La fila cominciava poco prima dell'angolo tra la via Georgiou e il corso Lambrakis; ed era proprio quel Lambrakis, il deputato socialista ammazzato dai fascisti nel '62, quello di “Z-L'orgia del potere”. A quell'ora, verso le nove della sera del ventiquattro dicembre, la coda non solo non accennava a diminuire, ma si era addirittura ingrossata. Del resto, da giorni e giorni tutte le principali piazze e strade del Pireo erano state tappezzate di manifesti con quel simbolo inconfondibile, il Meandro di Alba Dorata, e la bandiera ellenica: Grande distribuzione gratuita di cibo, giocattoli e farmaci di prima necessità per i bisognosi Greci – Un Natale Greco per i Greci cristiani – Alba Dorata aiuta la Patria in difficoltà. Nei manifesti, in caratteri notevolmente più piccoli, era contenuta la condizione necessaria per il Natale greco dei Greci cristiani: la presentazione della carta d'identità. Il documento che attestasse la cittadinanza greca e il nome greco. Fin dalle dieci del mattino, di fronte alla chiesa dell'Evangelistria, erano stati sistemati quindici banchi contenenti ogni bendiddìo accumulato dai militanti albadoristi per la distribuzione natalizia; una fila enorme e ordinata di persone, uomini e donne di tutte le età, che si svolgeva per tutto il lunghissimo corso Lambrakis, aveva atteso pazientemente il proprio turno per ritirare ciò di cui aveva bisogno presentando la carta d'identità, il deltio taftòtitas; e bisogno c'era di tutto. C'era un silenzio apparente; ma, chi si fosse avvicinato alla fila soltanto per curiosità, avrebbe sentito ognuno parlare sottovoce al vicino di coda, e qualcuno fra sé e sé. Tutti avevano da dire qualcosa senza che nessuno gliela avesse chiesta, e ognuno sembrava provare un desiderio irrefrenabile di giustificarsi. Chi aveva sempre votato per il Pasok, chi non s'era mai interessato di politica, chi si era visto sbattere fuori dal posto di lavoro da un giorno all'altro; chi non aveva mai lavorato, chi aveva quattro figli di cui due piccoli, chi aveva fame. Chi io non sono razzista però, chi ci rubano il lavoro e il mangiare, chi se ne tornino tutti a casa loro. Chi, infine, non li ho mai votati ma stavolta; chi loro almeno fanno qualcosa; e chi si vergognava semplicemente di stare in quella fila umiliante, di poveri, di vecchi e banali benesseri fracassati, di che altro potevo fare. Ai banchi, giovanotti muscolosi e qualche bella ragazza con indosso dei giubbotti neri nella fredda serata dicembrina; a Atene non si creda che faccia caldo, sotto Natale.
Era arrivato, quell'uomo un po' strano, alle nove e trentacinque. Intabarrato in un cappotto grigio che aveva visto tempi migliori, con un cappello floscio che doveva essere stato nuovo cinquant'anni prima, dei pantaloni di fustagno marrone e un paio di scarpe da ginnastica tendenzialmente bianche, sebbene qua e là. Sotto il cappotto aveva un maglione grigio a girocollo, sotto il quale, in alto, si notava una specie di rigonfio; con tutta probabilità si trattava di una sciarpa tenuta completamente sotto l'indumento. Era un uomo parecchio anziano, dalla carnagione piuttosto scura; aveva, però, una barba disordinata ma bianchissima. Le mani erano screpolate, callose e grinze come quelle di chi avesse per tutta la vita fatto un ruvido mestiere di fatica; ma erano coperte da dei guanti di lana senza dita. Fumava una sigaretta puzzolente e mezza rincignata, forse raccattata per terra da qualcuno che la aveva gettata via appena accesa. Non aveva borse o altri contenitori, ma le tasche del cappotto erano piene di roba imprecisata.
