giovedì 7 febbraio 2008

Victor Hugo



Dopo qualche tempo, torno a inserire nel blog una vecchia cosa. Viene dal newsgroup di De André del 26 settembre 2001; e, naturalmente, i riferimenti cronologici che vi sono menzionati devono essere riferiti a tale data. Vi si parla di una persona che conoscevo all'Elba, allora a pochi giorni dalla sua morte; e stavolta la conoscenza era diretta, non mediata dai racconti più o meno attendibili che fin da piccolo ho sentito fare nel portico di casa mia. Dico questo perché non si pensi che, all'improvviso, mi sia messo qui dentro a fare analisi letterarie sul grande scrittore e poeta di Besançon; questo è un Victor Hugo d'altra genìa, di quei tempi quando i genitori mettevano ai figli nomi che volevano riportare a un'idea.

Passato è il giorno del compleanno; ho, come si suol dire, un anno in più. E un amico in meno, che voglio ricordare insieme a voi.

E' morto dieci giorni fa d'un cancro alla gola che s'era preparato meticolosamente durante tutta la sua vita, fumandosi anche dieci toscani interi al giorno. Lo sentivi da un miglio per la sua voce e i suoi catarri, conditi da ottime e abbondanti bestemmie; di lavoro aveva sempre fatto il cavatore di granito e lo scalpellino. Non di marmo, non dell' "oro bianco" di Carrara; ma del durissimo granito che fin dai tempi dei Romani si estrae fra San Piero e le pendici del Monte Calanche.

Si chiamava a modo estremamente suo: Lupi di cognome, e Victor Hugo di nome. La sua lotta, ne son certo, l'aveva cominciata alla labile anagrafe dei primi mesi di guerra, perché era nato esattamente il 18 febbraio del 1940. Lo stesso giorno di Fabrizio De André, non sto celiando. Lui stesso si firmava Vittorugo; ma si dice che suo padre avesse fatto riscrivere tre volte all'impiegato del comune di Campo nell'Elba il nome esatto. Victor Hugo. Cavatore e scalpellino pure il padre, probabilmente coi Miserables in tasca.

Victor Hugo Lupi aveva cominciato a andare in cava, come raccontava con quella sua vociaccia sigarosa, a "ott'anni e mezzo, d'estate". Una mattina che un cavatore era rimasto schiacciato, s'era liberato un posto e non c'era da perdere tempo per uno stipendio, per due lire in più. 1948. Un'isola ancora totalmente fuori dal mondo. E cosi' Victor Hugo se n'era andato in cava e aveva lasciato la sua seconda elementare da ripetere. L'avrebbe lasciata comunque, diceva. Non era un tipo da banchi e penne.

Lì aveva cominciato a imparare quattro cose: cavar granito, fumare il sigaro, bestemmiare e essere anarchico. San Piero e' uno di quei posti dove "Via Pietro Gori" aveva resistito anche durante il fascismo; e poi ci arrivavano i carrarini a insegnare a cavare, a far da maestri di filo elicoidale e di rotolamento coi tronchi. Il primo camion fu visto quasi dieci anni dopo.

Veniva su bene, il ragazzo!
Era basso di statura, non si tagliava mai i capelli, e a undici anni aveva già due bicipiti da far paura. A dodici si ricorda la sua prima rissa in paese, prima delle sue gesta immortalate da migliaia di aneddoti che ancora circolano al monte e alla piana, resistendo a tutto. A tredici anni e mezzo viene finalmente segnalato ai Carabinieri perché aveva preso un barattolo di vernice rossa e aveva scritto su tutto un lotto di blocchi di granito da mandare in continente "SCERBA BOIA - NO A LA LEGGE TRUFA". Convocato alla stazione della Benemerita, l'unica cosa che disse al maresciallo fu la seguente: Mi scappa da piscià', e menomale perché mi fate tutti caa'. La ramanzina si trasformò quindi in una denuncia per vilipendio a pubblico ufficiale di cui dovette rispondere il babbo.

E così andò avanti, a forza di botte e anarchia. Beveva come un'autobotte, diceva con orgoglio che a diciassett'anni s'era trombato la moglie del sindaco democristiano e a diciott'anni, nel 1958, irruppe con due suoi amici cavatori in una piazza di Marina di Campo dove stavano commemorando l' "eroe" Teseo Tesei, un fascista che aveva inventato dei piccoli motosiluranti su uno dei quali era poi saltato in aria nel golfo della Sirte, con in mano delle tavole di legno. Cominciarono a tirarle a dritta e a manca, incrociando qua e là stinchi e capocce. In tre fecero quasi una ventina di feriti, e da allora nessuno in paese, per anni e anni, s'azzardò più a commemorare il fascista motosiluratore e motosilurato.

