giovedì 30 agosto 2012

Insorgenze, nomi, classi


"Le note mortuarie che sogliono pubblicarsi dalla municipalità di Milano, portano pei gloriosi giorni di marzo tutto il pregio d'un monumento istorico.
I giornali della congrega patrizia arrogarono immodestamente e ingiustamente poco men che tutto a lei il merito di quella battaglia di cinque giorni che mandò rotto al Mincio l'esercito austriaco. - Ebbene qui ci sta innanzi il registro funereo. Udiamo la testimonianza che sorge dai sepolcri, sincera come la morte. Fino al 31 marzo si registrarono morti di ferite più di trecento.
Attribuiti all'ordine dei possidenti ne riscontriamo tre soli, e tutti popolani; un Ettore Zanaboni di Lodi, giovane d'anni 25; e due vecchi: Antonio Costa della Curia di Sant'Eufemia, e Antonio Grassi del suburbio di Porta Ticinese. Qui non v'era orma di patriziato.
Non vogliamo per ciò dire che nessuno di nobil famiglia offrisse il capo ai colpi nemici; e ben ci ricorda d'averne ammirato alcuno sempre fra i primi al pericolo; ma non sono codesti generosi che negano al popolo il suo diritto. Ed è forza pur dirlo, erano ben pochi; e se così non fosse stato, i casi della morte che colpirono li altri, non li avrebbero potuti così perfettamente risparmiare. Bene in grandissima maggioranza erano i signori là dove si proponevano frattanto li armistizii colla casa d'Austria, e poi tosto e nello stesso giorno le dedizioni senza patti alla casa Savoia; che per quel primo tentativo però non riescirono.
Ma, tornando a rimestare il cumulo dei cadaveri, vi ravvisiamo fra i più segnalati un Augusto Anfossi già mercatante e militare in Oriente e audacissimo condottiero alli assalti. Vi troviamo tre giovani ingegneri, Luigi Stelzi, Carlo Carones e Andrea Cassanini; l'istitutore Boselli e il prete Marco Lazzarini trucidato nel presbiterio di S. Bartolomeo. Troviamo l'ispettore alla strada ferrata di Monza Gerolamo Borgazzi, venuto con una squadra a soccorso della città; troviamo il giovine ragioniere Tomaso Barzanò; tre studenti, Perimoli, Chiapponi e Campato; due impiegati Giacomo Caccia e Carlo De Ceppi; tre scrivani; il cavallerizzo Foscati e il suggeritore teatrale Misdari. Il commercio è rappresentato da due mercanti, due mediatori e tre o quattro commessi, fra i quali un Petrolini ticinese. Fra cotesti Ticinesi -che furono anche i primi a rompere il confine per soccorrerci,- fu lodato e compianto in quei giorni l'intrepido feritore Giuseppe Broggi.
Soffersero gran numero di morti i commercianti di cose bisognevoli alla vita, anco perché più mescolati nei trivj col popolo combattente. Contammo non meno di 26 venditori di vino, d'olio, di latte, di droghe, di salumi, di frutta, di pane.
Ma la maggior turba degli uccisi doveva ben essere tra li operai; le barricate e li operai vanno insieme ormai come il cavallo e il cavaliere. Il sacro mestiere delli stampatori ebbe cinque morti, e troviamo fra i morti anche un legatore. Vi sono tre macchinisti, un incisore, un cesellatore, un orefice. Dei lavoratori di ferro e di bronzo morirono non meno di quindici; onde pare che questa forte razza fosse tutta sulle barricate. Ed è pur glorioso all'arte dei calzolaj il numero di tredici uccisi. Dei sarti caddero quattro; tre cappellai; e venti tra verniciatori, doratori, sellai, tessitori, filatori, guantai e anche un parrucchiere. V'ha una decina di muratori, scarpellini e altre arti edilizie. L'agricoltura ebbe le sue vittime nel fittuario Molteni, in un giardiniere, un ortolano e sei contadini. Un cadavere diedero le guardie di finanza e due i valorosi pompieri. Abbiamo infine parecchi facchini e giornalieri, e altri ignoti di mestiere e di nome; sine nomine vulgus. L'unica relazione che forse potrebbero avere codesti registi col patriziato è una lista di circa diciotto tra servitori, cocchieri, cuochi e portinai, alcuno dei quali sarà forse morto per procura de' suoi padroni. Gloria e potenza a loro; e requie a lui!
Quei feriti che soggiacquero a morte più lenta, saranno nei registri d'aprile e maggio, che ancora non avemmo.
Grande più che non si crederebbe è il numero delle donne uccise; alcune lo saranno state per caso, ma molte per coraggio e per amore; e alcune per ferocia dei nemici, che non solo imperversarono nelle parti indifese della città, ma nascosti sopra le aguglie del Duomo, si piacevano ad avventare insidiosi colpi ai balconi interni e alle finestre mai chiuse. Vediamo indicata una levatrice, una ricamatrice, una modista e tra quelle che si dicono alla rinfusa cucitrici, alcune giovinette. Quante storie di semplice affetto, e d'inosservato dolore vi stanno riposte! O poeti, interrogate questi sepolcri, e siate poeti della vostra gente.
Noi, raccogliendo solo il sommario significato di questi aridi ruoli, ripetiamo che il sangue dei cinque giorni fu veramente versato dal popolo e al popolo se ne deve gratitudine e gloria. Fu questa la prima vittoria dell'Italia contro l'oppressore, e diciamolo pure, fin qui, è l'unica vittoria vera; li altri sono fatti d'arme, onorevoli quanto si vuole, ma senza valevole acquisto di terreno; anzi con perdita dolorosa, assidua, vasta, di provincie e di città.
Dio la cessi! Dio ne conceda capitani che ci conducano una volta alle promesse Alpi!
Alle Alpi, alle Alpi chi vuol la pace! I patrizi si rammentino che le paci di Campoformio non furono altro mai che fugaci e perfide tregue, e che il tributo dei milioni richiesti dal nemico gli darebbe solo lena e nervo a fare a buon tempo più tremenda vendetta.
Il prezzo della vittoria fu pagato dai poveri.
La vendetta del nemico cadrebbe sui ricchi!"

Carlo Cattaneo, "L'insurrezione di Milano", pubblicata nel 1849.


mercoledì 29 agosto 2012

Quattrocento metri


A quattrocento metri da casa, qua sopra, c'è il bar. Quello delle pastarelle fresche, del grondino con il tuo amico, quello della barista carina ma un po' con la puzzetta sotto il naso. C'è, a quattrocento metri, la pizzeria napoletana anche abbastanza poco cara; e il supermercato dove vai a fare la spesa, cercando le offerte speciali, utilizzando i buoni sconto, facendoti segnare i punti fragola sulla tesserina. A quattrocento metri da casa ci sta la tua ex pischella del liceo, che è sposata, ha due figli e è in cassa integrazione col marito precario a cinquantaquattr'anni; e c'è il giornalaio dove ogni mattina arrivi trepidante per le notizie fondamentali, quelle sul calciomercato. Lo venderanno Jovetic, oppure resta? A quattrocento metri c'è l'ufficio postale, quello dove ti danno la pensione al minimo; c'era, una volta, la sezione del Gran Partito de' Lavoratori, dentro alla Casa del Popolo dedicata al partigiano o alla pace mondiale, e a quattrocento metri ci sono i lavori d'un cantiere che non finisce mai e che non si sa più nemmeno icché ci stiano a fare. A quattrocento metri gira il gatto, la notte, e la notte dei gatti è un mistero che nessuno potrà mai sapere; c'è il tabaccaio aperto ventiquattr'ore, con la sequela di ogni forza dell'ordine possibile e immaginabile che va a pigliarsi il caffeino durante le ronde notturne. Carabinieri, polizia, guardia di finanza, vigili urbani, una volta ci ho visto persino le guardie forestali e una guardia zoofila; ci manca solo la compagnia del capitano Frans Banning Cocq con pittore fiammingo al seguito. E sono quattrocento metri per le strade o in linea d'aria, che non si percorre mai perché l'aria non ha linee ma solo vento. Impercettibile, ma vento che soffia, e sta a noi cogliere sempre ogni suo movimento e sommovimento.