Quando era arrivato, l'ultima della fila, che avrebbe dovuto aspettare ancora ore per ricevere gli aiuti di Alba Dorata presentando la carta d'identità greca, era una donna sui cinquant'anni, piuttosto alta e bella dritta su se stessa; si chiamava Samaritha Kalitsounaki, e era arrivata a Atene nel '71, ancora bambina, da Porto Heli nell'Argolide assieme alla sua famiglia. Era stata per qualche tempo commessa in un negozio di articoli sportivi, poi aveva lavorato in una tabaccheria ben fornita nella via Kanellopoulou, sempre al Pireo ma dall'altra parte del Porto. Nel '79, quando aveva sedici anni, era stata violentata dal suo primo grande amore, un ragazzo di diciannove anni di Drapetsona, di nome Mihalis; ma non lo aveva mai saputo nessuno. Del resto, fortunatamente, non era rimasta incinta e questo era già tanto; pensare che lo aveva fregato alla sua migliore amica, la Diamandina Pesmazoglou, che gli sbavava dietro. Nell'86 si era sposata con un trentaduenne dell'Akti, tale Vassilis Ventouris, che le aveva promesso la classica vita tranquilla e senza problemi; e lei si era lasciata sposare nonostante il marito fosse decisamente brutto come la fame. Dopo due anni di gelosia ossessiva e di botte, Samaritha se n'era andata via di casa con un marmocchio di otto mesi, di nome Efstathios, ché così si chiamava il nonno paterno. Efstathios era ora un giovanotto di ventisei anni, che non aveva mai lavorato e che, all'insaputa della madre, era diventato una specie di picchiatore in un partito di estrema destra che è stato già nominato qui, di assoluta sfuggita. Quanto a Samaritha, di lavori ne aveva fatti parecchi prima che la ditta di import-export nella quale lavorava ultimamente fosse stata, più che costretta a chiudere, spazzata via. Una mattina era andata a lavorare e non aveva trovato più nemmeno la targa sul portone; da cinque mesi, del resto, non vedeva un soldo e aveva campato di espedienti.
“Niente incertezze. Niente incertezze. Niente incertezze.” Pensava questo il vecchio, prima di decidersi a aprire bocca. Poteva, naturalmente, stare zitto; ma era meglio esercitarsi a parlare. Nessuno lo avrebbe mai detto, ma nella sua vita aveva parlato molte lingue diverse da quella materna; aveva viaggiato per tutto il Mediterraneo, e in Grecia non si ricordava nemmeno come c'era arrivato. Per un lavoro, forse; un giorno era passato di casa e aveva detto alla giovane moglie, che sarà stata la sua sesta o settima, di fare i bagagli e di partire con lui. Sì che era per un lavoro; si era portato dietro un po' di attrezzi, che gli altri occorrenti li avrebbe trovati lì. Era andata a finire che, lavorando come un mulo, il greco lo aveva imparato alla svelta, e molto bene; ma un greco di merda, da bassifondi, con qualche preziosismo della “lingua pura” usato a sproposito e quintali scomposti di laikì, di kaliardà e di altri gerghi della strada. Ultimamente, da quando gli avevano detto che al Pireo si parla già diverso che nel resto di Atene, si era sforzato di prendere l'accento per diventare davvero uno della zona; e la zona dove si era sistemato con la moglie era un bel cumulo di rovine, ma che non avevano nulla a che vedere con l'Acropoli. Stava in una stradaccia con un nome qualsiasi dietro l'Akti Koundouriotou, che dopo qualche anno di crisi pareva fosse stata bombardata; avevano trovato un fondo vuoto, che doveva essere stato di un qualche negozio di qualche cosa inutile, e ci si erano infilati dentro. Il bandone non c'era più; con dei pezzi di legno e altri rottami trovati in una discarica, visto che il suo mestiere lo sapeva fare, aveva messo su una specie di porta-finestra e poi aveva cominciato a fare il falegname ambulante per pochi soldi. Il lavoro per il quale era arrivato in Grecia? Due giorni dopo l'arrivo si era presentato all'indirizzo che gli avevano dato e ci aveva trovato la Polizia che stava sgomberando a forza della gente, mentre dalle finestre sopra la gente stava buttando sotto di tutto. Un poliziotto, a un certo punto, era stato centrato in pieno da un bidé; un altro, per non essere da meno, aveva ricevuto sul casco una pesante riproduzione in acciaio temperato della Coppa Europa di calcio vinta dalla Grecia nel 2004, finale Grecia-Portogallo 1-0, goal di Charisteas al 12' del secondo tempo. Aveva capito subito che aria tirava.
