a modo mio). Di fronte a certe cose, o si sta da una parte, o si sta dall'altra. La tendenza di certa "anarchia" a voler stare, quando la situazione precipita, rigorosamente nel mezzo, mi disgusta. Mi disgustano i tentativi di delegittimazione operati costantemente da certe persone e certi gruppi, che non sono qui dissimili dai guidirossa. E non mi piacciono nemmeno tanto coloro per i quali si intuisce una posizione, ma che nicchiano nell'esprimerla chiaramente. Forse ci avranno paura dell'intèlligenz, ma l'intèlligenz li scova lo stesso ed è bene che se ne rendano conto. E chi almeno per ora non si fa scovare, come gli "Informali", viene per questo tacciato senza mezzi termini di essere connesso col nemico, o addirittura d'essere lui, il nemico. Proprio un bel giochino, non c'è che dire; ma è un giochino che, alla lunga, paga poco e nulla. La storia dovrebbe averlo insegnato, ma in mezzo a tutti 'sti gran cultori della memoria che "commemorano" anche i morti di duemila anni fa, sembra che ce ne siano parecchi che continuano imperterriti a non capire un cazzo.

mercoledì 16 maggio 2012

Regna l'autismo


Regna l'autismo. Ce l'ha detto oggi, il famoso "Askatasuna" di Torino. E siccome di "lavoro", attualmente (e non so ancora per quanto) faccio giustappunto l'autista di qualche strano mezzo, mi sono all'improvviso ritrovato regnante. Cavolo, mi ci vuole allora un'immagine regale; e qui, a un autoraduno dov'ero capitato per puro caso (stavo mangiando un gelato mentre è passato) mi vedete alla guida di una OM 665 Superba del 1927.  Come abbia convinto il proprietario a farmici salire sopra non sto a dirlo; è l'autovettura che ha vinto la prima Mille Miglia, nello stesso anno; non il modello, proprio quella. Insomma, in codesto Regno dell'Autismo prefigurato dai "Torinoko Askatasunerak", bisognerà, concedendomi questo momento di regalità, che stia ben attento che non mi marcino sulla testa. Ma, forse, posso dormire sonni tranquilli; parecchi marciatori sulle teste coronate,  di quelli che magari cantano di imitare Bresci e Ravachol, attualmente sono impegnatissimi in attività piuttosto singolari e, direi, ecumeniche. Si va dal prefigurare gli "Anarchici Informali" come una sezione di Casapound per via di tre scarabocchi simbolici, al consueto complotto ordito dallo Stato per poter scatenare la repressione (come se lo Stato, per scatenare una repressione che va avanti da 3000 anni, avesse bisogno di questo); dalle accuse di "protagonismo mediatico" alle dissociazioni, "prese di distanza" eccetera; dagli imbarazzi acrobatici ai linguaggi francescani, come perfettamente messo in luce da Astratti pensieri e mondo concreto. Poi, appunto, stamani su "Repubblica" (!!) leggo della circostanziata presa di posizione dell'Askatasuna con tanto di "Regno dell'autismo". Dicevo di Bresci e Ravachol. C'è una moschina che mi ronza attorno. Ha la faccia di un Bresci che, nel 2012, parte da Paterson per andare a fare un po' di tiro a segno; o di un Caserio con una gran voglia di fare taglio senza cucito. Bene, sono ragionevolmente certo che, ora, si avrebbero le stesse reazioni. "Quel Bresci? Un provocatore pagato dai Servizi Segreti". "Ravachol? Un individualista mediatico che infanga l'Anarchia (santo nome!)" "Caserio? Non per nulla ha un cognome che somiglia a Casseri". "V for Vendetta? Un gesto isolato e autistico che nuoce al fronte di lotta e patatì e patatà." Va a finire che verso certe cose colgo più solidarietà nel pensionato al mercato che ha votato per Malagodi nel '72 o nella ragazzotta sciamannata delle Case Minime, che dai compagnoni anarconi, dai centri sociali, dai NO TAV e da quant'altri. Eppure che cosa sia la repressione dovrebbero averlo già visto anche per due uova, per una rete tagliata, per un bullone lanciato o, più spesso, per le fantasie di qualche procuratore che poi viene sputtanato, al momento del dunque, persino dai colleghi giudici. Bussano alla porta momenti duri, cari miei. E lo dicevate anche voi, no? Nei momenti duri credo che sia opportuno sapere bene da quale parte stare, sempre e comunque; è questo, a mio parere, il significato più profondo del termine "rivendicazione". Parola di autista.

martedì 15 maggio 2012

Firenze: Tutti assolti a Villa Panico!