A quattrocento metri là sopra le nostre teste c'è la collina che ti garberebbe tanto averci una casetta sopra, con l'orto e i paperi, con il pergolato e un po' di pace; da andarci quando in città si schianta dal caldo, oppure a pigliarsi qualche fiocco di neve che non diventi immediatamente una poltiglia nera d'idrocarburi. C'è il pappagallino cocorita che è volato via dalla gabbia, e non lo senti più cantare; eppure te lo dicevano, uccello in gabbia non canta per amor, canta per rabbia. E, infatti, a quattrocento metri non si sa in quale direzione c'è anche la galera, muri alti, ringhiere invalicabili, torrette di guardia e una morte quotidiana a buon mercato. A quattrocento metri, sopra, può arrivare un palloncino colorato sfuggito dalle mani di un bambino; i suoi resti, poi, precipiteranno dimenticati ma dopo aver donato un minuto di contentezza. A quattrocento metri svetta l'antenna della radio, con le sue onde che si perdono nell'etere; e la pieve a mezza costa, che prima si vedeva da ogni parte ma che ora è stata coperta dalla scuola degli sbirri in costruzione, da quella specie di metastasi tumorale spuntata dalla piana. E sono quattrocento metri dal suolo verso lo spazio infinito, quattrocento metri fino al bar ai confini dell'Universo. E anche lì, sembra, c'è la barista carina ma con la puzza sotto il naso; però, per andarci, bisogna fare l'autostop con la guida galattica.

A quattrocento metri sotto, invece, ci sono terra, roccia, acqua e fuoco. C'è un caldo infernale. Qualcuno, ci dicono, ci ha scavato dei buchi; e ci sono impalcature, scale, binari, lampade per fendere le tenebre, macchinari, ascensori. Ci sono guantiere di paste portate, chissà, dal bar distante altri quattrocento metri, ma pochissimi di noi sanno quale differenza passi tra l'orizzontale e il verticale. Ci sono telefoni e interruttori; ci sono sudori e puzzi d'ogni cosa, di terre e zolfi, di pisciate e sostanze, di livori e di esseri umani. Ci sono, quattrocento metri là sotto, le fini e gli inizi di cento, mille, diecimila storie. C'è il diavolo che sa assumere la forma d'un gas o d'una silicosi. Ci sono facce che dicono tutto con un cenno degli occhi; ci sono accenti duri e grida di chi, un giorno, non è più tornato sopra. Ci sono le paure declinate affermando la loro assenza per una lotta che dovrebbe essere di tutti noi, in qualsiasi senso volessimo e dovessimo percorrere i quattrocento metri d'ogni giorno che ci sta portando all'annientamento; ci sono durezze che traspaiono e che sarebbero capaci di bucare l'oscurità anche senza una lampadina attaccata ad un copricapo di lavoro. C'erano, un tempo, gli uccelli che facevano scappare tutti quando stramazzavano morti; ci sono brividi che non sanno fermarsi, perché quando i minatori sono disposti a chiudersi là sotto, nei budelli della crosta terrestre, significa che là sopra c'è qualcosa che sta cercando uno sfiato. E ci sono, quattrocento metri là sotto, quattrocento chili di roba che scoppia. Non sembra che alla cosa sia stato dato ancora il debito risalto, fra governi, equitalie e leggi espettorali; eppure, la miniera, prima o poi, salirà.

lunedì 27 agosto 2012

Aspettando un altro autunno


"Ehi, cazzo, ma li hai visti i minatori del Sulcis?..." No, non li ho visti. Non credevo nemmeno che ci fossero ancora dei minatori, né in Sardegna e né in Italia in generale. Le miniere di questo paese, che peraltro non sono mai state tante, appartengono per me alle prime classi elementari, quando sul sussidiario si leggeva ancora che l'Italia era "il primo produttore di mercurio del mondo"; e che orgoglio, accidenti. A parte i termometri per la febbre, nessuno sapeva che diavolo ci si facesse col mercurio; eppure l'Italia era in testa, ci aveva la medaglia d'oro del mercurio. Lo si estraeva qui in Toscana, fra l'altro, sul monte Amiata; e quando venni a saperlo, un po' più tardi, altre bordate d'orgoglio fra i ragazzi di classe mia. I minatori dell'Amiata; e c'erano altre miniere in Toscana, in Val di Cecina, a Ribolla; ne sa qualcosa Luciano Bianciardi, di Ribolla, che fece in tempo a vederne morire a decine di minatori, il 4 maggio 1954, prima di andarsi a fare la sua vita agra a Milano, a spiegare l'etimologia germanica di "Brera" e a voler far saltare in aria il "Corriere della Sera" con tutto il suo carico di Montanelli e di altri pezzi di merda del genere. I minatori, ora, non ci sono più; finito il mercurio dell'Amiata, finito ogni cosa, finite le viscere di una terra che, a pensarci bene, da queste parti è tutta viscere. Un'immensa cava di budelli messi a nudo. E così, mentre anche oggi ci viene ammannita la nostra repressione quotidiana, gli ultimi minatori, in Sardegna, scendono nella fossa portandosi dietro esplosivo e rabbia, e non si sa quale debba scoppiare di più. Ci spiegano, ora, come è stato ammazzato quell'ultimo rimasuglio di attività mineraria in questo paese, e i minatori scendono là sotto a minacciare di fare un Germinale alla rovescia. Lo avete letto tutti, vero, il Germinale di Emilio Zola? Pare che lo scrittore, che amava essere realista al massimo grado, per sei mesi prima di cominciare a scrivere quel libro fosse sceso anche lui in miniera, mescolandosi ai minatori e condividendo la loro vita; a me, invece, è toccato per un po' di condividere la loro disoccupazione decennale. Coi ricordi che sbiadivano e si smangiavano nelle nebbie, l'alcool a fiumi, le famiglie disgregate, l'immigrazione, il Fronte Nazionale al 35%; ho visto il dopo e le schiere di corons trasformate in casette quasi chic, appetibili dal ceto impiegatizio o dai giovani intellettualini alla moda; rimaneva qualche canzone, rimanevano i terrils. Nel Sulcis? C'è una città, fondata durante il fascismo, che si chiama "Carbonia". Col carbone del Sulcis sembrava di aver trovato chissà cosa; ora i minatori, gli ultimi, sono lì con l'esplosivo. Tre quintali e mezzo, sembra, a 400 metri di profondità, sottoterra. 2000, 4000 posti di lavoro a rischio, e di un lavoro che non sarebbe mai dovuto nemmeno esistere, e che ha chiamato in un profondo senza ritorno decine di migliaia di vite, così come continua a fare in Cina e dovunque le miniere esistono ancora.  Eccoci qua, allora, a aspettare ancora un altro autunno.

