Esattamente non si è mai saputo da che cosa sia nata, o comunque derivata, la festa dell’otto marzo, quella che da decenni è comunque la “festa della Donna” o comunque la si voglia chiamare e celebrare con o senza le mimose. Secondo le più accreditate ricerche storiche, pare che a San Pietroburgo, l’8 marzo 1917 (cioè pochi mesi prima della Rivoluzione d’Ottobre), alcune donne manifestarono per chiedere la fine della guerra; ma si ignora se si trattasse di un otto marzo secondo il vecchio calendario Giuliano (quello per cui la Rivoluzione d’Ottobre avvenne in realtà il 7 novembre), o se sia una data già riportata al nuovo calendario. Sempre secondo tali ricerche, fu a Mosca nel 1921 che fu stabilito che l’otto marzo divenisse una non meglio precisata “Giornata Internazionale dell’Operaia”. Fatto sta, però, che tutte queste accurate ricerche storiche non tengono conto che tale giornata, in quella data, fosse festeggiata negli Stati Uniti già nel 1909, in altri paesi europei a partire dal 1911 e, dal 1922, persino in Italia. Ne sono state dette realmente di tutte e di più, compresa la leggenda (perché di una autentica leggenda si tratta) di un incendio che, l’8 marzo 1911, avrebbe colpito una non meglio precisata fabbrica tessile, la “Cotton”, causando la morte di numerose operaie. Una fabbrica “Cotton” non è mai esistita; prova ne sia che, nella leggenda, tale fabbrica veniva situata in praticamente tutte le città degli Stati Uniti, da New York a Chicago, da Detroit a una qualche cittadina del Midwest. Anche nella leggenda, però, si tendeva a considerare l’origine dell’otto marzo come derivata da un qualche tragico avvenimento che avesse avuto come vittime delle donne lavoratrici; e, con ancora maggiore probabilità, tutto questo ebbe ad incrociarsi -come avviene non di rado nelle leggende popolari- con un avvenimento reale e, purtroppo, ben documentato, avvenuto a New York nel marzo del 1911, ma non l’otto. Il venticinque. Un giorno terribile in cui si ebbe realmente un disastroso incendio che colpì una fabbrica tessile, o piuttosto un enorme laboratorio, causando la morte di 146 persone, in stragrande maggioranza donne. Fino agli attentati alle Torri Gemelle dell’11 settembre 2001, si è trattato della singola tragedia che abbia mai causato a New York il maggior numero di vittime.
25-3-1911: L'incendio della Triangle Shirtwaist Company, New York. |
La fabbrica, o grosso laboratorio, era situata ai tre piani più alti di un palazzo di dieci piani (ancora esistente), l’Asch Building all’intersezione tra Greene Street e Washington Place, poco ad est del Washington Square Park. Si chiamava, quella fabbrica o laboratorio, Triangle Shirtwaist Company ed era specializzato nella produzione di camicette femminili molto alla moda a quell’epoca, appunto le cosiddette shirtwaist. Si trattava di camicette molto ampie nella parte superiore, ma strettissime alla vita e munite di un cinturino che accentuava il “vitino di vespa”. Era proprietà di due imprenditori appartenenti alla borghesia ebraica, Max Blanck e Isaac Harris; la fabbrica occupava circa 500 lavoratori e lavoratrici, in massima parte giovani donne immigrate dalla Germania, dall’Italia e dall’Europa dell’Est.
Dire “giovani donne”, però, non rende perfettamente l’idea. Il laboratorio era, come molte altre fabbriche tessili newyorkesi, uno sweatshop, dove si lavorava in condizioni terrificanti e con salari da fame, controllati e controllate con un rigidissimo orologio di produzione. Le operaie della Triangle Shirtwaist Company erano quasi tutte giovanissime; alcune avevano addirittura 12 o 13 anni, e tra le vittime dell’incendio si conta anche un’operaia dell’età di 11 anni. Lavoravano con turni di quattordici ore per una settimana lavorativa che andava dalle 60 alle 72 ore. Un’operaia, Pauline Newman, dichiarò che il salario medio per le lavoratrici andava dai 6 ai 7 dollari a settimana. Al tempo stesso, e qui è possibile riallacciarsi ancor di più all’origine operaia dell’otto marzo, la Triangle Shirtwaist Company era divenuta famosa già molto prima del 1911: il massiccio sciopero delle operaie tessili iniziato il 22 novembre 1908 (ed ecco, appunto, il 1908…), conosciuto come Protesta delle Ventimila, era iniziato con una manifestazione spontanea proprio delle operaie della TSC. In seguito allo sciopero, il sindacato delle operaie tessili per abbigliamento femminile, la International Ladies’ Garment Workers’ Union, negoziò un contratto di lavoro che copriva quasi tutti i lavoratori e lavoratrici (lo sciopero durò ben 4 mesi); ma la direzione della TSC rifiutò di sottoscriverlo.