Victor Hugo Lupi fu arrestato e si fece quattro anni di Galera in Gorgona. Tornò e si rimise a fare il cavatore. E si rimise ovviamente a far casino; si sposò con una ragazza di San Piero, che fu ovviamente buttata fuor di casa dalla famiglia. Se n'ebbero a pentire!

Una domenica d'autunno Victor Hugo prende il fucile e va a caccia. Mentre è su per i buscioni tra le Serre e il Semaforo, dei posti che ancora adesso non ci vanno manco le capre, sente gridare aiuto, e riconosce la voce. E' il suocero, quello che ha ripudiato la figlia perché lo aveva sposato, che era cascato dentro una rovaia. Victor Hugo spara una fucilata in aria e urla: "Pezzo di merda!" Quell'altro lo implora di salvarlo; e lo salvò eccome! Dando fuoco alla rovaia e strinandogli il pelo con ustioni di secondo grado. Lo portò in paese sulle spalle, più morto che vivo, facendosi dieci chilometri per un sentiero che a volte sembra precipitare nel nulla. Lo scaricò in piazza, berciando oggi si mangia 'r pollo arósto!

Quando il fatto fu spiegato, e l'ennesima galera fu evitata, Victor Hugo decise di cambiare aria e se ne andò in Isvizzera a cavar pietre, credo vicino a Winterthur. Un giorno se ne stava a bersi tranquillo una birra in un bar; come sempre pippava il suo sigaro pestilenziale, dopo una giornata di lavoro. Arriva il poliziotto municipale del classico paesino elvetico tutto lindo e senza una cicca in terra; comincia a urlargli delle cose in tedesco, e senza far discorsi gli strappa il sigaro di bocca e lo spiaccica in un portacenere.

Victor Hugo non fa una grinza; paga la birra e esce.
Ma, guarda caso, fuori dal bar c'è una panchina di legno.
La svelle di peso, e si mette a aspettare in piedi.
A un certo punto il poliziotto esce, e appena varcato l'uscio si becca una panchinata nei denti. Poi Victor Hugo lo piglia per le trombe del culo e lo rotola giù da una specie di pendio innevato; completata l'opera, rientra nel bar e ordina un'altra birra. E si riaccende un sigaro.

A un certo punto il poliziotto rientra nel bar, in uno stato pietoso; Aveva la pelle der muso aricólta a li piédi", diceva Victor Higo sghignazzando e tracannando vinaccio. Portano il poliziotto in ospedale con traumi vari, e Victor Hugo in galera. Dove resta per tre anni, senza che nessuno sappia nulla di lui. La moglie se ne va, i figli pure; e nel 1964 videro tornare Victor Hugo in paese senza nemmeno mezza lire e sempre più briaco. Si va a ripigliare la moglie e la trova con un tizio che viene praticamente ammazzato di botte. La sera si ubriaca e comincia a berciare; sfonda la porta della chiesa a calci, piglia non so cosa e scrive "W L'ANARCIA" sul muro dietro l'altare. Quando gliene chiesero il perché, disse semplicemente: Ce l'ho con quer budello che m'ha fatto nàsce'. Non s'e' mai saputo se si riferisse al padre naturale o al padre eterno.

Da allora Victor Hugo non si muove più dall'Elba e ricomincia a cavar pietre; tranne una volta che, per cavoli suoi, deve andare a Livorno in treno. In uno scompartimento per non fumatori s'accende, naturalmente, il sigaro; una signora con un cagnolino comincia a lamentarsi e sbraitare. L'aria dello scompartimento è ammorbata; ad un certo punto a Victor Hugo scappa da pisciare e va alla latrina lasciando la scatola dei sigari sul sedile.

Quando torna, la scatola non c'è più; la signora gliela ha presa e buttata dal finestrino. Victor Hugo, ancora, non fa una piega. Ad un certo, anche alla signora scappa un bisognino, e se ne va lasciando il cagnolino sul sedile. Quando torna, la povera bestiola non c'è più. "Dov'è il mio cane?", mugola la signora; "dé, e' andato a cercàmmi li sigari", risponde Victor Hugo. La signora sviene, credendo che avesse scaraventato il cane dal finestrino. Invece no; il cagnolino lo trovarono spaventato nel cestino della carta igienica d'un altro cesso.

