venerdì 31 agosto 2007

Petizione ai "Vu' Amministrà' " fiorentini


Da utente che desidera rimanere anonimo riceviamo il testo di questa petizione per l'amministrazione comunale fiorentina, che volentieri pubblichiamo declinando ovviamente ogni responsabilità per il suo contenuto. L'utente specifica che tale petizione può essere utilizzata e diffusa in qualsiasi modo, mediante il mezzo telematico o cartaceo (stampa). Il presente blog fornisce con piacere questo spazio.

RISPETTOSA PETIZIONE AI VU’ AMMINISTRÀ’ DI FIRENZE.

Firenze, 31 agosto 2007.
Al sindaco, agli assessori della giunta comunale, ai consiglieri comunali.

Signore e Signori.

1. Sono un cittadino qualsiasi che non si riconosce né nelle cosiddette “maggioranze” né in voi, quale che sia la bandiera o lo “schieramento” cui dichiariate di appartenere. Mi riconosco esclusivamente nell’umanità tutta e nella lotta contro l’ottusità generalizzata, contro il razzismo, contro la guerra ai più deboli.

2. Se vi chiedete il motivo per cui vi ho qualificato, nell’intestazione di questa petizione, con un’espressione che potrà sembrarvi irriguardosa, è per un semplice senso di giustizia e di realtà. Se, infatti, gli immigrati che nella nostra e in tutte le altre città oramai da decenni vengono definiti spregiativamente “vu’ cumprà’ “ a causa del modo in cui cercano di vendere la loro paccottiglia per pochi soldi, non vedo perché non si dovrebbe definire “vu’ amministrà’ “ chi gestisce la cosa pubblica in modo a mio parere (ma non solo mio) del tutto assimilabile alla paccottiglia. Però guadagnando dei bei soldoni.

3. Ma veniamo all’oggetto di questa petizione, che si riallaccia all’oramai celebre “ordinanza anti-lavavetri” emanata alcuni giorni fa dall’assessore Graziano Cioni.

Ordinanza, in sintesi, motivata:

a) Con la “situazione di pericolo” che tali persone rappresenterebbero per la cittadinanza
b) Con il loro “comportamento aggressivo” (in questi giorni suffragato da centinaia di presupposte testimonianze sulla cui attendibilità naturalmente nessuno ha provveduto a indagare a fondo), particolarmente nei confronti di “donne sole”;
c) Con l’illegalità della loro attività;
d) Con l’intralcio alla circolazione che rappresenterebbero, essendo generalmente posizionati presso semafori ad incroci assai trafficati:
e) Infine, con l’esistenza di un presunto “racket” di sfruttamento che l’ordinanza, secondo le parole del suo inventore, dovrebbe contribuire a stroncare.

4. Non desidero qui discutere sulla validità o meno di tale ordinanza, invero assai mediatica; vi si pronunceranno, come tutto lascia intendere, gli organismi statali preposti. Ne prendo atto, pur opponendomi ad essa con tutte le mie forze, e sono a richiedervi, per semplicissime considerazioni di giustizia, di assenza di disparità e di parità di trattamento, di applicarla anche agli strilloni stradali del quotidiano “La Nazione”.

Come sicuramente vi è noto, tale quotidiano (che oramai da molto tempo conduce al suo interno una decisa campagna “contro il degrado cittadino”, contro l’ “illegalità” e per la “sicurezza”, ospitando nelle sue pagine veri e propri bollettini di guerra che fanno apparire Firenze come qualcosa a metà tra Beirut e Kabul e contribuendo così a creare nella cittadinanza un senso di paura diffusa –presupposto necessario per una sempre maggiore repressione e per un sempre maggiore controllo poliziesco) utilizza anche, per le sue vendite, tutta una serie di strilloni.

5. Tali strilloni presentano le seguenti caratteristiche:

a) Sono in stragrande maggioranza, se non nella loro totalità, cittadini “extracomunitari” al pari dei lavavetri (includiamo qui negli “extracomunitari” anche i cittadini rumeni, nonostante l’entrata della Romania nell’Unione Europea a partire dal 1° gennaio 2007) ed è quindi perfettamente ipotizzabile che tra di loro si trovino diverse persone in situazione irregolare (clandestini) o comunque dubbia;

b) Creano una “situazione di pericolo” in quanto posizionati spesso nel bel mezzo di strada, esposti al rischio di essere travolti dai cittadini più o meno rispettosi delle regole del codice della strada;

c) Svolgono un’attività di vendita la cui regolarità e legalità è quantomeno questionabile, o comunque passibile di accertamenti ben precisi in base alle vigenti leggi sulla diffusione della stampa quotidiana e periodica;

d) Intralciano la circolazione veicolare e pedonale, essendo sistemati, al pari dei lavavetri, presso incroci vitali della città, oppure nel bel mezzo di marciapiedi (abbinando alla vendita della “Nazione” anche quella di oggetti vari, attività peraltro stigmatizzata e combattuta proprio dallo stesso quotidiano);