Perché ogni anno lo si aspetta; ogni anno, in autunno, c'è la rivoluzione. Comincia sempre verso la fine dell'estate, ancora col caldo africano e coi primi temporali, che da quest'anno ci hanno pure dei nomi uno più cretino dell'altro. La rivoluzione, ogni anno, è assolutamente certa; arriverà l'autunno e non ce ne sarà più per nessuno. La faremo finita una buona volta; le avvisaglie ci sono tutte. I carburanti a prezzi spaventosi, i prezzi in ascesa vertiginosa, le utenze oramai insostenibili; la situazione sociale deteriorata, lo scontro che monta, le lotte senza paura, la fabbrica che avvelena da una parte e che rischia di buttar fuori migliaia di lavoratori dall'altra. I "giovani senza futuro", i quali però per un periodo più che discreto sembra che abbiano giocherellato a non avere più un passato preferendo trastullarsi di inutili scemenze e di fughe, i centomila che vanno a riempire la fiera di Roma per fare i dottori, le Pussy Riot e i giochini in Rete con le "situazioni complicate", i flash mob e decine di altre stronzate del genere. Ma, tanto, non c'è da temere: da quest'autunno si farà sul serio. Siamo al consueto "punto di non ritorno" annuale, perché ogni anno non si può tornare indietro, almeno fino a Natale. Per questo l'autunno ha questo suo fascino immarcescibile, e tutta una simbologia sempre pronta all'uso. Tipo l' "autunno caldo", derivato da dei lontani ottobri e novembri quando parve che una classe intera, in Italia, avesse cessato di voler lavorare sotto un padrone. Poi sappiamo com'è andata, e conosciamo pipe accese, erre mosce, concertazioni, marce dei quarantamila e tutto il resto. E pensare che ci si stupisce ancora, a volte, di ritrovarci le Camusso quando ci abbiamo avuto i Lama e i Trentin. 

Via il governo degli affamatori! Beh, ci penserà l'autunno. Proprio quest'anno, è assolutamente impossibile che non se ne occupi; e quando si è mai vista una rivoluzione in maniche corte, in mezzo al sudore e agli anticicloni africani da quarantadue gradi? Per la rivoluzione ci vogliono i cappotti, le sciarpe che coprono il viso, le tute pesanti col collo alto del maglionaccio che spunta dall'apertura. La rivoluzione è stata d'Ottobre, che poi era Novembre, e mica di luglio; no, dev'essere d'autunno. D'autunno scoppiano le bombe nelle banche, mentre l'estate è riservata ai treni e alle stazioni dei lavoratori che vanno in ferie. L'autunno reca foglie morte e assemblee, apporta nebbie sulle pietrose contrade dello scontro sociale che avanza, nutre speranze e desideri, trasforma ogni passo in antagonismo e persino in pantomime di cospirazione. L'autunno ha l'odore della Questura che si muove nella notte e all'alba; ha il rumore delle masse che si agitano incontenibili mentre il termometro scende e soffia un vento gelido, ha il sibilo delle sirene e il fuoco degli spari. Poi succede che ti tira una fregatura, come l'anno scorso che si bollì dal caldo fino al venti di ottobre; quando uscii dall'ospedale, il trenta di settembre, c'era un sole estivo. D'autunno, la rivoluzione è sotto la pioggia battente, e qui non piove mai e c'è l'Arno che sembra oramai una pozzanghera verde maleodorante. L'autunno dovrebbe smetterla, una buona volta, di preannunciarsi e di farsi aspettare.

Ma non se ne può fare a meno. Ci si immagina già sulle barricate, senza pensare che le barricate oramai non servirebbero più a uno stracatacazzo di nulla e che sarebbero spazzate via in due minuti. Sulle barricate, poi, dovremmo gettare tutti i nostri cari oggetti, quelli che hanno sostituito la vita, e non sono sicuro che saremmo pronti a farlo. Si dovrebbero assaltare le galere, ma ci si dovrebbe armare decentemente; poi non serve sbavare davanti all'inizio del film Giù la testa, dove si ricorda che la rivoluzione non è un pranzo di gala, ma un atto di violenza. Perché, ogni autunno, si vorrebbe la rivoluzione automatica. Senza violenza, e magari, perché no, pure nella legalità. La rivoluzione delle manifestazioni e delle solidarietà a profusione. La rivoluzione basata su orge di "comunicazione", di "scambi", la rivoluzione su Facebook e su Twitter, ed in effetti in Siria e altrove c'è proprio una "situazione complicata". Con una bella spolverata d'autunno, è fatta; per questo lo aspettiamo tanto. Quest'anno non potrà mancare. Qui ci stanno, in effetti, ammazzando tutti; e ci ammazzano perché ci odiano. La avete vista la faccia della Fornero? E le pappagorge della Cancellieri? Le cravatte di Passera? L'umorismo di Monti? Ci odiano e ce lo dicono ogni momento, in ogni loro gesto, in ogni loro parola. Non basterà, stavolta, il campionato di calcio a fermarla, poi con quel Milan che farebbe inorridire anche Vincenzina davanti alla fabbrica e rimpiangere lo zero a zero anche ieri e 'sto Rivera che ormai non mi segna più. E gli studenti? Gli studenti, quest'anno, saranno ancora più incazzati, tranne stigmatizzare quelli che si decideranno a fare un altro quattordici dicembre. Che, peraltro, cronologicamente è ancora in autunno.

Poi arriverà Natale, e ci diranno che quest'anno sarà dimesso e povero, e che non potremo fare tanti regali. Ci ammanniranno gli indici dei consumi al ribasso stabile, perché Cristo ha trovato oramai la sua collocazione definitiva: quella di fungere da cartina di tornasole della situazione economica. Meno regalini si fanno per la sua nascita nella mangiatoia, e più si è in crisi; e sicuramente bisognerà vedere com'è messo il prezzo lordo dell'incenso e della mirra (l'oro è già stato venduto tutto ai "compro oro" per comprarsi la versione mensile dell' iPad). Ci saranno gli esami; qualcuno percorrerà i sentieri della Valsusa sotto la neve come pochi mesi prima li ha percorsi nel bollore, il non-cantiere continuerà a noncantierare e Caselli scriverà un altro libro andandolo a presentare in qualche libreria dove, in qualche angolo dimenticato, giacciono tuttora i Dannati della Terra di Frantz Fanon. Cose da autunno, certamente; sta per arrivare. Ci vediamo il ventuno di settembre, che per me è pure un certo anniversario non particolarmente gradevole; ma non potevo di certo crepare, no. Mi sarei perso quest'altro autunno, quello che sta per incominciare, dove tutto cambierà. Certo che tutto cambierà. Cambierà senza ombra di dubbio e, quando torneranno quelle poche rondini che ancora hanno voglia di venire da queste parti, vedrà un mondo nuovo.

E chissà che botto fanno tre quintali e mezzo di esplosivo a 400 metri di profondità.

sabato 25 agosto 2012

25 agosto, sabato, in una città deserta ancora per poche ore


"La cosa importante è sapere come prendere ogni cosa semplicemente. La scienza ci insegna a non trascurare niente, a non disdegnare gli inizi modesti, in quanto nel piccolo sono sempre presenti i principi del grande, come nel grande è contenuto il piccolo."

Michael Faraday.

giovedì 23 agosto 2012

Fetóvǫjokviða in grœnlenzka


Ci sono cose che sono state consuete per qualche tempo, familiari, di tutti i giorni; poco meno di trent'anni fa, ad esempio, avrei dato non so che cosa per vedere anche una sola volta un libriccino annerito dal tempo e dal fumo, conservato sotto una teca di vetro in una lontana isola boreale. Va sotto il nome di Codex Regius 2365 IV-to, o di Konungsbók, e quel che c'è scritto dentro, ce lo avevo in mano tutti i giorni o quasi; e quel che c'è scritto dentro, è l'Edda Antica.

