Era sempre mia zia che avvertiva che l'acqua era andata via. Si sentivano strepiti, mòccoli, maledizioni e tutto il resto, e incominciava l'estate. All'Elba, negli anni '60 e '70, la situazione idrica era un disastro totale; come smetteva di piovere e si seccava la falda, dai rubinetti della piana non colava più nulla. Il sindaco razionava l'acqua, quel poco che c'era ancora doveva essere dato agli alberghi perché l'isola campava di turismo, e nelle case occorreva arrangiarsi. Soltanto la notte l'acqua tornava per un'ora o due, e c'erano i turni di veglia per riempire tinozze, bottiglie, conche, innaffiatoi, canistri, cristi, madonne e ogni altro recipiente che potesse contenere acqua.
Ora, se i miei moccolavano come carrettieri, io, essendo un ragazzino (e i ragazzini sono notoriamente tipi strani), ero contento. Per me quella telefonata, magari ancora a due mesi e rotti dalla fine della scuola, significava cominciare a sognare l'estate, il ritorno all'Elba, il portico, la spiaggia, le giornate che non finivano mai, i campi; accidenti all'inverno e alla sua acqua abbondante! E così, tirando avanti, la scuola finiva e mi facevano partire assieme a mia nonna.
Ora facciamo un gioco, assieme a tutti voi. Andate nel vostro bagno, o all'acquaio, o a qualsiasi rubinetto di casa vostra. Apritelo. Guardate come scorre, l'acqua. Bella, fresca, abbondante. Da bere con tranquillità, anzi con maggiore tranquillità dell'acqua minerale in bottiglia. L' “acqua del sindaco”, ora, è generalmente buona se non addirittura ottima. Fatto? Chiudete gli occhi, ora, e venite con me in un qualsiasi giorno del 1972, o '73, a Marina di Campo, Isola d'Elba.
L'acqua che per quell'ora o due di notte cadeva a piscio dal rubinetto non si poteva bere. Era salata e, spesso, fangosa. Guai a farci da mangiare: il caffé sapeva di non so cosa, la pasta sembrava condita col fenolo e a berne un bicchiere veniva la cacaiola. Serviva soltanto per lavarsi un po', mettendone pochissima nella vasca o nella tinozza, e per innaffiare un po' le piante e l'orto: e innaffiare voleva dire pianta pianta, non certamente “irrigare”. In riga bisognava starci noi, e dimolto.
Per fare da mangiare e per bere bisognava fare quanto segue. Alle cinque o alle sei di mattina, sempre a turno, montare sull'otto e cinquanta di mio padre o sull'Ape di mio zio, e andare su al Monte Perone o a Chiessi, dove c'erano le fonti che venivano dalla montagna; e entrambe le cose avevano certi piccoli inconvenienti. Per andare al Perone c'era allora una strada sterrata che non aveva nulla da invidiare alla “Tremola” che sale al San Gottardo (ora l'hanno asfaltata, ma rimane sempre una strada da affrontare con estremo rispetto). Arrivati in cima, alle sei e mezzo di mattina ci si trovava già la folla con furgoncini, macchine, qualcuno persino con la moto e le cinghie elastiche per tenere legati i bidoni; e bisognava avere pazienza. Si aspettava muniti di panini, di giornalini, di settimane enigmistiche; e quando toccava, si dovevano mettere i canistri sotto un pisciolino d'acqua, buona ma pur sempre un pisciolino. Ci si faceva tranquillamente mezzogiorno, stipando la macchina d'acqua in ogni centimetro quadrato; e bisognava andare pianissimo per non farla arrovesciare, ché ogni goccia era preziosa.
Per Chiessi la strada è comoda, anche se a pigliare male una curva si fa un volo di 150 metri diritti in mare e nell'eternità. Però lì c'erano le due matte. Due sorelle vecchie già allora, che difendevano la fontana con le unghie e coi denti. Non volevano che i “forestieri” venissero a rubare l'acqua ai chiessini, e guai a dire che si veniva da Campo perché coi campesi ce l'avevano in modo speciale. E erano, a volte, graffi, botte e cazzotti: quelle non scherzavano, prima ti riempivano di insulti e poi passavano ai graffi, alle spinte, alle seggiolate. Matte, certo; ma chissà. In quella loro follia bisognava immaginare tempi in cui quella fontana era l'unica cosa dalla quale, in un paese intero, si prendeva l'acqua. Bisognava pensare che, in estate, la fontana magari seccava pure lì. Bisognava figurarsele da ragazze, quando nemmeno c'era la strada, a passare giornate senza una goccia d'acqua. Loro facevano la guardia.