La strada era formata da qualche palazzo molto alto che cadeva a pezzi; tra i palazzi, però, erano rimaste delle case più basse, alcune delle quali solo col pianterreno. C'erano parecchi terreni incolti, quelli che i francesi chiamano terrains vagues, dove presto erano venute su delle baracche insolite. Quanto alla fauna che ci viveva, era la crema, l'élite del lastrico di questi anni: poveracci, straccioni, emarginati, accattoni che facevano a gara di tare e di storie schifose. Avanzi di galera, buoni a nulla e, chiaramente, immigrati da paesi che potevano stare anche su Marte tanto erano fuori dal mondo. Il nome della strada proprio non me lo ricordo; tanto è inutile. Nel quartiere, comunque, nessuno la chiamava col suo nome ufficiale, ché tanto la targa stradale era stata divelta chissà quando; la chiamavano tutti Pachni, che in greco vuol dire “Mangiatoia”. E così la chiameremo pure noi; inutile dire che nella zona dell'Akti Koundouriotou, che pure non scoppiava di ricchezza, dire di venire dalla Mangiatoia era sinonimo di miseria nera. In uno dei terreni incolti qualcuno aveva sistemato persino due o tre pecore smagrite; in un altro, peraltro vicino al fondo dove abitavano il falegname straniero e la moglie, c'erano invece un asino e un bue, che tutti si domandavano come mai ancora qualcuno non se li fosse mangiati. Ma anche loro erano pelle e ossa.
La vigilia di Natale, girando per le strade, il vecchio aveva letto i manifesti di Alba Dorata. Il fatto è che, qualche mese prima, aveva combinato un bel casino con la moglie; vecchio sì, ma ancora bello in gamba in certe cosine, la aveva messa incinta. Di figlioli, a dire il vero, ancora non ne avevano avuti sebbene al suo paese ne avesse una masnada dalle mogli precedenti, e anche un paio da legittime spose altrui. Un figliolo alla sua età, si era detto, era una benedizione dal Cielo; però non aveva scelto né il momento e né il posto più adatto. Ora la moglie stava per sgravare, e in casa non c'era nulla; certo, quelli là oramai li conosceva bene e sapeva anche cosa avevano fatto al suo amico pakistano e a decine di altri come lui. Però doveva tentare. Senza dire nulla alla moglie, era tornato a casa e aveva detto alla moglie che sarebbe tornato molto tardi; assieme a lei c'era una vicina di casa greca, una ex prostituta di settant'anni di nome Elettra, che le stava preparando una zuppa di non si sa cosa -ed è meglio non saperlo.
I manifesti parlavano estremamente chiaro: greci e con carta d'identità greca. E greco non era proprio, il vecchio, nonostante un po' di greco lo avesse imparato già da ragazzo al suo paese. Il greco era lingua diffusa e di gran prestigio. Si chiamava Yosef ben Eliyahu e veniva dalla Palestina, da un paese con un nome strano che, mi sembra, comincia per “N”; la moglie, invece, si chiamava Maryam. Correvano strane voci su quella ragazza; alcuni dicevano persino che l'avesse vinta a una specie di lotteria, dato che non si capiva come mai una ragazza così giovane e bella si fosse impuntata per sposare un uomo di quell'età. Tant'è; si erano sposati, e siccome durante la cerimonia aveva giurato dinanzi a Dio (non uno qualsiasi) di seguire il marito nella cattiva e nella cattiva sorte, e dovunque, da quel paese palestinese che comincia per “N” si erano ritrovati nella Mangiatoia al Pireo, mentre la Grecia affondava e Dio c'era sì, ma parlava soltanto il greco e si era visto rilasciare anche lui una regolare carta d'identità ad usum Albae Auratae. Yosef, invece, se la doveva procurare; e ci doveva pensare alla svelta.
