martedì 9 gennaio 2024

Sottoverga

 


Faccio una fatica del diavolo a scrivere, anzi, a digitare. Non ci vedo, per le cateratte oculari che ancora mi devono operare. Sono annebbiato cronico, ancor di più di quanto io sia stato costantemente annebbiato nella mia vita; ho raggiunto, finalmente, l’età della prostata certificata, del terzoetatismo militante, del “signore, si vuole sedere”? E mi siedo, budello d’eva se mi siedo. Ringrazio il ragazzo o la signorina gentilissima. Sono, devo dire, piuttosto educato anche se, alle volte, qualche rimasuglio di giovanile inciviltà mi rimane appiccicato. Ieri, ad esempio, in compagnia di qualche giovane amico, sono srato parecchio inurbano nei confronti di una ragazzotta che, su un marciapiede del centro di fronte al vecchio cinema teatro “Apollo”, protestava perché camminavo piano e mezzo barcollando. Ci aveva, la graziosa giòvine, una qualche declinazione di fretta sua, e bubava per farsi strada; alla fine se la è fatta, la sua strada del cazzo, venendo investita immantinente da una sequela di improperi molto volgari da parte mia, te e la maialaccia di to’ mae, t’arrovescio brutta stronza, e cose del genere che contrastano alquanto con tutta la mia storia, col politicàlli corrett, con tutto quanto anche se glielo avrei detto fosse pure stata un ragazzotto, un rude operajo o un'iguana. Probabilmente, non sono più di questo mondo; condizione normale quando si raggiunge una certa età e convenzionale. Che soddisfazione, però, vedendola spaventata; nonostante sia una specie di rottame semovente, ancora quel metro e 94 di statura e quello sguardaccio da merda secca ce l’ho, sebbene io sia certo che, in un eventuale scontro fisico, anche un bambino di dieci anni mi butterebbe giù facilmente.

Indossavo, col cappuccio tirato su, la mia “felpa da scontri”, regalo di un amico caro che canta canzonacce partigiane e roba del genere in più d’un coro. Felpa da scontri sì, perché è la felpa degli ultras del Montecatini Calcio. Da immaginarsi sedute di sprangate e cazzotti con gli ultras del Fucecchio, o della Cuoiopelli di Santa Croce sull’Arno; la felpa, nerissima come s’addice alla bisogna, è attraversata da una misteriosa scritta, “SOTTOVERGA”, che riporta in realtà a un quartiere di Montecatini. Si chiama “Sottoverga” perché si trova al di là (o al di qua) della ferrovia; di fronte, immagino ma non ne sono certo, ci sarà la “Sopravverga” o qualcosa del genere. Le ferrovie, specie quelle locali -in via di estinzione, naturalmente-, hanno questa singolare caratteristica di dividere, di segnare “identità” sottili e tremende, di affidare a un pallone lontanissimo storie, controstorie e metastorie. E così, eccomi con la felpa a massacrare una giovane tizia sculettante, anch’io lontanissimo dalle mie storie; e chissenefrega, dio cagnaccio, e vaffanculo. Evviva l’anarchia! Non so perché lo dico qua, scritto in caratteri 18 perché sennò non vedo manco quello che sto scrivendo; ma m’andava così, giunti ad un certo punto del proprio percorso di vita si trova, o si ritrova il gusto di dire quel che va, senza preoccuparsi di niente.

Giovedì quattro gennaio del duemila e ventiquattro. Il Natale, dicono, è il ventiquattro; anzi, lo diceva un briaco livornese che scriveva canzoni e che ho fatto, molti anni fa, addirittura risorgere. E’ un anno un po’ particolare, ‘sto ventiquattro; la mia linea diretta, chiamiamola così, compie un secolo esatto. Mio padre era del Ventiquattro, sì, ma del mille e novecentoventiquattro. E’ morto nel 1997 a 73 anni, ma è come, assieme a lui, quest’anno io compissi un secolo. Non che ci abbia avuto sempre, anzi quasi mai, un rapporto ottimale; se devo parlarne con tutta sincerità, direi anzi che la più profonda profondità che ci siamo passati è tutta a base di debolezze senza soluzione. Ma così è; il quattro gennaio di questo ventiquattro centenariale, insomma, la mia vicina di casa, amica e sorella, l’ho dovuta far ricoverare a forza perché stava morendo. Sono tematiche e dinamiche di cortile, non pretendo che chi legga -ammesso e non concesso che ancora ci sia, perché non scrivo oramai quasi più niente- possa capire. C’è anche un gatto di mezzo, che in questo momento dorme beato sul letto; un gatto rappresenta probabilmente la summa di tutte le idiote filosofie umane, di cui si fa sovrana beffa col suo semplice essere gatto.