e) Quanto a quest’ultimo punto, vi sarebbe da indagare in modo preciso sull’effettivo rapporto che lega tali persone al quotidiano “La Nazione” che diffondono e, in ultima analisi, alla “Poligrafici Editoriale SpA” che ne è proprietaria. Si tratta infatti di una rete di distribuzione del tutto anomala e non rientrante in nessuno dei normali rapporti di distribuzione e diffusione medianti punti vendita (edicole o di altro genere) legalmente autorizzati. Sarebbe quindi opportuno svolgere i necessari accertamenti, se necessario con un esposto alla Magistratura, atti a verificare l’effettiva esistenza e consistenza di un regolare contratto di lavoro e/o di prestazione, gli orari di lavoro, la copertura assicurativa e medica ecc. L’assenza o il mancato rispetto delle relative disposizioni farebbe infatti configurare il reato di sfruttamento della manodopera e del caporalato così come previsto dal disegno di legge approvato il 17 novembre 2006 dal Consiglio dei Ministri, il quale prevede pene consistenti nella reclusione da tre a otto anni. Accertamenti dovrebbero essere quindi svolti anche sui modi in cui tali persone vengono ingaggiate, e da chi esattamente lo siano (cioè se direttamente dall’amministrazione del quotidiano “La Nazione”, dalla “Poligrafici Editoriale SpA” oppure se mediante agenzie di lavoro interinale ecc.). Mi sembra che tali accertamenti siano assolutamente doverosi per tutelare sia i diritti di queste persone, sia l’immagine di un quotidiano che fa della “battaglia per la legalità e la sicurezza” uno dei suoi cavalli di battaglia.

6. La presente petizione è estesa naturalmente a tutta la cittadinanza e verrà inviata nei prossimi giorni a tutti gli organismi competenti ed alla stampa cittadina e nazionale. Saranno ovviamente studiate anche altre forme di legale diffusione.

Mi piacerebbe con questo potervi esprimere i miei più distinti saluti, ma data la situazione sicuramente capirete perché non me ne sento la benché minima intenzione.


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martedì 28 agosto 2007

La sinistra sinistra



Come tutti sanno, Firenze, al pari di Bologna, sarebbe una "città di sinistra". Oggi, appunto sulle orme bolognesi, la giunta comunale fiorentina ha preso una decisione storica, nell'ottica della "sicurezza" e della "salvaguardia dal degrado"; un'iniziativa che, manco a dirlo, ha immediatamente trovato la prima pagina di "Repubblica". Sapete, quel "grande quotidiano di sinistra", quello che pubblica le letterine del sig. Poverini che dichiara di essere "di sinistra, ma diventato razzista". Ve ne ricordate?

In sintesi, da oggi a Firenze i lavavetri agli incroci delle strade ("quasi tutti rumeni", ci informa sempre il gran quotidiano di sinistra) sono passibili di arresto fino a tre mesi. Avete capito benissimo: arresto. E se non c'è l'arresto, una multa di 206 euro. In queste ore è tutto un plauso all'iniziativa: fioccano le "testimonianze di cittadini" che raccontano episodi raccapriccianti di cui i lavavetri sarebbero stati protagonisti, dalle fitte ai cofani della macchina, ai salti da un lato all'altro del parabrezza (quasi fossero degli acrobati) alle immancabili "molestie alle mogli e alle donne sole". Perché è chiaro che i lavavetri, essendo in maggioranza "rumeni", sono anche zingari e musulmani; e in quanto tali, molestano le donne ariane. Siamo o non siamo la città della Fallaci?

Sinistra a Firenze? Cosa si deve fare, ridere o piangere? A Firenze, come in tutte le altre città di questo paese, domina oramai l'intolleranza allo stato puro. Bello poi il Cioni, quello che s'indignava tanto per Fanciullacci, che dichiara "non prendeteci per leghisti", quando due secondi dopo il sindaco leghista di Verona, Tosi, si dichiara entusiasta della luminosa iniziativa e pronto a copiarla "sperimentalmente". Bella prova. Proprio una cosa di cui andare fierissimi, a Firenze. L'amministrazione "di sinistra" che funge da modello da imitare per un'amministrazione nazista che multa anche la ragazzina tredicenne barese perché ha osato mangiare un panino per la strada!

Ma del resto, nulla di nuovo. Nelle città della "sicurezza contro il degrado" e dei sindaci sceriffi, è pane quotidiano. La strada l'ha tracciata giustappunto il sindaco "comunista" di Bologna, Cofferati, no? E tutti i cittadini plaudenti. Persino qualche cantautore "di sinistra" come Lucio Dalla, che si dichiarò entusiasta delle misure di Cofferati e del "ritrovato rispetto della legalità".

I cittadini, ovviamente "vogliono la legge rigida".
Sinistra, destra? Tutti trasformati in piccoli forcaioletti di questo bell'inizio di millennio. Pochi, pochissimi che ancora si vergognino di tutte queste cose. La "sinistra", se ancora esiste, va appunto ricercata in queste persone che si vergognano di vedere attorno a sé il vuoto pneumatico, il securitarismo che paga tanto in termini elettorali, l'intolleranza, il razzismo.