La cosa era stata risolta grazie a quel delinquente di Christos. Christos era un altro della Mangiatoia, un ex tipografo che aveva stabilito un record difficilmente battibile. La Crisi era cominciata da due ore circa, che lui era stato uno dei primi ad essere licenziato dal posto dove lavorava; in realtà era stata tutta una scusa, dato che Christos, in tipografia, rubava da secoli tutto quel che c'era da rubare: carta, inchiostri, toner, detersivi dal bagno, birre dal frigorifero. Ricevuta la comunicazione dal direttore, che lo aveva mandato in culo dandogli del ladro fottuto e augurandogli di crepare di fame, Christos era tornato nottetempo con un paio di amici e aveva svuotato la tipografia di tutti i macchinari, trasportandoli in un posticino che conosceva lui e basta; si era messo quindi a realizzare il sogno della sua vita, quello di falsificare il falsificabile e di metterlo a gentile disposizione di chi ne avesse bisogno. Facendosi pagare un occhio della testa, naturalmente; però, a modo suo, si mostrava anche generoso. Una carta d'identità falsa, fatta a regola d'arte, costava duecento euro; ma se gli stavi simpatico, si poteva ovviare con due o tre serque di uova, con un lavoro a gratis, con una trombatina alla moglie. Non si sa bene cosa gli avesse promesso Yosef, posto che di uova non ne aveva. Christos aveva detto a Yosef di portare una fototessera, e di tornare alle due del pomeriggio; e alle due gli aveva consegnato una perfetta carta d'identità ellenica a nome di Iosifos Iliopoulos, nato a Rethymnon (Creta) il 17 novembre 1928 e residente al Pireo, via Qualcosa n° 92, statura m 1,73, peso kg 64, segni particolari nessuno, di religione ortodossa e di professione artigiano. Come cazzo avesse fatto a mettere tutti i timbri e le marche da bollo con la dea greca, non si sa. Yosef era esterrefatto.
"Senti, ma perché sarei nato a Creta...?"
"Demente, ma ti sei visto? Hai la faccia di un palestinese, e più che altro sei scuro come un palestinese. Ti dovevo scrivere che eri nato a Stoccolma...?
"E Creta che c'entra?"
"A Creta sono parecchio più scuri che qui, gamotò. Ho conosciuto uno di Rethymnon che era scuro come te, magari era tuo nonno..."
Christos si mise a ridere sguaiatamente, poi continuò:
"Ascolta, con questa qui, dammi retta, sei un cretese perfetto oltre che un cretino, perché solo un cretino ingravida la moglie sotto questi bei chiardiluna. Alla tua età poi ne potevi anche fare a meno, anche se ti capisco con quel bel pezzo di....lasciamo perdere, vah. Però una cosa te la consiglio: se vuoi andare a prendere la roba da quei pezzi di merda, comunque, vacci a buio, stasera. Tanto sai che te ne frega del Natale a te, te lo dice uno che si chiama Christos; ma a proposito, te di che religione sei per davvero?.."
"Boh, me ne sono dimenticato. Però ci ho il cazzo conciato strano, ho un certo sospetto..."
"Allora vacci a buio il doppio, a quelli piacciono poco i monsummani o come si chiamano, ma mi sa che non gli vadano a genio tanto nemmeno gli ebrei. Col buio la tua carnagione si nota di meno. Menomale che parli il greco come se tu fossi nato qui, questo è un bel vantaggio. Tanti auguri, vecchiaccio, ma stai attento; se ti riconoscono e si accorgono che hai fatto il furbo, sono cazzi tuoi."
"Lo so, lo so. E li protegge anche la polizia."
"Io quel che potevo fare l'ho fatto. Ma tua moglie a che punto è con la pancia?"
"Ha finito il tempo il venti, potrebbe scodellarlo da un momento all'altro..."
"E' un maschio?"
"Secondo te ci ho i soldi per andare all'ospedale privatizzato e farle fare la morfologica? Sarà quel che sarà..."
"Se è maschio come lo chiamate?"
"Mah, a me sarebbe piaciuto chiamarlo come te, sai. Te lo giuro. Il tuo nome mi piace parecchio, ma lei vuole chiamarlo diverso. Un cavolo di nome che a me piace zero..."
"Sarebbe?.."
"Iesous."
"Iecosa?... E che minchia di nome è...??"
"Si chiamava così un suo zio materno che la faceva giocare da bimba. A dire il vero nella lingua nostra suona un po' differente, ma qui mi sono impuntato. Voglio la forma greca, ora come ora qui non è bene chiamarsi da immigrato..."
"Capisco, capisco. Certo che è un nome bello strano, io non l'ho mai sentito in Grecia. Vabbè, bando alle ciance. Stai in campana, Yosef, anzi Iosifos. Iosifos Iliopoulos, ricorda."