Passarono gli anni, e Victor Hugo andava avanti senza perdere quel misto d'anarchia, violenza e presa per il culo che era stata tutta la sua vita. Nel 1973 si ricorda il suo ultimo clamoroso episodio. Arriva a Marina di Campo una comitiva di romani con le moto, le borchie, i teschi, le svastichette e i boiachimmolla. S'accampano alla Foce e cominciano a rompere i coglioni a mezzo paese; una sera entrano al bar Capriccio, dove c'è un ragazzo che gioca a flipper. Senza dir nulla, lo pigliano di peso e lo spostano; ai lamenti del ragazzo e del barista, un paio cominciano a sfasciare il locale e al ragazzo viene spenta una sigaretta accesa su un braccio.

Il ragazzo piglia il motorino e corre a San Piero.
Arrivano Victor Hugo e un'altra comitiva di cavatori, tra il quali il suo inseparabile amico Gaetano, detto "Il Duro". Due naziromanacci vengono riempiti di botte da fare il pieno, poi presi e buttati in mare dal molo vecchio. Assieme alle moto, che ancora giacciono li' in fondo al mare.
Poi la comitiva si sposta al campeggio, dove l'opera viene completata con un'altra scarica di legnate e con le tende ridotte ad un ammasso di tela malconcia.
Nessuno di quei pezzi di merda fu più rivisto; il giorno dopo, sulla porta del bar Capriccio c'era un foglio con su scritto: Vietato l'ingresso ai cani e ai fascisti.
Indovinate chi l'aveva scritto!

Victor Hugo se ne stette più tranquillo, da allora; ma la Pasqua dell'87 sorprese tutti. Cercavano un Gesù Cristo per la processione, che il nuovo parroco voleva molto realista, con tanto di croce e corona di spine. Una croce terrificante, sarà stata pesa un quintale! Chiese in giro se c'era qualcuno disposto a portarla; non conosceva ancora quasi nessuno in paese, era arrivato da due mesi. Qualcuno gli disse: reverendo, provi a chiedere a Victor Hugo!

Il parroco non sapeva chi fosse Victor Hugo, chiese ovviamente se, oltre ad esser capace di portare il crocione, fosse un buon cristiano; qualcuno, ispirato senz'altro dal demonio, gli rispose che era un buon cattolico timorato di Dio. Corse poi a dirlo a Victor Hugo che non si fece scappare l'occasione; si presentò al parroco baciandogli la mano e inginocchiandosi, lui che eran quarantasett'anni che bestemmiava cristi, madonne e santi, e lo implorò di concedergli la santa grazia di portar la croce durante la processione.

"Ma ce la fate?", gli chiese il pretino.
Per risposta, Victor Hugo gli tirò su con un braccio un pancone intero con tutti gl'inginocchiatoi.

Parte la processione pasquale, diretta al santuario di San Cerbone; il quale è in mezzo al bosco del Monte Perone, e da San Piero son quasi sei chilometri d'una salita da far paura. Tutto il paese dietro, che salmodia la via crucis; e in prima fila, il parroco e Gesu' Cristo in croce, alias Victor Hugo Lupi. La gente santeggia e ride sotto i baffi; e il parroco, invero, si chiede come mai alla processione ci sia così tanta gente, venuta persino dagli altri paesi. Era convinto d'esser capitato in una landa di sant'uomini!
E invece nessuno si voleva perdere Victor Hugo che faceva il Cristo!

Arrivarono al santuario, e lì, realisticamente, si doveva tirar su la croce con Victor Hugo attaccato sopra. Se ne occuparono i cavatori, fra le litanie. Una volta tirata su, mentre il parroco recita la passione di Nostro Signore, si vede la seguente scena:

Victor Hugo chiama un suo compagno, il quale gli porge con una canna un sigaro acceso.
Si mette a fumarselo in croce; a un certo punto il parroco s'accorge del puzzo, si volta e vede il Redentore che si fa un mezzo toscano. Gli casca il breviario di mano.
La gente smette di pregare e comincia a rotolarsi per terra, sganasciandosi dalle risate; al parroco senza parole, Victor Hugo urla:

Dé, padre, o 'un si vorrà mìa neganni l'urtimo desiderio a un condannato a morte? Ber cristiano che sì'!

Un altro cavatore, che impersonava Longino, comincia indi di poi a marzagrànni 'r costato con una canna; solo che alla canna era legato un mezzo litro di vino. Che fu tracannato da Victor Hugo alla salute di tutti, e con gli auguri di Buona Pasqua.

Il curato chiese il trasferimento il giorno dopo; sul "Corriere Elbano", quindici giorni dopo, apparve la seguente notizia: "La processione Pasquale di San Piero rovinata da un noto miscredente - Vergogna in tutta l'Isola".