L'Edda Antica sono i carmi di Odino, di Thor, di Loki, degli eroi Völund e Helgi, di Sigurðr (forse più noto come Sigfrido) e dei Niflungar (forse più noti come Nibelunghi); sono le vicende di Attila, le domande poste al nano onnisciente Alvíss, sono i consigli pratici dello Hávamál (il "manuale del perfetto Vichingo", come qualcuno lo ha chiamato), è la cosmogonia e l'apocalisse della Völuspá, la "predizione dell'indovina" dalla quale derivano tutte le storie sul crepuscolo degli Dèi. Sono tutte queste e altre cose; l'intera mitologia di una stirpe conservata in quell'unico libro, e soltanto in quello. Studiavo, allora, una bizzarra cosa che si chiama filologia germanica; ad essere sincero, non mi ricordo nemmeno più come mi fosse punta vaghezza di dedicarmici, e di voler imparare lingue come l'islandese antico. Ecco, l'Edda Antica è scritta in islandese antico (che, a rigore, non è molto diverso da quello moderno; una lingua rimasta pressoché cristallizzata nella sua forma medievale). Comunque la si voglia vedere e pensare, quel libriccino che desideravo tanto di poter vedere almeno una volta, è uno dei libri più importanti dell'umanità; dalla musica alla pittura, dalle storie romanzate ai film, dalle canzoni ai fumetti. Da Wagner al mitico Thor della Marvel Comics. Da Tolkien al nazionalsocialismo. "Importante" non significa necessariamente "positivo"; ci hanno pescato tutti quanti, da quel fiume. Magari senza nemmeno aver letto due righe intere di un carme, magari soltanto grazie a perifrasi, magari soltanto perché ogni tanto ne parlava Borges, quello che voleva rifare le kenningar in castigliano d'Argentina; il qui presente "Asociale", Venturi Riccardo di fu Alberto e Pasticci Luciana, da ragazzotto qualsiasi di diciannove o vent'anni, ne sapeva a memoria pezzi interi in lingua originale, e più che altro ci si era tuffato dentro. Come nel Ginnungagap, l' "abisso primordiale" delle prime strofe della Völuspá: Ár var alda, þar er ekki var / voru sandr né sær, né svalar unnir; / jörð fannsk æva, né upphiminn / gap var ginnunga en gras hvergi... 

Alla sua scoperta, il vescovo islandese si rese conto di aver trovato qualcosa di parecchio antico. Ci mise sopra una sorta di "ex libris", con le iniziali "LL" della traduzione latina (Lupus Loricatus) del suo nome di battesimo (in islandese, Brynjólfur vuol dire "lupo corazzato"). Poi comincia la storia della sua automatica attribuzione ad un erudito di quattro secoli prima, Sæmundr inn Fróði (Saemund il Saggio), talmente colto che gli erano stati attribuiti enormi poteri magici; e poiché un altro celebre erudito islandese, Snorri Sturluson, aveva scritto un'Edda (praticamente una "ars poetica" per i poeti cortesi locali, i cosiddetti scaldi) dove venivano citati brani interi di quegli antichi carmi perduti, al loro ritrovamento il vescovo pensò che non potessero essere di altri che del vecchio Saemund. E ce lo scrisse sopra, sempre in latino: Edda Saemundi Multiscii. Cosicché, ancora oggi, molti chiamano quei carmi "Edda di Saemund", anche se Saemund non c'entra assolutamente nulla. Non si sa nemmeno che cosa voglia dire esattamente "Edda", che poi si è trasformato in un nome di donna; certuni pensano che derivi da un sostantivo dal significato di "ava, vecchia", altri che sia una deformazione del latino edo "io pubblico, rendo noto" (così come da credo derivò in islandese kredda, il nome del Credo cristiano); altri ancora dicevano che Edda avesse a che fare col nome della fattoria di Saemund il Saggio, che si chiamava Oddi (il genitivo Odda vuol dire "di Oddi"). Il Codex Regius fu scritto in Islanda alla fine del XIII secolo, finendo presumibilmente tartassato per secoli; al suo interno è presente una grossa lacuna, otto o nove pagine scomparse, che ha inghiottito la metà di un carme chiamato Sigrdrífomál e ha lasciato un frammento ("Brot") di un altro carme che parla di Sigfrido. Non molto tempo dopo il suo ritrovamento, il vescovo islandese lo donò al Re di Danimarca, noto antiquario, che lo rinchiuse nella Biblioteca Reale di Copenaghen; da qui il nome di Codex Regius. Fu studiato e ristudiato, particolarmente da un famoso letterato islandese chiamato Arni Magnússon; la cosa è piuttosto ovvia, dato che solo un islandese poteva essere in grado di capire bene che accidente ci fosse scritto in quella lingua infernale con sessanta e rotte declinazioni diverse e tutte le sue metafore descrittive (le kenningar, appunto: kenna eitt við eitt, "conoscere una cosa da un'atra") basate su fatti mitologici alcuni dei quali sono tuttora controversi. Nel 1970, dopo 305 anni, il Codex Regius riprese la via dell'Islanda; nel quadro di un accordo tra di essa e la Danimarca, quest'ultima si era impegnata a restituire all'Islanda tutti i reperti che facessero parte inalienabile del suo patrimonio culturale. Il primo di essi fu quel libriccino scassato e mutilato. A Reykjavík, il governo islandese fece costruire un edificio apposito, l' "Arnagarður", per conservarlo; non l'ho mai visto. E poi, col tempo, cessò di essere una cosa consueta; la vita prese altre strade, e con essa i suoi libri.

La storia potrebbe anche finire qui; senonché, qualcuno dei miei settantasette lettori (non me li invento gigionescamente come i venticinque del Manzoni; che sono 77 lo dicono le statistiche ufficiali del blog) potrebbe ragionevolmente chiedersi che cosa ci faccia, sotto un titolo in ostrogoto o roba del genere, la foto di una spiaggia che, palesemente, non è in Islanda. Non che non lo è; è la spiaggia di Fetovaia, all'Isola d'Elba. E' una spiaggia che fa parte della mia personale, di mitologia; ci ho visto mio padre, quand'ero piccolo, brutalizzare di prese per il culo un turista tedesco che faceva il bagno con un cappello di paglia enorme quanto ridicolo, mi ci sono preso un paio di sbronze colossali, ci ho portato gente di notte in pieno gennaio e ci ho fatto persino terminare un racconto che aveva come protagonista un cantautore livornese resuscitato dai morti. Bene. A Fetovaia c'ero anche pochi giorni fa, per il fatidico ultimo bagno dell'anno. L'ultimo bagno è quello che deve servire per tutto l'inverno, quando si gela e si ha bisogno di scaldarsi a un ricordo mentre si desidera una nuova estate; il fatto è che quest'estate, non so proprio che cosa mi sia preso. Prima di partire per l'Elba, su uno scaffale ho visto l'Edda Antica, impolverata e non aperta più da vent'anni o giù di lì; e l'ho tirata giù. Una traduzione italiana, certo; il testo originale, quello che sapevo a memoria a pezzi e bocconi, è una fotocopia che dev'essere ancora a casa di mia madre. Edizione di Andreas Heusler, quella "standard"; solo che il libro originale costava più di 150.000 lire, all'inizio degli anni '80, e allora presi proditoriamente la copia della biblioteca universitaria e me la fotocopiai da cima a fondo. 

E così, a Fetovaia, mi sono portato l'Edda. Odino, e Thor.  L'Indovina. Gli Insulti di Loki, che gliene disse di tutti i colori agli Asi a banchetto, compreso dar di invertito a uno di essi (mik muno Æsir argan kalla); e a Loki bisognerebbe fare attenzione, perché quando riuscirà a slegarsi dalla scomoda posizione in cui un incazzatissimo Thor lo aveva sistemato, sarà l'inizio del Ragnarök, del Crepuscolo degli Dei o fine del mondo che dir si voglia. Altro che profezia dei Maya, queste sono cose serie; però qualcuno, a suo tempo, avrebbe dovuto dire a Hitler e compagnia che la fine del mondo sarebbe stata scatenata da uno, Loki appunto, che si divertiva a rinfacciare alle dee e alle valchirie di essere delle gran puttane, e agli dèi loro mariti di essere dei finocchi e degli impotenti. Tutto questo è contenuto nel Lokasenna; mi si perdoni l'estrema scorrettezza politica, ma così è nel testo.