La strategia è sempre, sempre, sempre quella: a qualsiasi movimento, entità, spazio antagonista o cazzinculo che non rientri nella legalitas illorum, si applicano: sgomberi, repressione, e reati associativi. Particolarmente riguardo a quest'ultima cosetta, la magistratura fiorentina, coi suoi zelantissimi procuratori, gìppi e quant'altri, è esemplare. Negli ultimi anni non c'è stato praticamente appartenente all'area antagonista che vi sia sfuggito: periodicamente, dimostrando una fantasia degna di un Lewis Carroll, il procuratore o la procuratora di turno hanno messo a processo con accuse di "terrorismo" anche i numerosi cani che popolano quegli spazi. Villa Panico è uno di quelli. Non posso definirmi un suo "frequentatore" (né tantomeno un suo abitatore), ma lo conosco parecchio bene sin dai tempi in cui il Panico era nel relativo vicolo in centro (in un incredibile immobile medievale poi, ovviamente, sgomberato con la forza e trasformato in "appartamenti di prestigio") passando per le altre sue occupazioni, tipo in piazza Ghiberti. Dal 2005 c'è Villa Panico, in fondo all'ex manicomio di San Salvi su cui gravitano da anni le mire della speculazione renziana. Sta in una villa che, temporibus illis, era adibita alla cura del sonno; ma a Villa Panico si dorme poco. Sono talmente svegli, quei ragazzi, che assieme a quegli altri dello squat "La Riottosa" sono riusciti a resistere a uno sgombero in pompa magna, il 13 luglio 2009. E sono ancora lì. Pochi giorni fa, c'ero ad ascoltare, nel parco, Sante Notarnicola che si faceva leggere le poesie e raccontava la sua vita e la sua galera; dopo ci ho mangiato una delle paste al forno più buone della mia vita, rigorosamente "vegan". Talmente buona da piacere ai carnivori più assatanati, lo giuro.

Diciannove "Panichini" e "Panichine" erano, ma guarda un po' te, a processo. Figuriamoci. Non ho mai visto le relative ordinanze e atti, ma ne ho visti altri del genere e sono paccate di roba che sembrano un'edizione domenicale del New York Times. Di solito vi si accusa di tutto, ivi compreso di furti di palme oppure di aver "resistito" disarmati agli sbirri che ti stavano prendendo allegramente a mazzate coi manganelli. Ma l'accusa regolare, quella "principe", è sempre quella associativa; grazie ad essa, non di rado si sono aperte le porte della galera oppure quelle di casa propria trasformata in carcere. Le altre accuse servono esclusivamente ad uno scopo: quella di ammannire una qualche ridicola condannetta di merda, perché, una volta giunti al processo e dopo aver ricevuto o proposte di mostruose annate di galera, o essersele a volte viste affibbiare in primo grado, tutto si sgonfia. In definitiva, nemmeno i servi della magistratura hanno il coraggio di avallare le stronzate dei procuratori e dei GIP. Basta un avvocato con delle medie palle per smontare 'ste puttanate repressive, naturalmente ben strombazzate dai media locali e nazionali. Bisogna creare l' "allarme terrorismo" e tutto fa brodo; ogni processo intentato a Firenze (e altrove) a base di reati associativi si è concluso, in primo grado o in appello, con l'assoluzione. Però, prima passano anni e anni; si concluderà così, prima o poi, anche quello per i 26 compagni NO TAV arrestati a cura del Casellon de' Caselloni, ma intanto parecchi di loro sono ancora o in galera o agli arresti domiciliari, costretti a fare persino lo sciopero della fame