Il 19 ottobre del 1990 Victor Hugo cavò la sua ultima pietra; lo avevano mandato in pensione a cinquant'anni. Gli ultimi dieci anni della sua vita se li è passati all'osteria. Parlava con tutti, si faceva delle sghignazzate da far tremare i muri, ed era circondato dai ragazzi del paese che gli chiedevano di raccontare le sue storie. Fra quei ragazzi ci son stato tante volte anch'io. Puzzava come una concimaia, beveva come una cisterna e fumava, fumava, fumava il suo sigaro.

E' morto qualche giorno fa all'ospedale di Portoferraio. Un cancro alla gola, non parlava quasi più. Gli avevano fatto la tracheotomia, pure. Suo figlio ha raccontato, ma non so se è vero, che mentre lo portavano in ambulanza ha chiesto un sigaro. C'è chi dice che se lo sia infilato nel buco della tracheotomia e abbia buttato giù. Tanto doveva morì'.

E non c'è più. Quel giorno si parlava già di guerra. Quel giorno di settembre.

sabato 2 febbraio 2008

Lettera di fra' Silvestro Maruffi, domenicano, a proposito di certa strada a lui dedicata nella città di Firenze


Io, Silvestro Maruffi, fui frate dell'ordine di San Domenico.

Ebbi a patire crudele e ingiusta morte nell'anno del Signore 1498, il giorno 23 di maggio, assieme ai miei confratelli, fra' Girolamo Savonarola da Ferrara, e fra' Domenico Buonvicini, da Pescia.
Fui torturato e impiccato. Il mio corpo fu poi arso in piazza della Signoria.
E la mia è una storia lontana.
Talmente lontana, che la stessa città che mi diede la morte nell'ignominia e nel fuoco, tempo dopo pensò di dedicare, a me e ai miei fratelli in vita e in morte, una strada.
Durante la mia lontana vita, le strade non erano dedicate ai morti; prendevano nome dalle osterie, da una pianta o da un albero che vi si trovava, da donne di facili costumi che vi esercitavano il loro commercio, da mille e mille altre cose; ma non da morti.
Quando invece mi fu dedicata quella piccola strada in una zona della città che a' tempi miei altro non era che remota campagna, le strade si dedicavano anche ai morti; e da lassù ho assistito, scuotendo la testa, alla posa della targa che reca il mio nome. Da lassù ho assistito anche a tutte le vicende che si sono succedute nei secoli dopo la mia morte; ed è per questo che chiedo che quella targa venga rimossa. Che il mio nome non faccia più parte di quella città. Che la strada sia dedicata a qualcun altro, o a qualche altra cosa.

Nella mia vita credetti di lottare per ciò che ritenevo libertà, contro istituzioni potenti e secolari, contro la stessa Chiesa, corrotta e putrefatta, di cui facevo parte. Per questi ideali fui messo a morte.
Così come vi fu messo, nel 1923, un altro uomo di chiesa, a nome di Giovanni Minzoni; e dalla strada a lui dedicata, un largo e caotico viale alberato, nasce la mia. Parallela a quella dedicata a fra' Domenico, e non lontana dalla grande piazza dedicata a fra' Girolamo.
Giovanni Minzoni lottò contro il fascismo. Il fascismo corrotto e putrefatto che un altro giorno 23, ma di agosto, lo mise a morte nelle plaghe ferraresi. Lo uccisero, le squadracce, a bastonate; il loro capo si chiamava Italo Balbo. Tutto questo l'ho visto anch'io, da lassù, e ho visto morire un altro uomo, uno delle centinaia di migliaia, uno dei milioni di uomini che hanno dato la loro vita per combattere ogni forma di oppressione, che sono morti perché non trionfasse la morte. Che sono morti perché chiese, polizie, stati, istituzioni e consorterie non imponessero il loro volere. Uomini di Dio e uomini senza Dio. Uomini e donne di ogni risma, di ogni ideale, di ogni età, di ogni storia.

Nella via che, a Firenze, è stata a me dedicata, e che nasce dal viale dedicato a don Giovanni Minzoni, sorge oggi, al numero 3, la sede di un movimento che si dice di "giovani". Di giovani che non lo sono, perché la loro gioventù, o presunta tale, è di nuovo al servizio delle stesse decrepite cose, della stessa violenza, della stessa sopraffazione, dello stesso credersi superiori agli altri, della stessa morte ammantata di "democrazia" così come a' tempi miei lo era di arte o di belgodere.