Così, a Fetovaia, eccomi su una sdraio con quel libro in mano. Riaprirlo dopo decine d'anni, quasi a bocca spalancata. Rivedere tutto quanto, e rivedere un altro me; dell'Edda Antica sono state fatte due traduzioni complete in italiano, da tre persone. Le ho conosciute, di persona, tutte e tre. Il primo traduttore, nel 1951, fu il professor Carlo Alberto Mastrelli; quello della copia che avevo in mano sulla spiaggia. Con lui ho dato il primo esame universitario in assoluto, e una volta mi fece i complimenti perché conoscevo lo scioglilingua in cèco Strč prst skrz krk (il link wikipediano posso farlo, perché l'articolo lo ho scritto io). Gli altri due traduttori, in coppia, sono stati il professor Piergiuseppe Scardigli e il dottor Marcello Meli, nel 1982 per la Garzanti. Del professor Scardigli, il quale è peraltro defunto da un pezzo, preferisco non parlare; di Marcello Meli mi ricordo che era un giovane assistente baffuto, estremamente simpatico, che insegnava allora alla facoltà di lingue di Verona. Sua caratteristica era che sapeva formulare la domanda "soffri il pizzicorino?" in trentotto lingue diverse, compreso il sanscrito. Piaciuto il gossip eddico? Beh, anche se non v'è piaciuto ve lo tenete, perché ci pensavo su quella sdraio a Fetovaia. Poi mi sono messo a leggere l'introduzione del Mastrelli, 101 pagine fitte come rena. E, infine, i carmi. 

Piano, piano. 

Tornando a immergermi in quel mare lontanissimo, con davanti il mare cristallino di un altro luogo e di un altro tempo. 

Le abbreviazioni che mi tornavano a mente. I titoli sono complicati, e bisogna indicarli con delle sigle; la Völundarkviða è "Vkv.", l'Atlakviða in grœnlenzka è "Akv.", e così via. Ecco, pensate: è il "Carme groenlandese di Attila". Attila in Groenlandia, sicuramente a pigliare il fresco; e siccome uno non bastava, è seguito dallo Atlamál in grœnlenzko, il "Cantare groenlandese di Attila" (Atm.), che racconta le stesse vicende ma impoverendole, ingrigendole. Il fatto è che, con tutta probabilità, fu composto davvero in Groenlandia; ad un certo punto vi si trova un orso bianco. Attila e l'orso bianco. E vi si trova, soprattutto, una povertà da tagliare col coltello. La reggia del re Unno trasformata in scarna fattoria in mezzo ai ghiacci con oggetti di legno al posto degli ori e degli argenti. E il Cantar di Grótti, il Gróttasöngr, che però è conservato in un altro manoscritto; due disgraziate gigantesse schiave, Fenia e Menia, che giravano la mola Grótti con il quale un mitico re macinava di tutto, permettendo al mondo di vivere una sua "età dell'oro" sulla pelle, appunto, degli schiavi. Ricorda qualcosa? Finché le due gigantesse non si ribellarono, spezzando le macine e mandando in culo il re, la sua "età dell'oro" e tutto il resto; ma Goebbels, forse, non lo aveva mai letto.

Piano, piano; con lo sciabordare del mare e la ragazzina accanto che gioca a pallavolo con gli amici. E la signora milanese che legge il best-seller. E il Venturi che c'era e non c'era. Là e altrove. In diverse età, e con qualcosa di simile a due o tre minuscole lacrime agli occhi.

Così m'è venuto di scrivere questa cosa che, palesemente, non c'entra nulla con nulla. 

Le ho dato un titolo in islandese antico; significa Carme groenlandese di Fetovaia (Fkv.); intanto quel libriccino che non ho mai visto se ne sta in un'altra lontanissima isola, nella sua teca, col suo fumo nero e col suo tempo. E mi assomiglia, sempre di più.

mercoledì 22 agosto 2012

Caput Liberum e i marò


Il paese di Capoliveri, sull'Isola d'Elba, non è nuovo a questo blog; c'è, anzi, fin dai suoi primordi. Quattro giorni esatti dopo la sua nascita, infatti, mi era venuto di raccontare la storia del tedesco che vi portò la luce elettrica. Era il diciotto di maggio del 2007; pochi giorni dopo sarei andato all'Elba per una piola, l'ultima che sia mai stata fatta, e avevo pensato di scrivere una specie di "viatico" per tutti i partecipanti. Ora non è nemmeno che mi vada gran ché di spiegare che cosa siano state le piole e chi vi abbia preso parte; nella stragrande maggioranza, si tratta di persone, di cose, di luoghi e di vicende che sono consegnate ai ricordi, belli o brutti che siano. Capoliveri è un antico paese dell'Isola; qui sotto ve lo faccio vedere in bianco e nero.


Che Capoliveri sia stravecchio, non v'ha dubbio alcuno; probabile che il suo primo nucleo lo abbiano già visto gli Etruschi che lavoravano il ferro delle immediate vicinanze, e che avevano spinto i greci a chiamare l'Elba l'Isola delle Scintille (Αἰθαλία), o "dei Mille Fuochi" come la chiamò in un suo oramai introvabile libriccino del 1968 un ammiraglio di marina, Antonio De Giacomo, presso il quale mia zia andava a servizio. Erano le scintille e i fuochi delle fornaci per la fusione del minerale ferroso; il nome di Capoliveri, però, è romano. È il latino Caput Liberum, "capo libero", e in questo nome sembra che già nell'antichità si riconoscesse il carattere delle persone che vi abitavano. I capoliveresi, all'Elba, sono sempre stati noti per essere indipendenti e refrattari; in una parola, anarchici. Una razzaccia di insoumis, di minatori e di mezzi matti che hanno riempito l'Isola di storie di ogni genere, che mi piacerebbe conoscere un po' meglio per raccontarle a modo mio; mi devo però contentare delle poche che so, come quella del tedesco, e magari di scovarmene di nuove per conto mio. Però almeno un cenno è dovuto al barbiere Nicola Quintavalle, che sul piroscafo Gascogne in navigazione da New York a Genova, nel maggio del 1900, viaggiò in compagnia di due anarchici come lui. La prima si chiamava Emma Quazza, e era di Biella; il secondo, invece, era di Coiano di Prato e si chiamava Gaetano Bresci. Quest'ultimo, come si venne meglio a sapere alla fine di luglio del medesimo anno, andava a fare una certa cosa a Monza; orbene, il barbiere anarchico Quintavalle con cui viaggiò assieme era, indovinate un po', di Capoliveri. E per il semplice fatto di essersi ritrovato a traversar l'Oceano assieme a Bresci ebbe non poche noie, come è lecito del resto attendersi.

Ve li ricordate i marò, altresì detti i "nostri ragazzi"? Con l'appellativo di "nostri ragazzi" vengono usualmente definiti quelli del famoso articolo 11 della "Costituzione", vale a dire i militari professionali italiani che vanno all'estero per le altrettanto famose "missioni di pace". In pratica vanno a fare la guerra, ed è per questo che li chiamo "quelli dell'articolo 11"; "L'Italia ripudia la guerra" eccetera eccetera. Come ripudio non dev'essere però gran ché, visto che questi qui, ordinariamente, ammazzano e vengono ammazzati come in ogni guerra che si rispetti; ed è, oltretutto, un "ripudio" che costa fior di miliardi all'anno, tra "rifinanziamenti", "impegni internazionali", armamenti, logistiche e quant'altro. E per queste cosucce, notoriamente, guai a parlare di tagli. Guai a parlarne; però tengo oltremodo a dire che questi qui non sono affatto i "miei ragazzi". Se li tengano interamente loro, come "ragazzi", e non usino l'aggettivo possessivo inclusivo. Se li tengano, paghino loro gli stipendi, ci facciano sopra le fiction e i reportages encomiastici, se li seppelliscano quando tornano in una cassa da morto tricolorata e non mi rompano i coglioni. Sono i loro ragazzi, non i miei; i miei hanno altri nomi. Si chiamano Sole e Baleno, i miei, e non hanno le solite mogliettine incinte.