Ma poverini! Vi sciupano le macchinine! Si sa bene che la macchinina, a Firenze come altrove, è il bene supremo. Vi spillano tanti soldi, quei bruti violenti di lavavetri! Quanto? 50 centesimi? Un euro? Poi, eccoli tutti quanti, i bravi cittadini, ad affollare i Gigli e i centri commerciali a comprare, comprare, comprare cose costosissime e totalmente inutili, a indebitarsi per comprarle, a soddisfare i capriccini dei rampolli che vogliono lo zainetto rigorosamente "firmato" per andare a scuolina, e via discorrendo. Vi molestano la consorte? Quando invece siete voi a molestare la collega sul posto di lavoro, siete dei ganzi e ci fate la risatona al bar con gli amici.

E questa è oramai la normale normalità. Ma, per favore, smettiamola una buona volta di parlare di "sinistra" Bene, se mi è concesso io voglio ancora una volta dire "no". Vorrei dire a tutti quanti di vergognarsi, se hanno una coscienza, ma sarebbe fatica sprecata. A questo punto mi auguro sinceramente che, alle prossime "elezioni" cui andranno a partecipare, i fiorentini agiscano di conseguenza e la facciano una buona volta finita con questa farsa della "sinistra" e di Firenze "città di sinistra". Firenze è una città di razzistelli e di "maggioranze silenziose", come tutte le altre oramai in questo paese.

Votate a destra, per favore. Siate coerenti. Mettete al potere chi queste cose almeno le dice apertis verbis. Sarete in ottima compagnia: dal sindacalista ex-dirigente della Fiom che si lamenta con Mussi, sempre per lettera, della "deriva" presunta verso gli interessi di "carcerati, finocchi e negri", al fino all'elettore DS che, inseguendo i suoi impulsi primari, ha deciso di partecipare alle ronde notturne di "Azione Giovani".

Queste cose le scriveva un mio amico sul suo blog. E così concludeva:

"Magari, però, viene un sospetto a chi pensa male. Viene il sospetto che il razzismo, la xenofobia, la paura del diverso sia insita nel DNA della cosiddetta "sinistra di lotta e di governo", da Togliatti in poi. Certo, allora non c'erano gli extracomunitari. Ma c'erano gli omosessuali, gli zingari, ecc. Ha fatto un bel progresso questa sinistra, non c'è che dire!
E' passata dal "non sono razzista, ma..." a "sono razzista, però ..."!

domenica 26 agosto 2007

Arianna e la merda


Le scritte sui muri si dividono in due categorie: quelle grandi e quelle piccole. Di quelle grandi non voglio parlare: ne esistono a libri e collezioni fotografiche intere, e sono state oggetto di dibattiti e controdibattiti, studi approfonditi (sociologici, di costume, di ogni genere). Non mi sentirei tra l'altro per nulla all'altezza di parlarne. Particolare curioso, non ne ho mai tracciata nemmeno una.

Poi ci sono quelle piccole, quelle scritte col pennarello. Quelle che quasi nessuno ci fa caso. Eppure ogni muro, ogni porta di cesso pubblico, ogni panchina le riporta. Non solo col pennarello, ma spesso incise nell'intonaco o nel legno. Sono queste che attraggono la mia attenzione; e, nell'attirarla, hanno la singolare caratteristica di innestarmi dentro delle storie che non potrò mai raccontare.

Perché sono storie che nascono, vivono e muoiono nello spazio di pochi secondi. E' l'immaginazione istantanea che si forma e si dissolve nello spazio di un respiro. E' quel brevissimo istante in cui si è il pennarello, o la chiave, o l'oggetto qualsiasi che ha tracciato quell'espressione di un'esistenza sconosciuta.

A dieci metri da casa mia, all'angolo fra due strade, su una specie di colonnina sportellata (ci devono essere dei contatori, o delle derivazioni elettriche o telefoniche, non so), c'è da anni il più stupefacente concentrato di nichilismo che abbia mai visto, scritto piccolissimo con un pennarello nero.

Dice così: Juve merda, Viola merda, tutto merda. E ci vuole del coraggio. Dire "Juve merda" a Firenze è pane quotidiano, con la rivalità storica che esiste tra la Fiorentina e la Juventus. Ma scrivere "Viola merda" a Firenze è impensabile; è una sorta di rivolta. La rivolta che sfocia nell'affermazione categorica: tutto merda. E "tutto" non è una parola leggera. Tutto significa tutto. La Juventus, la Fiorentina, la colonnina, i contatori, il quartiere, Firenze, l'Europa, il mondo, l'universo intero.