Al servizio dello stesso fascismo, che è sempre quello anche se ora siede in giacca e cravatta in quella stessa aula di parlamento sorda e grigia che il loro amato nonnino avrebbe trasformato in bivacco per i suoi manipoli. Gli stessi squadristi pronti a andare a bastonare dei ragazzi della loro stessa età o anche più giovani. Gli stessi putridi truffatori che inneggiano alla "patria" e ai "valori", quando l'unica patria che hanno è la violenza del potere, quando gli unici valori che hanno sono quelli della loro nullità, del loro vuoto, della loro sporcizia.

Questi non sono giovani, perché la gioventù è vita. La loro è morte. E la morte è vecchia, non ha più carne, non ha più volto se non le vuote orbite di uno scheletro. La morte che aleggia sulle loro lugubri fiaccolate di morti benvestiti. Toglietemi da questa cosa. Toglietemi da quella strada, se tollerate che quei cadaveri viventi vi abbiano sede, se addirittura manifestate loro solidarietà. E togliete anche don Minzoni, ucciso dai loro congeneri. Sono gli stessi che andarono a imbrattare la targa stradale dedicata a un giovane autentico, un giovane bellissimo, chiamato Bruno Fanciullacci. A imbrattarla e a cercare di toglierla. Sono gli stessi che sotto un'altra targa stradale, dedicata a dei "martiri" che lo furono, per vendetta, delle loro stesse idee di superiorità etnica –ché morte chiama morte!- si riuniscono guidati dai loro caporioni.

Io, quella targa a me dedicata, non la voglio più. Non voglio che il mio nome sia in qualche modo a loro associato. Dedicate quella strada a Mario Carità.

venerdì 1 febbraio 2008

Ripensaci, Diego!


Sembra, porco diavolo, che ci sia cascato pure lui; e questa proprio non me la doveva fare. Ma come, anche tu, Diego, caduto nella tentazione delle "scuse". Ma quali scuse! Quella tua manata al pallone è una delle cose più superbe, più sublimemente carogne, più vendicative, più meravigliose che il gioco del calcio abbia saputo offrire; e ora, cazzo fai? Tutte le agenzie battono la notizia. Chiedi scusa. Agli inglesi. Ma dovresti chiedere scusa a tutti noi, che su quel tuo gesto hanno costruito sogni, miti, teorie, film, musiche, qualsiasi cosa. No, proprio questa non mi riesce di perdonartela, a meno che tu non provveda a indossare di nuovo la casacca argentina, ché ancora sono sicuro che per cinque minuti te la farebbe indossare qualsiasi commissario tecnico, e di rimetterla in azione, la mano de Dios. Contro gli inglesi, contro gli italiani, gli olandesi, i tedeschi, i brasiliani, chiunque. Non importa. Anche se quel tuo averlo fatto contro gli inglesi, certo, assunse significati del tutto particolari. Una delle più squisite vendette della storia. Ne eri autore. Come se il conte di Montecristo chiedesse scusa, dopo 20 anni, a Danglars, a Caderousse e a Mondego. Ma si può? Che mosca ti ha punto?

Io me la ricordo, quella partita, giocata a Italia già eliminata dai mondiali messicani dell'86. Stadio Azteca, 22 giugno 1986, più di centomila spettatori. Argentina-Inghilterra, lo scherzo del destino dopo la guerra delle Falkland, dopo i fischi a Osvaldo Ardiles che giocava nel campionato inglese, dopo la doppia umiliazione di un paese intero, per mano della merdosa Thatcher e per mano dei suoi stessi militari assassini; della Thatcher grande amicona di Pinochet, e dei fabbricatori di desaparecidos con la benedizione di sua eminenza Pio Laghi. Primo tempo, zero a zero. Poi, al 6' del secondo tempo, la manatina mentre Shilton andava a farfalline; la mano di Dio.

E Dio doveva essere in campo quel giorno, sul serio. Mandando a arbitrare un cazzo di tunisino, tali Ali Bennaceur, che non vide nulla mentre quelle povere fave di inglesi lo pigliavano nel didietro come spinto da una turbina. Mandandoti poi dopo, Diego, a segnare un altro goal, palla presa quasi a fondo campo e accompagnata in porta dopo una corsa con il vento. Il goal del secolo! Una cosa che, mi sia permesso, ho visto fare di simile soltanto a un giocatore con la maglia della Fiorentina, Roberto Baggio, peraltro durante una partita poi persa a Napoli.

E ora cosa mi vieni a fare? Chiedere scusa? A chi? A Dio?
Ripensaci, Diego Armando.
Ripensaci !