Tra i loro ragazzi ci sono, per l'appunto, anche i due marò di un certo episodio accaduto mesi or sono in India. Sì, proprio quelli là, quelli che hanno sparato a due pescatori scambiati per "pirati", e che sono stati presi e ingabanati dalle autorità indiane per omicidio. Ah, non si può fare questo ai loro "nostri ragazzi"; e così è partita la campagna per la loro riconsegna all'Italia. Proviamo per un istante a immaginare se due militari indiani avessero sparato a due pescatori italiani al largo di Sorrento o di Mazara del Vallo, ammazzandoli; sì, proviamo davvero a immaginarlo, e traiamone le conclusioni. Però per i due marò in India si sono scomodati ai massimi livelli, è partito Staffan de Mistura, e le piazze italiane, dalla grande città al paesino, sono state riempite di gigantografie e striscioni firmati da varie forze politiche (non necessariamente di destra) che chiedono accoratamente la "restituzione" dei due militari. Gigantografie e striscioni che, sembra, sono arrivati persino a Capoliveri, a cura di tale "PDL". E qui entrano in ballo i capoliveresi, quelli del Caput Liberum

A qualche capoliverese questa cosa non deve proprio essere andata giù; e ho avuto modo di vederne, coi miei occhi, la dimostrazione pratica. Una dimostrazione che, devo dirlo, non mi era mai capitato di vedere altrove; eppure di striscioni e manifesti per la "restituzione dei marò" ne avevo incontrati un po' ovunque. Indimenticabile quello che pendeva, enorme, su piazza della Loggia, a Brescia, proprio nei giorni dell'anniversario della strage fascista. Da un lato della piazza il porticato nel quale, il 28 maggio 1974, era scoppiata la bomba nera; dall'altro lato gli stessi fascisti di merda che invocavano la liberazione dei "loro ragazzi", con le loro facciazze e le divise. E mai nessuno che si fosse premurato di ricordare quei due poveri cristi indiani che stavano pescando e che si eran ritrovati morti ammazzati dai ragazzotti armati fino ai denti che proteggevano il cargo dai pirati.

Un capoliverese ha fatto una cosa elementare, che poi è anche un esercizio perfetto di democrazia diretta. Ha preso un foglio di cartoncino bianco, lo ha affisso alla porta di casa sua (sulla circonvallazione del paese) e ci ha scritto sopra una cosa, del tutto ragionevole, per nulla "estremista" e dettata esclusivamente da un po' di umanità e di discernimento. Una cosa, vale a dire, lontanissima dalle grancasse, dalle retoriche, dalle versioni ufficiali, dai regimi e dai tromboni. E' quella che vedete nella foto sotto il titolo, e che voglio trascrivere:


"Da alcuni giorni fuori al Comune c'è un manifesto 'Salviamo i nostri marò'. Non mi è piaciuto per vari motivi. Innanzi tutto, ammesso che quei marò siano veramente 'nostri', io, prima di 'salvarli' vorrei sapere come hanno agito; se sono colpevoli di aver ucciso due pescatori, o se si sono difesi da due terroristi; nel primo caso non credo meritino l'appellativo di 'nostri', nel secondo caso potrebbero esserlo. Inoltre, questo aggettivo 'nostri' cosa significa? Sono italiani e dunque sempre 'nostri' e sempre da 'salvare', qualunque cosa facciano?
Fra un italiano delinquente  (ladro, assassino, pedofilo) e uno straniero onesto e lavoratore io non ho dubbi su quale dei due sia più vicino a me e a tutti noi.
Fra italiani con il mitra e indiani con la rete, quali sono i 'nostri'?
Leonardo."

A questo Leonardo di Capoliveri, Isola d'Elba, credo dovrebbe essere rivolto un ringraziamento e un abbraccio.
Anche perché non si è limitato a demolire con un semplice manifesto scritto e pennarello, e affisso all'uscio di casa sua, tonnellate di stupide idiozie e di protervia; sotto il manifesto ha attaccato due altri pezzi di carta, invitando i passanti a firmare per la rimozione del manifesto del "PDL". E, come si può vedere, i passanti hanno risposto. Cazzarola, se hanno risposto!

Mi sarebbe davvero spiaciuto lasciare lì quel manifesto  senza farne parola. Con l'invito, se passate da Capoliveri, a andarlo anche voi a firmare. E Leonardo di Capoliveri, lui sì, è un "mio ragazzo"; mio, e di tutti coloro che ancora non si lasciano fregare.

martedì 21 agosto 2012

Notiziario dall'estate


Sono stato per qualche giorno in alcuni posti, non lontanissimi da casa. Allergico come sono ai rituali blogghieri, le poche volte che me ne vado non lo "annuncio" qui dentro, non do l'arrivederci e non comunico il classico "stacco per un po'". Lo "stacco per un po' " è, come tutti sanno, l'annuncio vagamente di sinistra; quello vagamente di destra va invece da un abbastanza anodino "vado in vacanza" ad un roboante "mi reco sul mio yacht di 700 metri della Schettino Ferries per un giretto a Tristan-da-Cunha". Così facendo, da circa un annetto vengo dato regolarmente per morto; anche oggi, ad esempio, ho ricevuto una telefonata (che, peraltro, mi ha fatto parecchio piacere) di una persona preoccupatissima perché non vedeva più post da qualche giorno. Ma, oramai, ho imparato a essere zen riguardo a questa e a diverse altre cose; non ho scritto nulla, soprattutto di quel che avevo preannunciato, ma in compenso ho riempito una cifra considerevole di Settimane Enigmistiche addannandomi inutilmente su un rebus stereoscopico nel quale una tizia con addosso una borsa da spiaggia si pesava su una bilancia in riva al mare.

Ilva di Taranto? Spread? Botte da orbi in Siria? Non è che abbia mai granché ritenuto che i miei pareri & pensieri siano fondamentali, ed è una cosa -almeno credo- che mi distingue fortemente dalla stragrande maggioranza dei blogger che popolano l'Universo. Inoltre, c'è chi sa parlare assai meglio di me, e con ben migliori accenti, degli avvenimenti che agitano questo mondo in crisi. Il mio notiziario dall'estate, come vedrete nei prossimi giorni, riporta eventi di portata differente. Ad esempio quello che vedete nella locandina del Tirreno, edizione locale di Carrara, riprodotta nella simbolica foto sotto il titolo. La simbolicità di tale foto è da ribadire e, soprattutto, da considerare con attenzione; ho letto, sempre questa estate, un recente libro di un noto scrittore italiano che, un tempo, serviziava d'ordine in Lotta Continua. Tra le cose che si dicono in tale libro, una mi ha particolarmente colpito per la sua apparente semplicità, una di quelle semplicità cui però non si pensa mai; non bisogna mai dire "la gente", perché la gente è fatta di persone. Sarebbe necessario relazionarsi costantemente alle persone, non a masse indistinte e generiche. Alle persone, distinte, atomiche, singole e singolari, forse interessa maggiormente che durante la pulizia delle strade a Carrara, all'alba, siano state rimosse otto autovetture. La rimozione forzata di una macchina costa una fratta di soldi ed è una cosa ben concreta, sotto mano e sotto casa. L'Ilva è lontanissima; la Siria, addirittura remota, in un altro mondo e in un altro tempo. Da qui la mia passione per le edizioni locali dei giornali, che leggo sempre con avidità; ricordo sempre con commozione le favolose locandine dei piccoli quotidiani svizzeri, ad esempio.