Sull'altro lato della colonnina, una cosa assai curiosa. Un'altra scritta. Con lo stesso pennarello e la stessa calligrafia. C'è scritto: "Arianna la da [senza accento] a tutti". Ciò presuppone con forte probabilità che Arianna la dia sì a tutti, fuorché all'autore della scritta. In una di quelle storie istantanee di cui parlavo sopra, l'autore, presa coscienza dell'impossibilità di farsela dare da Arianna, stabiliva poi la terribile vendetta generale esplicitata nell'attribuire a tutto quanto la consistenza della merda (Juventus, Fiorentina e Arianna comprese); ma in un'altra versione accadeva l'esatto contrario: l'autore, preso definitivamente atto che tutto è merda, regolava un ultimo conticino con Arianna che non gliela aveva data.

E se gliel'avesse percaso data?

"Juve merda, forza Viola, la vita è meravigliosa e Arianna è il suo fiore"?

Chi lo sa.

Poco più in là, infatti, oltrepassata la casa del popolo, la stessa mano ha tracciato l'ultima scritta, con lo stesso pennarello nero. Dice: "Non so". L'ultima, o la prima?

martedì 14 agosto 2007

Homo sine pecunia


A pensarci bene non è stato molto tempo fa. Quanto? Sei, sette anni fa al massimo. Due argomenti che forse non mi sono congeniali; o meglio, che non mi sono congeniali perché ho sempre cercato di rimuoverli. Oggi, invece, ne voglio parlare, della vergogna e del denaro. Perché mi è tornato in mente di una cosa vergognosa, e neppure l’unica, che ho fatto quando non avevo una lira in tasca. L’espressione “chiudere i conti” qui sicuramente non vale, perché il conto non è affatto chiuso; ed è un conto molto pratico, un milione e mezzo delle vecchie lire, che ancora devo a degli operai, a dei lavoratori che erano venuti a farmi un servizio per guadagnarsi il pane.

Era vecchia, quella casa. Vecchia, strana, malandata e brutta. Ci abitavo con la mia ex moglie, a Livorno, e come campavamo lo sanno soltanto chi allora mi frequentava, intuendo e capendo senza parlare, e il padreterno. A volte non avevamo neanche i soldi per fare la spesa. Si batteva chiodo dappertutto. Io non lavoravo quasi più, essendomi bruciata tutta una professione che fino a non molto tempo prima mi aveva comunque fatto vivere dignitosamente in infelicità, in alcool, in notti terrificanti, in discussioni interminabili, in post sui newsgroup e sulle mailing list. Non so dire se scrivere mi abbia salvato o rovinato. Ancora non lo so dire.

Prima che tutto finisse, prima che il coraggio di mettere fine a tutto questo, che mi era sempre mancato per inerzia e mancanza di volontà, non fosse venuto a trovarmi di sua iniziativa, stufo, incazzato e aiutato da un’altra persona, ogni giorno mi ritrovavo a dover affrontare la vita quotidiana. E la affrontavo, senza mezzi termini, vivendo di espedienti. Sul lavoro, ed a ragione, nessuno si fidava più di me. Mi davano una traduzione e non la facevo perché avevo da scrivere altre cose. Col mio orgoglio di merda mi rifiutavo di andare a fare un lavoro qualsiasi, anche malpagato, ma che mi desse un po’ di sollievo. Chiedevo fin dove potevo: in famiglia, agli amici. Ma non era possibile andare avanti. In più, Internet allora si pagava, e salata; arrivavano a volte bollette stratosferiche, e non so quante volte il telefono mi è stato staccato. Solo allora mi davo da fare, perché senza quello sfogo, senza mandare in giro le mie cose ed avere quella specie di mondo parallelo dove cercavo di infilare la vita che non avevo, non potevo campare.

Nel 1998 la Sip, con un debito di quasi dieci milioni, ci tagliò definitivamente il telefono. Scomparvi. Per sei mesi. Nessuno sapeva dove fossi. Ricomparvi con questo espediente: la vecchia vicina di casa, la Carmelina, non aveva mai avuto il telefono. Riuscii a convincerla a fare un contratto, pagandolo con qualche soldo che in quel tempo avevo pur messo da parte. Vennero i tecnici e fecero l’allacciamento. Poi presi una prolunga di dieci metri e la feci passare per la corte interna, collegandola al mio telefono e, soprattutto, al modem. Si poteva tornare a scrivere, a mandare in giro quel che si aveva dentro. Con uno strano numero, 0586-885575, che sull’elenco risultava intestato a Rossi Carmina, via Garibaldi 41, Livorno. Nuove bollette stratosferiche. Nuovi tagli. E nuovi espedienti per pagarle, visto che perlomeno la dignità di non gravare sulla pensione al minimo di una povera vecchia mi era rimasta. Lo riallacciavano, il telefono, ed eccomi di nuovo a scrivere.

Poi c’era il bagno, quel maledetto bagno che si intasava di continuo. A volte allagando di merda tutta la casa, perché i problemi erano alla colonna di scarico del condominio. A volte la merda usciva dalla doccia. Alla fine vennero gli operai a ripararlo, quello scarico. Tranquilli, disponibili, simpatici. E fecero un buon lavoro. Bisognava pagarli. Ma di soldi non ce n’erano. Nemmeno uno. Aspettarono dieci giorni. Quindici. Poi cominciarono a suonare al campanello.