Oggi, dicevo, i diciannove di Villa Panico sono stati assolti dalle accuse di "terrorismo". "Repubblica", come si vede, è molto secca (e, aggiungo, palesemente infastidita) nel dare la notizia; nulla di tutto il bailamme che fa quando ci sono gli "arresti di anarchici" o le "accuse all'area antagonista" (seguite immancabilmente dai comunicati del fasciopiddì e dei fascisti propriamente detti, la stessa merda). Restano in piedi, da accogliersi con risate di scherno, le condanne "da tre mesi a 1 anno e 8 mesi) per "occupazione abusiva" e "danneggiamenti"; come no. Visto che i "Repubblichini", che non sono nemmeno capaci di trovare una foto di Villa Panico, ce me mettono una della Riottosa, vorrei ricordare che il 13 luglio 2009, prima di ritirarsi in buon ordine, gli sbirri avevano provveduto a devastare loro lo squat, arrivando a distruggere il bagno, a tagliare il cavo della corrente elettrica e persino a pisciare e sputare per spregio dentro i vasetti delle conserve. Così tanto per far presente che cosa siano le "azioni terroristiche", e chi le compie impunito. Oppure ricordare, durante un altro tentativo di sgombero di Villa Panico (cosa che, peraltro, "Repubblica" caldeggia da sempre), il famoso "reperimento di numerosi proiettili d'arma da fuoco" che consistevano in 29 chiodi da muro. Ma da chi ha escogitato la scuola Diaz, questo ed altro. Intanto i "Panichini" vanno assolti, e Villa Panico è sempre lì. S'ha la pellaccia dura, non crediate di farci fuori tanto facilmente. Tutto questo, poi, nei giorni in cui è tutta una geremiade a base di "terrorismo", di "non abbassare la guardia", di "pericoli eversivi". Occhio, che sempre più gente si sta evertendo i coglioni, ed è questo che vi fa una gran paura fottuta. 

Nella foto: attività eversiva a Villa Panico.

Il Bombarolo 2012


Naturalmente, chi più e chi meno, ora è tutta una gara nel “dissociarsi” dagli assalti a Equitalia e compagnia cantante. I filoni principali sono un paio: c'è chi “capisce ma non giustifica” (“i nostri metodi sono altri” eccetera eccetera) e c'è chi “condanna” senza mezzi termini. Il qui presente, invece, si limita a registrare con attenzione. A volte cerca di stimolare il discorso, ma il più delle volte non ce n'è alcun bisogno. Basta entrare in un bar, mettersi in coda al supermercato, semplicemente ascoltare chi parla in un mercato o in un giardino pubblico. Le “persone normali”, insomma. Chi non ha nessunissima dimestichezza con la “pratica rivoluzionaria”, chi non sa nemmeno per sbaglio che cosa sia l' “antagonismo”, chi pensa che l' “anarchia” sia il potere al culo e via discorrendo. Bene, mi spiace sia per la Cancellieri e per Befera, sia per certi finissimi ragionatori patiti dell'immobile, ma chi dà l'assalto a Equitalia e a altri uffici “finanziari” gode di parecchia popolarità. Ripeto: io registro. Incamero e, quando mi è possibile, cerco di restituire. Sono altresì convinto che sia molto importante ascoltare che cosa dice la gente, perché perdervi contatto -anche se quel che dice può sovente non piacere- è preferire una torre d'avorio alla realtà. Certo, posso anche comprendere la paura che non pochi hanno di esprimere in un qualche luogo pubblico (e un blog lo è, a meno di non renderlo visibile soltanto ad alcuni) certe pulsioni della pubblica opinione -che sono molto, molto diverse sia da quelle “ufficiali” sia da quelle di presupposti “Revoluzzer” -di cui la bloggosfera abbonda- che, come nella famosa poesia/canzone di Erich Mühsam, son tutti zolfo a parole e socialdemocratici nella realtà. Debbo dire che lo stato, che oltre alle finanze ha a propria disposizione anche la polizia e la magistratura, è ben più attento. Ha sempre le antenne ritte. Sa avvertire benissimo quando intorno a date cose si sta formando una certa quale solidarietà, anche vaga o disgregata. E così, mentre noialtri si ragiona di “coscienza di classe”, di “ricomposizione” e d'altri bellissimi soggetti, le cose vanno avanti da sole. Magari con gesti solitari, non segnati da nessuna “coscienza” se non quella di avere individuato in certi organismi un nemico; oppure con azioni mirate, che non di rado provocano prese di distanza proprio da chi ciancia quotidianamente che in Italia “niente si smuove”. A tutti costoro, e a tutta una situazione, vorrei quindi dedicare una delle mie consuete “riscritture aggiornate”. Ve la ricordate la canzonetta di De André, “Il bombarolo”? Quella tratta dalla storia di un impiegato che, verso il '68, “prende coscienza” e va a mettere una bomba artigianale al parlamento (facendo però saltare in aria un chiosco di giornali)? L'ho riadattata al 2012, e invece del parlamento (che è già saltato in aria da solo, anche se nessuno lo vuole ammettere) ci ho messo un paio di cosine alla moda, come Equitalia e l'Agenzia delle Entrate. Le quali, oggigiorno, sono piene di “lavoratori impauriti” per loro e per i classici “propri figli” (effettivamente, se fossi figlio di un Equitaliano ora come ora non lo direi ai compagni di scuola, rischierei parecchi ceffoni nel muso o che mi mettessero una cacata di piccione nella merenda). Bisognerebbe spiegarglielo bene, a questi “lavoratori”, che cosa fanno veramente. In quali peste mettono altri lavoratori e, spesso, parecchi non-lavoratori. Bisognerebbe far capire loro esattamente che cosa sia lo Stato che li campa; e dire che, fra di loro, c'è persino qualcuno che dice di volerlo “distruggere”, ma rigorosamente dopo l'orario di lavoro. 
 