E così, stasera, otto gennaio, a feste finite, con le lucine che si spengono gradatamente, con un freddo che comincia a farsi finalmente gennajesco, eccomi in viaggio, poco dopo passate le sei della sera, verso l’ospedale. Bisogna che ci vada, prima il 9, poi la tranvia, e poi il bussino 27 da una fermata dedicata a quella fava di Pietro Nenni. Ma quante cose, mi chiedo, saranno state dedicate a delle emerite fave lesse? Anche se “antifasciste”, anche se sono state perseguitate, certo; sempre fave restano. Ho indosso, per andare a trovare questa amica che viene da un paese dall’altro capo del mondo, la felpa nera del Sottoverga; ci ha quel cappuccio da mazzate, avvolgente, che protegge dal freddo la mia testaccia di cazzo nella quale si agitano, e non da ora, delle cose che neppure io ho mai compreso appieno nonostante, ultimamente, una qualche lucetta si sia fatta strada portandomi, com’è d’uopo, al silenzio pressoché totale. Cose di quando si va dentro un ospedale, nel quale, fra l’altro, mi sono spesso ritrovato di persona. Mi ci muovo come fosse quasi casa mia; i corridoi, i piani, i reparti. Le carezze. Le telefonate. D’accordo, ci ho pure la mitologia personale, accuratamente coltivata, di essere rimasto uno fra i pochi senza smartphone; tutto falso. Da un annetto almeno ce lo ho eccome, e anche bellino, Motorola, ola ola, vo a dormire nell’aiòla. E uso Whatsapp. Addio mitologia, il gattone continua a dormire beato sul letto e l’inverno avanza inesorabile.

Esco dall’ospedale alle otto di sera passate. Felpa piantata addosso, ultras del Montecatini, sigaretta in bocca, telefonate a mezzo mondo e non è un modo di dire visto che devo scrivere, per informarlo, a un suo fratello che sta dietro l’angolo, solo undicimila chilometri di distanza, e che vuoi che sia mai, Estado del Salta, Argentina, don’t cry for me, in uno spagnolo che ve lo raccomando, di quelli che se Cervantes mi vedesse mi manderebbe addosso dodici Donchisciotti e otto Sancipanza dicendo loro che sono il mulino a vento di Satana. Tutto stazionario. Quando si esce da un ospedale, di persona o per conto terzi, ogni cosa è sempre stazionaria. Anche la morte, volendo, è stazionaria; ci staziona addosso fin dal primo momento, fin dal primo vagito, che poi è la stessa parola di “guaito”, nel medesimo rapporto che “vagina” ha con “guaina”. Derivazioni colte e derivazioni popolari, l’uomo e il cane. Stazionando con il cappuccio del Sottoverga calato sul capo, eccomi andare a riprendere l’autobus. Che fare di questa serataccia d’inverno? “Era una serataccia d’inverno”, recita l’incipìtte di un capitolo del Pinocchio, nel quale il burattino, spinto dai morsi della fame, esce di casa per andare in paese a cercare qualcosa da mangiare, preparandosi a mille disavventure che lo porteranno, una volta tornato a casa, a bruciarsi i piedi non senza aver prima schiacciato il Grillo Parlante.

Poiché, nella mia serataccia d’inverno, effettivamente a casa non ho granché da mangiare, prendo la drastica decisione: scendere dall’autobus, pigliare la tranvia alla fermata “Arcipressi” e andare fino al supermercato PAM di via Francavilla, che -dice- rimane aperto addirittura fino alle ore 22. Lo dice l’Internet, e l’Internet non sbaglia mai. Fermata Sansovino. Cento metri a piedi. No, che dico: forse saranno duecento. Non so che mi succede; fa un freddo da pelare, sono reduce da due settimane invirussate, ho avuto la febbre a 39, non ci vedo un cazzo carpiato e arrovesciato, barcollo, non scrivo più nulla, e devo farmi ogni giorno quattro insuline e prendere nove pasticche dai nomi inquietanti. Scatta il famoso canto del cigno.