Il periodo più assurdo della mia vita. Al campanello non si rispondeva più. Se doveva venire qualcuno di conosciuto bisognava che facesse il “segnale”, tre squilli brevi seguiti da uno più lungo. Appostamenti alle persiane della camera, che davano sull’ingresso. E quando si doveva uscire, lo si faceva con attenzione, a orari sempre strani, camminando rasente ai muri e infilandoci immediatamente nei vicoli di quella specie di casbah che c’era dietro via Garibaldi. Perché non c’erano soltanto gli operai, lavoratori che avevo ignobilmente fregato, ma anche i negozianti che non pagavi da mesi; guai a passarci davanti. Una vita che definire da clandestino era tutt’uno. I giri di notte. I giri di notte non erano nulla di poetico, anche se la poesia qualche volta saltava beffardamente fuori. Erano una necessità. Erano l’ora d’aria. Ossigeno che veniva bruciato nella bottiglia, dato che l’acqua, ovvero la chiarezza di pigliare la situazione in mano e andarmene da quell’inferno dove un’estranea che in qualche post fingevo di “amare” mentre in realtà la odiavo e tutta una serie di altre cose mi avevano cacciato. O dove mi ero andato a cacciare con la mia poeticissima inconcludenza, che mi ha fatto scrivere tante belle e profonde cosine, ma che mi aveva trasformato in un coltissimo e disperato zombie.

Una volta, però non ce la feci a sfuggire a quegli operai. Era un primo pomeriggio di marzo, pochi giorni quella “piola” che mi ha salvato la vita. Sarà magari buffo leggere questa cosa per chi era presente, quel 30 marzo 2002; eppure, quando ci ripenso, oramai lo faccio in questi termini. Era la cosa migliore, e forse immeritata in positivo, che potesse capitare a quell’immonda testa di cazzo che ero diventato.

Dovetti uscire per non mi ricordo che cosa. Ed eccoli lì, davanti, parati con un sorriso di scherno. “Ehi, òmo di merda”, mi fece uno. “Ma non ti vergogni, ladro?”, mi fece un altro. Il terzo non parlava; era il più grosso. Com’ero conciato allora, sarebbe forse bastato il più piccolo a riempirmi di cazzotti, e a Livorno il cazzotto non si lesina. E io a testa bassa, senza dire nulla, con le chiavi della polo blé in mano. Entrai dentro la macchina, mettendo in moto e andandomene via. Non li ho più rivisti. Nel “bignami di riccardoventuri” ci deve stare anche questo, sennò è un bignami incompleto.

Lo scrivo, questo bignami, da un ufficio. Via Pancaldo 25, Firenze. Dove faccio il mio lavoro di traduttore di testi tecnici, ma stavolta con uno strano tipo di contratto (le stranezze non sono cessate nella mia vita, ma va bene così) che mi fa vivere senza più problemi. A volte mi domando come mi sono rimesso in carreggiata, ma è una domanda che non ha risposte. O forse ne ha dieci, cinquanta, cento, corrispondenti a tutte le persone che mi hanno aiutato. La domanda vera dovrebbe casomai essere: perché lo hanno fatto? Che cos’è che, nella mia persona, fa volere bene? E questa è una domanda cui non posso rispondere.

E cerco di starci, in questa carreggiata, facendo estrema attenzione. A volte persino scontentando quelle stesse persone che mi vogliono bene. A volte tornando a scontentare me stesso. Ma la faccia di quei tre operai ce l’ho sempre davanti, e mi chiedo se mi riconoscerebbero nel caso che m’incontrassero. Vergogna, òmo di merda. La vergogna dell’uomo adulto che non aveva un soldo in tasca, di un povero truffatore, di una larva. E’ questo che non voglio mai più ritrovarmi a dover vivere, anche a costo, io odiatore del lavoro, io “critico radicale”, di starci nottate intere, a lavorare. Perché non devo più scappare da nessun operaio, da nessun fornaio, da nessun negoziante. Perché la tizia che adesso sta con me non deve più cacciare fuori il portafoglio quando si va a mangiare fuori. Perché, quando vado in vacanza, non devo più "stare alle regole" di chi mi ospita, anche se è tua madre, ma faccio quel che cazzo mi pare perché l'appartamento me lo pago. Sono cose molto terra-terra. Sono cose meravigliose. E sudate.