IL BOMBAROLO 2012
(Asociale - De André - Bentivoglio)

Chi va dicendo in giro
che non ho più lavoro
non sa con quanto amore
ho rubato il tritolo,
arrivo a luci spente
alle piccole ore
e nel baule ci ho
il detonatore!
E' un ordigno facile
del tutto artigianale,
saprebbe fabbricarlo
persino uno statale,
mo' vado all'Equitalia
di notte e tutto solo,
saltan per l'aria,
son bombarolo!

Nel scendere le scale
ci metto più attenzione,
ché io di suicidarmi
non ho alcuna intenzione
proprio nel giorno in cui
l'impresa torna mia,
santa cordite
e santa l'Anarchia!
Per strada tante facce,
tutte contro il lavoro
basta che non t'azzardi
però a toccare il loro,
c'è pure chi teorizza
prendendo le idee a nolo,
io ho scelto un'altra strada,
son bombarolo!

Intellettuali d'oggi
con blogghi e paginette,
andate a fare in culo,
buoni a fare marchette,
ci avete rotto il cazzo
con la rivoluzione,
oggi faccio da me
senza lezione.
Sapete sproloquiare
soltanto nel “virtuale”,
mentre che qui s'affonda
nell'abisso infernale,
vi siete sistemati,
stipendio e posto a ruolo,
io son d'un'altra razza,
son bombarolo.

Acrobazie in picchiata
come degli aeroplani,
lo sapete far bene,
merdosi ciarlatani,
io spero ora di farne
saltare un po' per l'aria,
qualche durruti
in salsa tributaria.
Così pensava forte
un tizio disoccupato
dopo che l'Equitalia
lo aveva massacrato,
cercava il buco idoneo
per mettere il tritolo,
insomma il posto degno
d'un bombarolo.

C'è chi lo vide ridere
le più grasse risate,
saltaron l'Equitalia
e l'agenzia delle Entrate,
ce ne doveva avere
di cose tutte sue
e invece d'una bomba
ne aveva fatte due.
Col cazzo che gli esplose
i' chiosco d'i' giornale,
si sentì liberato,
persino un po' informale,
scappò e non lo ripigliano
nemmeno intorno al Polo,
questa è la storia
del bombarolo!