Vado come un treno. Mi fo i sognini: ora mi compro i carciofini pe’ fàmmi la frittàa, tre etti di bologna tagliata alta e la stiacciàa, e guardo se ciànno i’ Gutturnio. Gnamme. Ciò una fame che sciànguino, d’accordo, lo dico in pisano ma rende l’idea. Eccomi davanti all’ingresso del PAM e mi si para davanti un vigilante, una mezzasega d’un metro e sessanta di altezza, e pure d’un metro e sessanta di larghezza, e mi sbarra la strada. “Inventario”. Il PAM è chiuso alle diciannove, oggi otto gennaio di quell’anno in cui mio padre avrebbe compiuto cent’anni. Tiro una salva di mòccoli in faccia al malcapitato, che peraltro capisce e allarga du’ bracci simili a biroldi.

E allora mi dico: perché non andare all’Acqua Santa? Una trattoria che si chiama così perché si trova all’inizio di una strada che si chiama Via del Palazzo dei Diavoli. Non c’è nessuno. E’ una serataccia d’inverno, maladett’a lui. C’è un’amica più di là che di qua. Un risottone coi funghi porcini, mezzo litro di rosso e il padrone, un pakistano che si stupisce un pochino quando gli dico della lingua urdu, mi mette addirittura i Bìtols. Hey Jude, don’t make it bad. Ora, d’accordo, non lo sa che a me i Bìtols mi hanno fatto quasi sempre cacare, in questo la penso come quel coacervo di boria e di supponenza di Piero Scaruffi, ma è così. Entra un altro sparuto avventore, ordina una pizzaccia che più che margherita si potrebbe definire piscialletto e ci si mette a parlare di cani e di gatti mentre Hey Jude si cangia nel sottomarino giallo, nel penni lèin, in quello che ti pare ma va bene ogni cosa mentre là fuori il gelo bisbiglia un pochino sommesso e non si sente niente tranne i passi d’un raro viandante, ché in via del Palazzo dei Diavoli davanti all’osteria dell’Acqua Santa un viandante ci sta sempre bene anche se siamo in un quartiere d’una città del duemila e ventiquattro. Comincia a volare il vino. Sì, lo so. Non dovrei bere. A dire il vero, mi riesce anche benino non bere, ultimamente; litri d’acqua. Tutto sommato, sono diventato quasi bravino. Una volta degrumato il risotto co’ funghi, bevuto, pagato e parlato di cani e di gatti, decido che è ora di tornare a casa. A piedi. Quant’è che non facevo la strada a piedi, da lì a casa mia sono quei due chilometri o quasi che, una volta, facevo regolarmente senza fiatare. Fa veramente freddo. Il Generale Inverno. Mi viene quasi da fargli il saluto militare, strade di Stalingrado, tutto quel che si vuole mentre parto col cicchino e vado che sembro unto, senza barcollare, vedendo tutto chiaro nel buio che non è pesto, ma non è neanche luce.

I miei romanzi picareschi sono robaccia di quartiere. Sono camminate nella notte dopo essere stati a un ospedale, aver mangiato una cofana di risotto coi funghi e bevuto mezzo litro di vino. A dire il vero, gli ultimi trecento metri me li son fatti raccattato dal 9 perché stavo cominciando a perdere qualche colpo; però, giù, fino a via Modigliani avevo retto come una volta, cicchino in bocca, cantando persino “Ja nuns hons pris”, anno 1194, scritta e musicata da un mio omonimo, tale Riccardo Cuor di Leone, di professione re d’Inghilterra. Ja nuns hons pris ne tendra sa raison, adroitement ne dolantement non...chissà che non sia l’ultima, chissà se la notte gelida capirà. Chissà che, per sentirmi per mezzo secondo vicino a quel dio che, disperatamente, non esiste e non ce la farà mai ad esistere nonostante i suoi comici sforzi, non abbia dovuto passare per un ospedale, per un vigilante simile al fiaschetto del Monopoli, per un risotto coi funghi e per la Sottoverga d’una felpa calata addosso per fare gli scontri con gli ultras del Lautes Nichts.