Al quotidiano viene, nel titolo, conferita spesso un'intensa drammaticità; quel "multe all'alba" fa venire in mente i vigili urbani che, mentre l'ignaro proprietario della vettura dorme tranquillo, gli fanno portare via la Punto dal carrattrezzi appioppandogli un salasso di himmlermila euri; l'alba funziona sempre, che ti portino via la macchina da Carrara o che ti porti via Pinochet dal letto. L'alba delle multe ha una netta prevalenza sulle infiltrazioni mafiose in provincia, e non basta un consolatorio (ancorché misterioso) "Apritiborgo", pur con quel suo vago sapore di Apriti Sesamo, a rassicurare le persone (e non la "gente") col suo programma. L'estate che ho passato si è aperta così, mentre mi recavo ad una cosa in cui c'era il cuore della Rivolta che, speriamo, funzioni un po' meglio del mio. Anche se temo che 'sta rivolta abbia anche lei bisogno, almeno ogni tanto, di qualche cardioaspirina. A presto.

sabato 4 agosto 2012

Medicine



Lo conoscete questo medicinale? Sinceramente, mi auguro di no; se lo conoscete, vuol dire che voi (o, comunque, qualcuno che vi è vicino) avete avuto un infarto del miocardio, un ictus o altre belle cosette del genere. Il clopidogrel (questo il nome del principio attivo) è un antiaggregante piastrinico, o antiplacca cardiaca; viene prescritto, ad esempio, ad uno come me cui hanno impiantato nelle coronarie intasate delle reti metalliche a maglie chiamate stent, mediante un intervento detto angioplastica.

Il compito del clopidogrel è, quindi, quello di impedire che le piastrine non intasino di nuovo i vasi sanguigni, provocando quindi un nuovo infarto. Robetta così, insomma. Fin dal primo giorno che me lo hanno dato e prescritto mi hanno avvertito ufficialmente, in modo scritto, firmato e timbrato, che la sua interruzione comporta rischi elevatissimi; in pratica dovrò prenderlo per sempre. Mi direte tutti: oh, mica sarai così scemo da smettere di prenderlo! Come si fa, poi, senza l'Asocial Network? Rispondo: fossi matto, nonostante il farmaco abbia comunque i suoi bravi effetti collaterali che, a lungo andare, comportano a sua volta problemi abbastanza grossi. Oh, prima o poi si dovrà pur morire, c'è poco da fare. Il problema è un altro, e non dipende da me; vi racconto una storia.

Qualche tempo fa, il clopidogrel veniva prescritto soltanto dal medico di famiglia sulla "ricetta bianca"; vale a dire, uno se lo doveva pagare. In caso di infarto o altra malattia che ne giustificava l'assunzione, il clopidogrel veniva passato su ricetta rossa (a carico del SSN) soltanto per sei mesi dopo l'intervento e la terapia intensiva; dopodiché, passava a carico del paziente. Una confezione di Plavix contiene 28 pastiglie e costa 31 euro

Va da sé che la maggior parte dei pazienti, passati i sei mesi, lo interrompevano perché non potevano permetterselo (e io sarei stato uno di questi); e dopo un po', parecchi di loro si ribeccavano un bell'infarto perché le piastrine tornavano ad aggregarsi sugli stent, eccetera, eccetera. Oppure, tout court, morivano. Ad un certo punto, le autorità sanitarie si sono accorti che un ricovero in terapia intensiva costa circa 1000 euro al giorno, e che quindi conveniva loro assai di più rimettere il clopidogrel interamente a gratis (in quanto previene nuovi ricoveri); e così il Plavix è tornato sulla ricetta rossa, e ad esempio il Venturi può continuare a prenderlo semplicemente facendone richiesta al medico curante e andando in farmacia.

Da quando ho avuto l'infarto sono passati quasi 11 mesi, e di Plavix, prendendone una pastiglia al giorno, ne ho consumate tredici scatole. Poi ci sono le metformine per il diabete, il metoprololo, la cardioaspirina, il ramipril, la statina (altro bell'elemento...) e i famosi esteri etilici di acidi grassi poliinsaturi, altresì detti "pesce marcio"; si tratta di un anticolesterolico ricavato, appunto, dai cascami della lavorazione del pesce. In tutto, prendo dodici pastiglie al giorno. La sera prima me le preparo e me le metto in una scatolina che mi segue ovunque; quelle della mattina si chiamano "le chicche", quelle del pomeriggio "il digestivo" e quelle della sera "il dessert". Prima o poi, chiaramente, le scorte che mi faccio finiscono; e allora vado all'ambulatorio di Piazza dell'Isolotto, me ne faccio prescrivere un'altra scorta, e quando ci sono le ricette vado alla farmacia accanto e ne esco fuori con una sacchettata di roba.


Questa qui che, invece, avete appena ascoltato, è una famosa canzone antifranchista catalana. Non stupitevi che sia, qui, in italiano; un cantautore anarchico leccese, che si chiama Alessio Lega, l'ha tradotta alcuni anni fa. Nell'originale si chiama Abril '74 ed è stata scritta da uno dei più grandi cantautori in lingua catalana, Lluís Llach. Ve la faccio sentire anche nell'originale:



Ho detto antifranchista; sì, perché nella Spagna del 1974 il caudillo era ancora vivo, reprimeva, garrotava e fucilava; e lo avrebbe fatto fino al 22 novembre 1975, data in cui gli interruppero il clopidogrel, definitivamente. Nel vicino Portogallo, invece, il 25 aprile 1974 successe una cosa parecchio strana: le forças armadas si ribellarono e spazzarono via una dittatura fascista che durava da ancor prima di quella spagnola. Un venticinque aprile, pensate un po'; la chiamarono Rivoluzione dei Garofani perché quella mattina, una signora altra un metro e 45 che vendeva fiori nella Praça do Comércio si mise a infilare garofani nelle canne dei fucili dei militari rivoltosi. E il catalano Llach, l'autore dell'Estaca, dedicò a quei fatti una canzone straordinariamente bella, dove si esprimeva sì felicità per un popolo che si era liberato, ma dove si diceva che che nel suo paese di doveva lottare e, forse, morire ancora.

Talmente bella, che me la canto spesso. A volte ho parlato di questa mia abitudine, che ho fin da piccolo: io canto ovunque. Per strada, in macchina, nei negozi, al supermercato, una volta persino in un tribunale dove andavo a divorziare. Nulla di quel che mi è successo mi ha fatto cessare questa abitudine; e se sentirete, un giorno, cantare da una data tomba non vi stupite, e saprete subito chi c'è dentro senza nemmeno darvi pena di leggere il nome.

Siccome fra un po' devo partire per qualche giorno, ho pensato bene di farmi una scorta supplementare di medicine; non si sa mai. Sono andato a farmi fare le ricette in ambulatorio e, stamani, sono andato in farmacia. Stamani era, per l'appunto, il turno di Abril '74; e quando una canzone è di turno, mi ci faccio la doccia, colazione, ci esco, ci monto in macchina e me la tengo per tutto il giorno. E così ci sono entrato anche in farmacia, in piazza dell'Isolotto, accanto all'ambulatorio.

I casi della vita sono sorprendenti. Ad esempio, mettono in una farmacia dell'Isolotto un farmacista che non conoscevo, il quale, giunto il mio turno, mi serve; e non è una cosa semplice, servire uno come me. Una paccata di ricette, i bollini da staccare, io che chiedo rigorosamente i generici (se ci sono), le firme sulla mia infima "fascia di reddito", la ricerca nei cassetti; in pratica, chi è dopo di me come numero, deve aspettare un bel po' e, magari, mi manda anche parecchi accidenti.

Mentre mi serve continuo a cantare. Il farmacista fa una faccia indefinibile, poi mi punta un dito addosso e mi chiede:

- Lluís Llach...?

E' il mio turno di fare la faccia indefinibile. Gli punto un dito addosso e gli rispondo, con aria compunta:

- Lluís Llach.