Allora, come vi butta il rubinetto di casa? Aspettate un attimo. In casa, quando arrivavano anche i miei e mio fratello, s'era una tribù. D'acqua se ne consumava tanta, e altrettanta ce ne voleva. Quella buona finiva alla svelta, e ogni giorno bisognava tornare su al Perone o a Chiessi; quella poco buona finiva alla svelta lo stesso. Fu così che, nell'estate del '73, mio padre e mia zia decisero che era l'ora di far scavare un pozzo. Almeno quell'acqua sarebbe servita per l'orto.
Arrivarono due energumeni da Portoferraio, padre e figlio. Il padre, un ometto risecchito e color bronzo, in canottiera bianca, che faceva anche da rabdomante; il figlio, una massa di muscoli da fare spavento e un bel sorriso che ce l'aveva sempre, particolarmente quando sollevava da solo un cerchio da pozzo in cemento armato, centoventi chili di roba, e se lo portava tranquillamente a giro per il campo. Il padre che, con aria compunta e in preda alle “vibrazioni”, con la bacchetta in mano, a girare per il campo finché il “frùido” (sic) non l'ebbe fermato; e lì incominciarono a scavare a forza di pala. E cazzo, l'acqua c'era per davvero. Quindici giorni a lavorare come bestie, con misure di sicurezza fenomenali (tipo i fili scoperti per il compressore, corrente trifase a 380 V che Bibbolo ci prese una scossa che avrebbe ammazzato un bove; ma non lui); e il pozzo fu fatto. Mio zio comprò un motorino elettrico che funziona ancora, e all'improvviso ci ritrovammo a non dover più andarci tutti i giorni, alle fonti, ma un giorno sì e un giorno no. Quando si dicono le conquiste.
Ma c'erano anche di quelle decine di giorni in cui si bruciava dal caldo, e che si sarebbe bevuta anche l'acquaccia salata degli smunti rubinetti. C'erano di quei giorni in cui il qui presente, a nove, dieci o undici anni, era costretto a andare a lavarsi in mare. Veniva una pelle di quelle che vi raccomando; poi, magari, si passava davanti all'albergo delle Tre Colonne, dove mia nonna lavorava come cuoca, e si guardavano i milanesi e i tedeschi a fare il bagno in piscina. "Sciàise", diceva mia madre, che da piccola, durante la guerra, aveva imparato qualche parola di tedesco; sarebbe stato "Scheiss". Ma noi s'era i servi, e loro i padroni. Alla Grechea, dove mia zia faceva giustappunto la serva in una casa d'ammiragli e di milanesi, l'acqua ce l'avevano; eppure era sì e no a un chilometro da casa nostra. Misteri.
Fino ai primi temporali dopo ferragosto. Nel frattempo bisognava osservare i riti e le regole: mai incominciare una bottiglia d'acqua fresca, in frigo, senza finirla. Incignarne un'altra senz'avere finito quella prima era reato di “bottiglia malimessa”. Mia nonna vegliava sull'osservanza di questa regola come un rottweiler. Di notte, severamente vietato buttare lo sciacquone quando ci s'alzava per andare a pisciare o a cacare; passava qualcuno con un orinale pieno d'acqua e eliminava la deiezione, come si dice ora. In bagno c'era spesso un puzzo da andare via di cervello, ma ci si faceva l'abitudine. Dimenticarsi aperto un rubinetto comportava ceffoni nel muso, ma una volta che se ne dimenticò mio padre gli feci una pernacchia da Guinness dei primati. Forse però riuscirete a capire perché ho cominciato a bere il vino a otto anni. Quello non mancava mai.
E così di anno in anno. Nel canale di Piombino viaggiavano le bettoline cariche d'acqua dal continente, che ve le immaginate delle navi cisterna cariche d'acqua tutte intere? L'acqua minerale? Con le bollicine, magari? Costava troppo. Ora facciamo un ultimo gioco: andate al frigorifero e apritevi una bella bottiglia di acqua “Vitasnella”, o di quell'altra povera di sodio, o di quell'altra ancora con Del Piero dentro, o di quell'altra più che ancora con le nanosfere o che minchia sono. E mica sono verginello, non crediate: ci ho due belle cataste di acqua minerale pure io, qui in casa. Ma di nuovo nessuna morale; quand'anche vi ripungesse vaghezza di rimettercela, ve la rifate da voi. Io mi rifermo qui.
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