"Me ne ricordo, tranquillo. Ci vado verso le nove di stasera."
"Bravo. E vacci vestito ammodino, ché Dio ti vede!"
Christos si mise di nuovo a sghignazzare sguaiatamente, mentre Yosif, anzi Iosifos, si allontanava. Ora stava in coda tra la Georgiou e il corso Lambrakis; faceva un freddo da pelare e continuava a ripetersi fra sé: “Niente incertezze. Niente incertezze”. Fu la donna che lo precedeva a attaccare bottone, all'improvviso; sembrava averci una gran voglia di parlare, a bassa voce.
“Freddo eh.”
Iosifos alzò leggermente la testa; prima di rispondere, sempre a bassa voce, si controllò automaticamente la tasca sinistra del cappotto. La carta d'identità era lì, e quel demonio di Christos la aveva pure plastificata a dovere. Un gioiellino; era diventato greco cristiano in due ore, e senza pagare in uova. Ogni tanto, per la strada, si vedeva qualche giovanotto di Alba Dorata che controllava la coda interminabile; qua e là passavano anche dei tipi in motocicletta, con dei caschi che non promettevano nulla di buono.
“Fa freddo sì, signora. Siamo il ventiquattro di dicembre.”
“Già. Buon Natale.”
A questo Iosifos non si era preparato. Di natali ne aveva già passati qualcuno in Grecia; solo che, alla Mangiatoia, non andava particolarmente farsi gli auguri. Non si facevano né l'albero e né i regali. Il ventiquattro c'era la stessa miseria del venticinque, e il ventisei ce n'era ancora di più. Si trovò subito a biascicare:
“B...buon Natale a lei signora. Kalà Christoùyena.”
Non poté fare a meno di pensare che Christoùyena significa “nascita di Christos” e si ritoccò la tasca sinistra.
“Anche lei in fila, eh.”
“Già.”
“E non si vede la fine...”
“La fine è alla chiesa dell'Evangelistria, credo.”
“Lo sa quanto c'è alla chiesa?”
“No...”
“Due chilometri. 'Sto cazzo di corso non finisce più.”
“Prima o poi ci toccherà, signora...”
“Speriamo. Lei vota per loro?”
Iosifos deglutì. Doveva scegliere alla svelta se fare il poveraccio che aveva votato per il Pasok, o addirittura per i comunisti, se proclamarsi apolitico o se essere diventato nel giro di poche ore prima greco e poi fascista. Optò per la terza ipotesi.
“Signora, voto per loro. Non mi vergogno a dirlo. Anzi!”
Aveva, senza essersene accorto, alzato un po' la voce. Qualcuno più avanti nella fila si voltò senza dire nulla; altri fecero finta di non avere sentito. Iosifos continuò:
“Voto per loro ma votavo per Nuova Democrazia quando stavo a Creta...”
“Ah, viene da Creta”, disse la signora. “Nemmeno io sono di qui. Vengo dall'Argolide.”
“Bel posto, l'Argolide”, rispose Iosifos che non sapeva nemmeno dov'era, l'Argolide. La signora Kalitsounaki sorrise.
“Io non ho mai votato per loro, ma lei non si deve vergognare. Non è detto che non lo faccia anch'io alle prossime elezioni, perdiana. Certo che a Creta siete tutti belli scuri di pelle...ci picchia forte laggiù, eh!”
Si intromise un giovane magrissimo, che li precedeva di tre posti nella fila; anche lui sottovoce, ma tutto sembrava come amplificato.
“Io invece mi vergogno eccome, cari miei. Come un ladro. Ma non c'è più nulla in casa mia, accidenti alla puttana dell'eva. Tutti sulla stessa barca, se la roba la dava Pol Pot ero in fila lo stesso.”
La fila avanzava lentissima; erano quasi le dieci, quando riuscirono finalmente a passare l'angolo della Georgiou e a svoltare sul marciapiede del corso Lambrakis. La coda era impressionante; si cominciava a sentire qualche campana, forse per fare le prove per la messa. A Iosifos prese la voglia di piantare tutto quanto e di tornarsene a casa; Maryam, del resto, poteva partorire da un momento all'altro. Maledizione. Sarebbe tornato a casa in tempo, magari, per vedere nascere suo figlio; ma in casa non c'era più nemmeno una briciola di pane. Non poteva andarsene. Tanto, la carta d'identità la aveva; era tutto al sicuro. Lui era Iosifos Iliopoulos, fascista cretese. Uno dei loro.