Perché in quel bagno allagato di merda c’era pur sempre uno specchio. E mi ci specchiavo, con quella faccia che ho ancora adesso. Mi guardavo, e mi rendevo conto. Trovavo tutte le mattine conferma a quel detto latino che dice: homo sine pecunia, imago mortis.

lunedì 13 agosto 2007

La terra di nessuno


Buffa cosa ritrovarsi in macchina, dopo mesi e mesi. Non che non ci sia andato in macchina in tutto questo tempo, non che non abbia guidato; ma una macchina a disposizione, seppure prestata, seppure per qualche giorno, era un po’ che non la avevo. Tutta mia, insomma. Una bizzarra scatoletta di un’amica che è partita col fidanzato per le vacanze in Sardegna, dopo una piccola operazione; una Panda vecchia di vent’anni, targata Bergamo con tanto di tondino della Lega sulla targa assolutamente incancrenito (e pensare che l’amica che mi ha prestato la macchina è calabrese). Come se non bastasse, questa mia amica è pure devota della madonna del suo paese (l’Italia, come è noto, è un paese basato sulla pluralità delle madonne) e, sul parabrezza, ha appiccicato il relativo adesivo che riproduce l’immagine di questa santa vergine. Ieri pomeriggio, in una domenica quasi deserta e afosa, sono andato ad accompagnarla dal fidanzato con le valigie, e poi me ne sono tornato a casa attraversando la città con quel mirabile automezzo interamente a mia disposizione.

Ritrovarsi da solo alla guida. Un tempo è stato uno dei miei facitori preferiti di pensieri in libertà, di sogni a occhi aperti, di improbabili dialoghi immaginari con vari personaggi (la mia ex di turno, lo stronzo con cui avevi avuto una discussione, l’amico perso); quante gliene ho dette alla guida, su strade urbane e extraurbane. I chiarimenti mai avvenuti, che non sono mai potuti avvenire per semplice e definitiva interruzione del rapporto; le cose che, quando ce n’era stata magari l’occasione, non si è avuto mai il coraggio, la forza o la presenza di spirito di dire. Mi è successo tante volte, in passato, di avere di codeste conversazioni mentali, ora pacate, ora agitate, ora addirittura accompagnate da gesti, da risate e da lacrime. Qualche automobilista di passaggio, che mi ha incrociato, mi avrà sicuramente visto qualche volta; e mi domando che cosa debba avere pensato in quel momento. Anche nulla, va da sé.

Così, ieri, ho riprovato dopo tanto tempo a stabilire un contatto automobilistico con certe persone e certe situazioni del mio passato. O forse del mio presente, o forse del futuro. Nel pensiero la temporalità è, spesso, disturbata, interferita, accavallata; in ogni caso indefinibile. Nel pensiero libero tutto è possibile, die Gedanken sind frei; e così si possono stabilire persino incontri immaginari, interventi miracolosi (in questo caso si tratta davvero di dei ex machina!), soluzioni mai avvenute, vendette raffinate. Quante volte, in automobile, mi sono ritrovato ad essere una specie di Conte di Montecristo. Insomma, tutta una casistica piuttosto vasta. Di materiale ne ho sempre avuto parecchio. Basta cambiare le marce, pigiare i pedali; basta non perdere quel minimo di concentrazione necessaria per osservare i segnali, per fermarsi ai semafori, per badare alla circolazione. Tutto qui. Ma ieri non mi è riuscito. Avevo la testa completamente vuota, come se tutto si fosse cancellato.

Ci ho provato, eccome. Ho messo in campo tutto il teatrino della mia vita, tutti i normalissimi rimpianti e rancori, tutte le delusioni, tutti i sogni che mi hanno accompagnato per questi quarantaquattro anni di esistenza. Nulla. Il vuoto pneumatico. Poi sono arrivato al semaforo di piazza Puccini.

Uno di quei momenti qualsiasi in cui, all’improvviso, le cose arrivano. Chiare, limpide, nell’attimo giusto. Non potrebbe essere un momento diverso. Sarebbe bastato un momento prima, in cui l’attenzione era distolta dallo scalare di marcia e dal frenare; o un momento dopo, in cui avrei dovuto mettere la prima e ripartire (“attento a non tirare la prima”, mi avrà raccomandato la mia amica diecimila volte). E’ arrivata, quella cosa, mentre ero fermo. Tra una macchina scura con targa spagnola e una Peugeot 206. Mi è arrivata la consapevolezza che non me ne frega più un cazzo di niente, ma assolutamente di niente. Non m’interessa più di conversare, di incazzarmi, di gesticolare, di ridere o di piangere per delle figure che sono svanite. La certezza di avere chiuso i conti, e se non c’è stata la possibilità di chiuderli a quattr’occhi, pazienza. Sempre che, poi, le cose possano davvero essere chiuse a quattr’occhi; sempre che anche questa non sia nient’altro che un’illusione.

Anzi, le cose, mi sono poi detto percorrendo la fatidica via del Ponte alle Mosse, sono state più chiuse nella mia testa in tutti questi anni, guidando automobili raffazzonate, alfe romeo scassate, polo blé senz’olio, fiat uno col tetto sfondato, honde HRV altrui tenute impeccabilmente. Definite e chiuse. Le cose sono state dette, magari con la segreta speranza che giungessero in qualche etereo modo a destinazione. A volte mi sono ritrovato persino ad averne la certezza!