Così, nella farmacia dell'Isolotto, stamani hanno sentito per un po' due tizi, il farmacista e un cliente, cantarsi assieme (non dico a squarciagola, ma a voce alta) Abril '74 in catalano. Sì, perché proprio non sapevo che uno dei farmacisti dell'Isolotto è nativo di Barcellona e che, stamani, sentiva riparlare la sua lingua dopo molt temp. E come 'gni se ne dava, lì, io con la mia pronuncia probabilmente atroce e lui col camice bianco, in mezzo a metoprololi, a metformine, a rosuvastatine e a cardioaspirine. Finché il dottore non ce l'ha fatta più, e da dietro al bancone è spuntato un pugnetto chiuso. Bello sodo, non librato al vento, ma comunque pugno e comunque chiuso. E ne ha ricevuto uno in risposta. E ho saputo anche che il farmacista si chiama Raimon, esattamente come un altro famoso cantautore catalano. E sono uscito che stavo bene, parecchio bene, senza aver preso nemmeno il clopidogrel. Ho preso un antifrancol garofanato, con un eccipiente particolare, la llua blanca, che non si trova in altri farmaci.

Questo post ha parlato di medicine. Sto ancora chiedendomi se la seconda sia o meno più efficace delle prime. Però sono uscito dalla farmacia che stavo bene; e questo è un dato di fatto. Ora vi lascio, ché fra poco devo prendere il dessert.

venerdì 3 agosto 2012

Inqualifiché....?


Casa del Popolo di Grassina (Firenze), sera del 2 agosto 2012, verso le 22.30

Le Case del Popolo erano, ci dicevano, patrimonio dei lavoratori. Del popolo, insomma. I lavoratori e il popolo venivano identificati; in pratica, si trattava di una classe

Si trattava? Io dico che si tratta ancora. Anche se, a un certo punto, hanno detto che la parola classe era brutta brutta, se adoperata in quel senso là. Si poteva ancora dire "classe" come aula o suddivisione scolastica, come sinonimo di eleganza e stile, come categoria automobilistica o di altri sport, come si voleva; ma guai, che so io, a unirla ad espressioni disdicevoli come "lotta di" o "coscienza di". Residui di un passato oramai morto, anzi meglio: veteroresidui di un veteropassato veteroramai veteromorto.

E così anche le Case del Popolo si sono dovute adeguare. Via tutta una simbologia, che ha seguito di pari passo l'evoluzione del Partito Comunista Italiano, vale a dire il gran partito de' lavoratori e la guida della classe operaja. Dal PCI al PDS, ai DS e al PD (seguendo la logica "a scalare", si sarebbe dovuto chiamare solo "S", ma vabbè). Ci dev'essere sicuramente, da qualche parte nei dintorni di Firenze o comunque in Toscana, qualche Casa del Popolo che ha sperimentato, nei manifesti, una possibile trafila come questa: 

Giuseppe Stalin (1952)--> Palmiro Togliatti (1958) --> Che Guevara (1965) --> Enrico Berlinguer (1975) --> Bobo di Sergio Staino (1981) --> ragazzina dalla faccia pulita, occhioni grandi e fiore nei capelli (1986) --> Achille Occhetto (1990) --> condoglianze per la morte di Gianni Agnelli (stile "ciao Gianni", 2002) --> Walter Veltroni (2008) --> Steve Jobs (1955-2011) --> Noi stiamo coi lavoratori, sì al TAV (2012)

Manifesti tutti visti coi miei occhi in varie case del popolo fiorentine e toscane. Non sto celiando. Muniti di tutta l'evoluzione simbolica, dalla falce-e-martello agli alberelli vari, per finire alla sigla di Padova in tricolore.  E poi "progressisti", ulivi, unioni, margherite e, soprattutto, ciò che, secondo alcuni, sarebbe la "trasformazione" di quel gran partito de' lavoratori in un partito di destra, asservito al padronato e ai potentati economici, in prima fila in ogni repressione possibile e immaginabile, infarcito di personaggi impresentabili, gestore del potere nazionale e locale nel modo più mafioso possibile, impelagato in nomine, scandali, lottizzazioni e mazzette, fucina dei Calearo, delle Serracchiani, degli Esposito, dei Renzi, delle Nirenstein (quella che da Lotta Continua, come parecchi, è passata al PDL e alla bella casina da colona sionista occupante a Gilo; ma un passaggino nel post-PCI doveva pur farlo, è praticamente naturale).

Secondo alcuni, come dicevo, questa sarebbe una "trasformazione". Io dico invece che si tratta di un'evoluzione perfettamente naturale del PCI, che è andato dove la sua storia di potere lo ha portato, e senza nessuna soluzione di continuità. Con tutte le sue "storiche figure", e non è certamente un caso che Napolitano ne sia stato, a suo tempo, un dirigente. Ma nulla è un caso, nemmeno chi se ne era già accorto quaranta o cinquant'anni fa finendo, ovviamente, nel tritatutto.

La foto che vedete sopra è stata scattata esattamente in una Casa del Popolo.

Appena si entra dalla piazza principale del paese (un grosso sobborgo fiorentino, nonostante sia nominalmente parte di un altro comune), c'è un lungo corridoio, peraltro piuttosto tetro. Nel corridoio sono sistemate le bacheche dei partiti; c'è il Partito de' Comunisti Italiani, c'è Sinistra Critica, c'è il Partito Comunista dei Lavoratori e tutta l'atomizzazione della famosa sinistra radicale; poi c'è, naturalmente, la bacheca del Gran Partito, con un manifesto che invita alla sottoscrizione volontaria e un'altro che parla del "lavoro" (e du' paia di coglioni no, eh).

Sembra che tale bacheca, quella del PD, ultimamente subisca -come dire- qualche incivile danneggiamento che ha provocato l'indignata reazione del presidente della Casa del Popolo (chissà di che partito sarà...). Insomma, atti inqualificabili che non rientrano nel corretto dissenso politico: tracce di sputi, cazzi alati, scritte del tipo PUPPATECELO FASCISTI DI MERDA vergate con pennarelli che devono essere i Carioca con cui Polifemo faceva i disegnini nella caverna da quant' 'e gli ènno grossi, falci-e-martelli (toh chi si rivede!), incrinature di sassate, e così via.

Il problema è che, ora come allora, nelle Case del Popolo ci va, giustappunto, il popolo; e sembra che il popolo di Grassina abbia un paio di caratteristiche salienti.

La prima è quella d'aver fornito, e di continuare a fornire, un più che discreto numero di frequentatori del CPA; e il CPA è una Casa del Popolo vera e propria, sebbene sia priva di bacheche del Piddì (ne ho viste un paio, qualche volta, a far da legna secca per le grigliate, questo sì; e bruciano che è un bigiù!). Segno, insomma, che al popolo grassinese piaceva parecchio avere una casa dove chi sta con chi lavora non sta con i padroni; e quindi se la sono trovata, anche se a qualche chilometro di distanza.

La seconda, è che a diversi grassinesi che continuano a andare alla Casa del Popolo del paese, non deve comunque garbare un gran ché che là dentro continui a starci un partito di merda come il PD, che con la classe lavoratrice e con la sinistra in generale non ha assolutamente più nulla a che vedere. Indi per cui, il popolo lavoratore si esprime. In maniera rozza, ma tremendamente efficace e chiara. 

In una Casa del Popolo, la gente si sfoga esclusivamente sulla bacheca del PD. Vorrà, per caso, dire qualcosa? Penso proprio di sì, e la cosa mi sembra andare ben oltre una bacheca in un corridoio.

Vuol dire, probabilmente, che il vero atto inqualificabile e la vera inciviltà siano che un'accozzaglia di servi dei padroni, di fascisti neanche più tanto "cripto", di affamatori, di mandaingalera, di "moderati", di leccavaticani, di cilici e di razzisti securitari continui, ad esempio, a stare dentro le "Case del Popolo".

E il Popolo, infatti, a modo suo glielo manda a dire.

E questi qui cominciano a cacarsi addosso. Si sente il puzzo fin da Grassina!