“Io manco per il cazzo ero in fila da Pol Pot”, disse Iosifos al giovane. “Io sto coi miei, con la Patria greca in difficoltà. Contro quei musi neri che ci rubano il pane e il lavoro...ma loro sanno come trattarli!”
“Nonno, non mi sembri particolarmente chiaro, tu!”
Aveva parlato un altro ragazzo, coi capelli cortissimi; Iosifos si sentì raggelare.
“Certo che voi cretesi ci credo che ce l'avevate coi turchi nel '21! Siete uguali!”
Dalla fila partì una salva di risate, mentre la fila avanzava lenta ma costante; Iosifos cominciò a sentirsi come ubriaco, e pensare che non toccava un goccio da giorni.
“Bella battuta, bravo! Ma noi cretesi siamo l'anima della Grecia, voi qui a Atene eravate un branco di selvaggi, allora! Ma siamo tutti greci, fratelli, la Patria è nostra e sappiamo cosa fare!”
Successe a quel punto una cosa parecchio inattesa. Proprio in quel momento la coda cominciò a avanzare molto più rapidamente, senza nessun motivo apparente; la signora Samaritha disse al vecchio: “O stai a vedere che hanno finito la roba e succede casino”. Tutti sembravano camminare a passo normale ora, come in una processione di spettri sul marciapiede d'una grande città; avevano smesso di parlare. Erano i poveri, gli sfrattati, i diseredati, i buttati fuori, i piccoli borghesi morti dentro, i nipoti del partigiano, i tifosi dell'Olympiakos, le studentesse senza mangiare ma col telefonino, gli impiegati della televisione ammazzata, quelli che il ventuno aprile si erano girati dall'altra parte, quelli che il ventuno aprile li avevano rinchiusi nell'ippodromo di Nea Faliro che è pure lì vicino, quelli che il ventuno aprile non erano manco nati, i precari mangiaerbe, i pensionati senza pensione, un paio di anarchici e forse anche tre, i vergognosi, gli orgogliosi, gli ex volontari delle Olimpiadi, sedici fannulloni inveterati, un cantante fallito, Mikis Theodorakis, diversi insegnanti che avevano insegnato i valori della democrazia, diversi insegnanti che non insegnavano un bel nulla, un'intera squadra amatoriale di pallacanestro, otto preti poco ortodossi, un numero imprecisato di bambini e bambine e la signora Samaritha che sembrava sostenere il vecchio Iosifos che la seguiva. Tutti con la loro carta d'identità ellenica. Non si vedeva neanche un negro, nel corso Lambrakis. Neanche un indiano. Nulla. Era una strada greca nel Natale greco.
“Tranquilli! E' arrivata ancora roba!”
Aveva parlato un giovanotto gigantesco, vestito col giubbotto nero, da un motorino scassato che era passato di lì.
“Tu, vecchio, vieni qui, ché ti voglio abbracciare!”
Iosifos non si era reso conto che il giovanotto stava parlando proprio a lui; quest'ultimo, allora, scese dal motorino proprio mentre la fila era arrivata, velocemente, quasi al capolinea. Vicinissimi si vedevano i banchi coi militanti, davanti alla chiesa dell'Evangelistria, mentre le campane cominciavano a suonare a distesa e un'altra fila di persone, vestite da festa, entrava dentro per la messa. I banchi erano davvero pieni di ogni cosa; militanti albadoristi indaffaratissimi confezionavano sacchetti e li davano alla gente che passava davanti esibendo la carta d'identità sfilando poi via chi a testa bassa, chi a testa alta e chi senza testa. Degli altoparlanti diffondevano ora canzoni patriottiche, ora inni sacri della tradizione.
“Dico a te, vecchio. Ti ho sentito prima, sai. Ti voglio abbracciare per questo, camerata!”