E così in questa vecchia panda bianca mi sono gustato il guidare e basta per la mia città in una domenica d’agosto. Tutto dato e tutto ricevuto. I ricordi, belli e brutti, ricondotti alla loro essenza e ad un loro equilibrio. Non so come chiamarla, questa cosa; è possibile che non abbia neanche un nome; o forse ce l’ha, ma me lo tengo per me. E’ bene tenersi sempre qualche cosa per sé, è bene a volte rifiutarsi di condividere cose che, quando invece le hai condivise, spesso e volentieri ti sono state poi utilizzate sul muso.

Ma stamani ho voluto fare un’ultima riprova. Così, tanto per fare. Dovevo andare in ufficio. Di solito ci vado in treno, e avevo pensato, anche per risparmiare un po’ di benzina, di andare in macchina soltanto fino alla stazione del Campo di Marte. Invece, alla fine, quasi la macchina ha puntato da sola verso “Firenze Nova”, trovando persino un bar aperto dove pigliare un caffè e leggere del primo goal di Luca Toni con la maglia del Bayern di Monaco. L’alternativa sarebbe stata leggere le scuse di Caruso, e non ho avuto nessun dubbio su cosa leggere mentre sorseggiavo il caffeino.

Niente. Di nuovo guidare e basta, e guardare. Godersi persino il peraltro scarso traffico di questo lunedì tredici agosto. Canticchiare qualcosa. Magari, un giorno, vi saranno nuovi personaggi con cui conversare, nuove illusioni, nuovi gesti. Per ora mi godo, o semplicemente vivo, questa specie di terra di nessuno dove ci sono solamente io. Il ventiquattro di agosto andrò a restituire la panda bianca alla sua legittima proprietaria, che non saprà mai cosa è accaduto dentro alla sua macchina. Tanto questo blog non lo legge.

giovedì 9 agosto 2007

Un giro in bicicletta


Nove agosto duemilasette. E' quasi un mese che non metto più niente su questo blog. Un po' perché ci sono state di mezzo le vacanze, un po' perché quando torno sono sempre lentissimo a "ripartire" con le cose che faccio. A volte non sono neppure ripartito e tutto si è interrotto. Ad esempio il "racconto dell'estate" di cui avevo pubblicato già due puntate qui dentro: ma lo riprenderò, e se per caso sconfinerà nell'autunno, pazienza. Nel frattempo, ricomincio a infilare qualcosa nel "Bignami di riccardoventuri", qualcosa che ancora una volta ha a che fare con l'Isola d'Elba. E' un vecchio post del settembre 2003, spedito al ng di Guccini perché in fondo, in un qualche modo, Guccini lo aveva "ispirato", che parlava della mia vita elbana di allora, in un periodo che sarebbe poi sfociato nell'ineluttabile fine di un amore e nell'inizio di un altro. Nel frattempo, cosa facevo? Giravo in bicicletta. Non avevo l'automobile, così come non la ho adesso; solo che adesso non ho più nemmeno la bicicletta. Quella nera del post si è schiantata l'anno dopo, le è partita la catena, il manubrio, ogni cosa. Vado a piedi, oppure piglio l'autobus o il treno. Ma non è che si parlava soltanto di una bicicletta, in quel post (poi persino ripreso da "Bielle", da cui è tratta l'illustrazione a suo tempo studiata da Giorgio Maimone in persona); si parlava di nomi di strade. Sono importanti, i nomi delle strade. Sono anche loro una parte della memoria, e alla fine ci resterà soltanto quella. La memoria e i ricordi delle piccole cose.

E' una vecchissima bicicletta nera, senza fanale, di quelle che fanno sdeng sdeng a ogni pedalata; nella camera d'aria della ruota posteriore ci devono aver nidificato, perché ogni tanto, specie in discesa, ci si sente venir fuori un chiarissimo pigolìo come d'un pulcino.

E' la mia bicicletta qui, ora che sono finalmente regredito allo stadio di ex automobilista; cerco di non farmi dispiacere la cosa e, come sempre si fa, di concentrarmi sui suoi vantaggi. Certo, non lo nego, una macchina mi farebbe comodo; ma ora come ora non me la posso permettere e l'altro giorno sono inorridito ascoltando un servizio giornalistico sui prezzi delle assicurazioni. E così, mi faccio delle belle pedalate, sovente in memoria del fiato che fu. Più di tanto non mi posso spostare, l'Elba non è uno scherzetto e ci son delle salitelle che schianterebbero anche un grimpeur colombiano.

Qualche giro in paese e al porto, o nella campagna qui attorno (visto che ho, biciclettescamente, la fortuna di abitare in una delle rare piane di quest'isola di montagna); la vecchia "Nerona" ci ha, tra le altre cose, uno di quei rapportini fissi che ammazzerebbero un bove. Deve venire, credo, da qualche nebbiosa piattitudine; casa sua sarà stata in un luogo imprecisato fra Guastalla e Pomponesco, e somiglia terribilmente a quella inforcata da Don Camillo nei famosi film.