Iosifos si toccò per l'ennesima volta la tasca sinistra. Il giovanotto si avvicinò, e lo abbracciò convinto. Un vero greco che non si vergognava, finalmente. Magari un povero lavoratore cui quei maledetti immigrati aveva rubato il lavoro o la pensione, costretto a far la fila la notte di Natale per avere qualcosa da mangiare. Ma tutti oramai sapevano quale fine avrebbero fatto, con l'Alba Dorata al potere. Nell'abbraccio di quel marcantonio al povero vecchio, dal collo del maglione spuntò fuori qualcosa. La sciarpa. Aveva degli strani peneri. Giusto giusto quando la signora Samaritha era stata servita e si era allontanata con la sua carta d'identità di greca cristiana, e com'è bello essere cristiani quando Cristo sta nascendo e suonano le campane a distesa. Magari avrebbe fatto pure un salto alla messa, e domani ci sarebbe stato qualcosa da mettere sotto i denti per lei e anche per quello di Pol Pot.
“Ma cos'è questo?”
“La mia sciarpa...”
Il ragazzo cominciò a tirargliela fuori, la sciarpa, al vecchio; a grandi manciate. Ne venne fuori una bella keffiah palestinese, bianca e rossa, da combattimento. Yosef se l'era fatta fare a N. da un suo amico arabo, un bravissimo tessitore che in quel momento stava pure lui in coda, da diciotto ore, a un valico tra Israele e i territori, aspettando di poter passare per tornare a casa. Naturalmente Yosef non lo sapeva.
Una ragazza al banco della roba, anche lei col giubbotto e biondissima, disse a Yosef mentre il ragazzo suo camerata guardava la keffiah:
“Me la fai vedere la carta d'identità, tu?”
Yosef tirò fuori dalla tasca sinistra la carta d'identità di Iosifos Iliopoulos, nato a Rethymnon (Creta) eccetera.
“Ma guarda tu!”, disse la ragazza. “Sono anch'io di Rethymnon, lo sai?”
“Incredibile!”, rispose Yosef con una specie di sorriso mentre gli era venuta la pelle d'oca.
“Già, incredibile. Dove stavi a Rethymnon?”
“Ci manco da anni oramai...”
“Sì, Iosifos caro, ma ti ricorderai dove abitavi, no?”
“In via....in via Agiou Nikolaou.”
“Via Agiou Nikolaou a Rethymnon non c'è.”
“Mi sarò sbagliato...forse era Agiou Mihali...”
“Non c'è nemmeno Agiou Mihali, bello. E 'sta carta d'identità è falsa.”
“Come falsa...? Ma che cazzo dici, tu...?”
“E' falsa perché è firmata col nome del sindaco di Salonicco. La hai mai vista una carta d'identità di un comune firmata dal sindaco di un altro comune? Io no.”
Attorno si era fatto il silenzio e il gelo.
Fanculo a Christos. Doveva averci uno stock di firme di sindaci e si era sbagliato. E lui era fregato. Era finita. Telos. Il ragazzo che lo aveva abbracciato con tanto entusiasmo stava calpestando la keffiah sotto gli anfibi, mentre si sentivano provenire dalla chiesa i cori da dietro l'iconostasi: “Brutto arabo di merda, schifoso, lurido verme! Ci volevi fregare, eh! Di Creta, eh!?! Ecco perché ci hai quel muso scuro da latrina! Ora te lo diamo noi un bel po' da mangiare!”
Yosef fu circondato in due secondi da dieci energumeni, mentre alla sua keffiah veniva dato fuoco. La sua carta d'identità era stata gettata pure nelle fiamme; aveva cessato di essere greco, di essere cristiano e anche di essere vivo.
Alla Mangiatoia, la Elettra aveva prima cominciato a sentire Maryam lamentarsi e non sapeva cosa fare; di tutto aveva fatto nella sua vita, fuorché la levatrice. Nonostante il suo mestiere, di figli non ne aveva avuti anche perché s'era fatta chiudere le tube da ragazza; ma tutto s'impara alla svelta, quando occorre. Bisognava, forse, chiamare un'ambulanza; e con cosa la si pagava, poi? Di ambulanze pubbliche dell'ospedale manco a parlarne, anche perché l'ospedale vicino, a ripensarci, non era più pubblico. Quelle private costavano carissime. Nel fondo alla Mangiatoia faceva un freddo boia mentre Maryam aveva rotto le acque; si sentì un raglio dal terreno vicino.
“Cazzo, l'asino...e il bue! Porca troia, magari se li porto dentro, con il fiato e con la merda fanno un po' di caldo...”, pensò l'Elettra; e corse fuori a prendere i due animali, spalancando la porta-finestra e facendoli entrare dentro. Maryam era stranamente tranquilla; era sicura che Yosef sarebbe tornato da un momento all'altro per vedere nascere suo figlio, magari rimediando anche qualcosa da mangiare e una coperta. Da un momento all'altro. Spuntò un testolina.
Il primo cazzotto prese Yosef spezzandogli una costola, mentre proseguiva la distribuzione del cibo ai greci; lui non era più greco, era un morto. Al secondo cazzotto partì un'altra costola, mentre sentì arrivarsi qualcosa sulla testa. Al terzo colpo caddè per terra fra gli sputi; al quarto sentì un calcio nei coglioni, ché tanto suo figlio ormai era nato di sicuro e avevano assolto al loro compito naturale. Al quinto colpo sentì due raffiche di mitra e vide cascare a terra in una pozza di sangue il ragazzo di Alba Dorata che lo aveva scoperto, e anche la ragazza pura cretese di Rethymnon. I colpi erano tutt'altro che cessati, e si vedevano due automobili ferme con tre persone che continuavano a sparare mentre la gente scappava da tutte le parti, chi abbandonando sacchettate di roba, chi arraffandone a più non posso. A terra c'erano otto fascisti, mentre gli altri erano scappati in chiesa; si sentivano urla dappertutto e, più in là, altri cadaveri col giubbotto nero. Le due automobili erano ripartite, nel frattempo, a velocità folle. Yosef si rialzò sanguinante; era mezzanotte in punto. Nella confusione, raccolse tre sacchetti di roba; uno era pieno di latte in polvere multinazionale. Correre. Anche se non ce la faceva. Correre. Correre a casa, mentre nel cielo splendeva una luce.
Arrivò alla Mangiatoia trafelato e ridotto a un ecce homo. Coi suoi sacchetti ridotti a ecce sacchetti, ma la roba ancora era là dentro. Erano quasi le una di notte.
Maryam era distesa sul pagliericcio, vicino alla cucina economica e alla bombola del gas dalla quale il gas mancava da dodici giorni. Sorrideva, con un marmocchio sulla pancia; l'Elettra era seduta, sporca come una fogna; per terra, liquidi, pezzi di placenta, ogni cosa. Il bambino era bellissimo e dava lievissimi vagiti; ci aveva pure un bel pisellino. Maryam non parlava.
“Ce l'hai fatta a tornare a casa, tu”, disse l'Elettra leggermente incazzata. “E ti sei anche perso la nascita di tuo figlio, stronzo.”
“Sì, però ho portato a casa tre sacchettate di roba...”
“E dove le hai prese?”
“Non te lo dico.”
“Non sarai mica...?”
“Andato a rubarle, dici?”
“Se tu le avessi rubate avresti fatto benissimo. Io dicevo...non sarai mica andato da quei merdosi...?”
“Dici quelli di Alba Dorata? Ma sei ammattita? Secondo te danno la roba a un ebreo palestinese?...”
“Appunto...”
“Ma com'è che ti sei conciato così? Sei ferito!”
“Sono stato preso da una macchina qui vicino...”
Non disse più niente, Yosef. Corse dalla moglie e dal bambino. Da Iesous, con quel nome un po' a bischero, di sicuro; ma così era stato deciso. Maryam non parlava, e quel suo non dir nulla era un misto di felicità e di pugni al cielo. Un po' più in là stavano portando via dodici cadaveri di militanti di Alba Dorata ammazzati, secondo il referto che qualcuno avrebbe stilato sicuramente, da svariate raffiche di tre diversi mitra. La roba sui banchi era scomparsa, così come quella abbandonata a terra nel fuggi-fuggi generale; le prime agenzie internazionali stavano passando con la notizia della strage di Natale al Pireo. Nel cielo brillava, inesorabile, il raggio laser proveniente dalla discoteca “Comet”, da poco aperta vicino allo stadio Karaiskaki.
(Già pubblicato sul blog il 23 dicembre 2013)