Ora, l'altro giorno, e per esser più precisi ieri sera, mi è venuta voglia di fare un giro in una plaga qui vicino; uno dei vantaggi della pedalata è senz'altro quella di starsene nel sole settembrino dell'ultim'ora, senza nessuno fra i coglioni (la gente la sopporto sempre di meno e arriverà il momento che non la sopporterò più) e, come diceva il poeta, assorto nei propri pensieri; i quali pensieri mica devono essere per forza rivolti ai massimi sistemi. Le classiche domande, "da dove vengo?" e "dove vado?", hanno una facile risposta: vengo dal Formicaio e vado a Ciampone. Passando però per la Piastraia e per il Crino. Tiè, vainculo anche alla strada provinciale.

A questo punto bisogna fare una premessa di carattere amministrativo.
Per una volta tanto, sia lode al Comune di Campo nell'Elba, che ha deciso qualche tempo fa una vera e propria rivoluzione toponomastica. Le strade di paese e di campagna avevano dei nomi antichi, a volte antichissimi; ed anche se non c'erano i cartelli, tutti sapevano dove andare. Poi, verso la fine degli anni '50 e, soprattutto, con gli anni '60, scoppia il turismo e il Comune di allora decide di farsi bello; e dal paese scompaiono la "Via Foresta", la "Via Tronca", la "Via del Vapelo", la "Via delle Case Nuove", la "Via per Portoferraio", la "Via del Chiuso Torto", la "Piazza della Fontana" e tante altre, per far posto a stronzate come, rispettivamente, "Via Firenze", "Via Mazzini", "Via Giosuè Carducci", "Via Bologna", "Via Pietro Mascagni", "Via Amalfi" (ma cazzo c'entra Amalfi con Marina di Campo?) e "Piazza Milano".

Due anni fa, visto che tra l'altro i cartelli cadevano a pezzi e si erano sovrapposte varie numerazioni -di modo che, ancora, accanto a certi portoni ci sono tre targhe, una col n° 22, l'altra col 64 e l'ultima col 248, si dà il via alla revolùscion: numerazione civica metrica (il numero dove abito, al 24 di via dell'Orzaio, significa che abito esattamente 24 metri dopo l'inizio della strada; mia cugina degli Alzi abita ad esempio al n° 1326 di via della Costa, cioè 1 km e 326 metri dal capovia) e, soprattutto, ripristino integrale dei vecchi nomi delle strade, comprese le infinite stradette di campagna che si son viste riconoscere finalmente il proprio nome dopo qualche secolo, con tanto di cartelletto bello lucido e pure fosforescente. Al macero le piazze Milano e le vie Carducci, ed ecco di nuovo la piazza della Fontana e la via del Vapelo. E pure la piazza del Tembièn, e chi se ne frega se è un nome un po' fascistotto e riporta alla memoria battaglie abissine, Adua e il generale Baratieri. Si chiamava così da sempre quella piazzetta sul porto, e bài bài pure a Giovanni da Verrazzano.

Eccomi a giro per quelle viuzze che mai si sarebbero immaginate, un giorno, di farsi leggere da Echelon perché a un tizio, una sera, gli è venuta la voglia di parlarne. Canneti, vigne, alberi, giardini di qualche vecchia casa in rovina o di qualche villetta che dorme finalmente il suo sonno dopo le folle agostane. Non ho nulla per la testa; non voglio averci nulla; guardo solo, meravigliato, quei cartelli nuovi nuovi con dei nomi vecchi vecchi. La memoria, per una volta tanto, viene salvata; e rivedo tutto l'oceano dei morti, e i loro visi, e risento le loro voci pronunciare quei nomi, e vicende buffe o dolorose che m'erano raccontate; gli Olmi, gli Alzi, il Pra' d'Arighetto, Castiglione, l'Arnaio. Sono tutti scritti là. E chi sarà stato quell'Arighetto che ci aveva il pra'?

Ma di un nome non avevo mai saputo niente. Me ne sono accorto all'improvviso sbucando da via del Ciampone. Via della Pavana. Mi sono fermato e sono sforcato dal sellino per controllare meglio: sì, è proprio Via della Pavana. Magari l'accento è spostato, ma è una questione del tutto insignificante. Toh, mi son detto, questa la voglio scrivere sul newsgroup, a trecento metri da casa mia c'è sempre stata una Pavana e non lo sapevo. Nessun gesto clamoroso, non mi sono messo a berciare nessuna canzone di Guccini; Guccini, qui, non c'è mai stato e non ci verrà mai. Ma lui canta la sua, di Pavana; ed io la mia, anche se forse l'accento è sulla seconda sillaba.

Non c'è nulla in quella strada; si perde in mezzo a un campo di qualche cosa, ma non di grano. Forse di erba medica, o forse semplicemente d'erbacce. Chissà da cosa le sarà venuto quel nome; che pure, come tutti i nomi, ha un'origine e una storia. Ma non si saprà mai; stat rosa pristina nomine, nomina nuda tenemus.

E me ne son tornato a casa.