Le condizioni di lavoro erano quelle tipiche del tempo: tessuti infiammabili erano immagazzinati, per non dire accatastati, per tutta la fabbrica. Scarti di tessuto sparsi per i pavimenti, con gli uomini che lavoravano come tagliatori che spesso fumavano. L’illuminazione consisteva in luci a gas aperte, e c’erano pochi secchi d’acqua per spegnere gli incendi -che erano, ovviamente, frequenti. Il pomeriggio del 25 marzo 1911 iniziò uno di questi incendi, all’ottavo piano; ma, quella volta, sfuggì completamente di mano e avvolse ben presto tutti i piani superiori dello stabile occupati dal laboratorio. Morirono, come detto, 146 tra operaie e operai.
L'interno della fabbrica Triangle devastato dalle fiamme. |
Scorrendo l’elenco delle vittime, ci si accorge che la maggioranza di esse erano giovani donne, e spesso ragazzine, di origine perlopiù italiana e dell’Europa orientale. Queste ultime erano tutte ebree, sfruttate da due padroni ugualmente ebrei a riprova che, nel capitalismo selvaggio, le questioni etniche e religiose c’entrano assai poco per non dire assolutamente niente. Molte vittime furono identificate a fatica; risulta che la più giovane, Mary Goldstein, aveva 11 anni di età. Poiché la fabbrica occupava gli ultimi tre piani di un palazzo di dieci, sessantadue delle vittime morirono nel tentativo disperato di salvarsi lanciandosi dalle finestre, non esistendo altra via d’uscita. I proprietari del laboratorio, Max Blanck e Isaac Harris, al momento dell’incendio si trovavano al decimo piano; tenevano chiuse le operaie per paura che rubassero o facessero troppe pause; si misero in salvo attraverso una scala di sicurezza esterna, e lasciarono morire le lavoratrici e i lavoratori. Ciononostante, al processo che seguì gli eventi, risultarono -naturalmente- assolti, L’assicurazione liquidò loro 445 dollari per ogni dipendente rimasto vittima dell’incendio; alle famiglie di questi ultimi furono liquidati esattamente 75 dollari. Da qui, dunque, sappiamo che l’undicenne Mary Goldstein valeva 75 dollari, così come la sedicenne Anna Altman, la sua coetanea Vincenza Belatta, la diciassettenne Celia Eisenberg, la quattordicenne Rosalia Maltese, ed anche la quarantottenne Provvidenza Panno, che aveva due figlie operaie nella stessa fabbrica.
Alcune delle operaie sfracellate al suolo. |
L'operaia Jennie Franco, 15 anni. Fu tra le vittime dell'incendio, |
Tra gli operai, uomini, che avevano per un periodo lavorato alla Triangle Shirtwaist Company, c’era anche Morris Rosenfeld.
Morris Rosenfeld (1862-1923) |
Non era più un ragazzino, Morris Rosenfeld. Era nato nel 1862, e nel 1911 aveva quindi quasi quarant’anni. Era nato in Polonia, all’ora parte dell’Impero Zarista russo, ed era emigrato negli Stati Uniti, senza un soldo, per sfuggire alla terribile leva militare zarista (che durava venticinque anni). Era stato educato alla ribellione fin dall’infanzia, da suo padre; come tutti gli ebrei polacchi e dell’Europa orientale, la sua lingua materna era lo yiddish. Lo yiddish è, in realtà, un dialetto tedesco medievale con una consistente parte del lessico derivata però dall’ebraico, e scritta in una forma leggermente modificata dell’alfabeto ebraico.
Morris Rosenfeld era e rimase un grande poeta proletario; di fede anarchica; scrisse e compose esclusivamente in yiddish. E’ stato considerato come il poeta del ghetto, ma, soprattutto, dello sweatshop; per vivere in America, infatti, aveva lavorato in tutta una serie di tali laboratori con paghe da fame e con l’ossessione dei controlli e del caporeparto munito di orologio, per quattordici ore al giorno. In tutti gli Stati Uniti, spostandosi qua e là. Nel 1908, e riecco quel fatidico anno, lavorava proprio alla Triangle Shirtwaist Company al momento dello “Sciopero delle Ventimila”, per le quali componeva poesie e canzoni di solidarietà. Tra di esse, quella che sarebbe divenuta la sua più famosa, Mayn rue-plats (scrivo in trascrizione), vale a dire: “Il mio luogo di riposo”, o meglio, “La mia tomba”, “Il mio sepolcro”.
Mayn rue-plats è una canzone dove si dice che la fabbrica sarà la sua tomba, come lo fu per le sventurate operaie e per i lavoratori della Triangle Shirtwaist Company. Scritta per le operaie di quella fabbrica, fu, dopo l’incendio del 25 marzo 1911, associata automaticamente a quella tragedia, divenendo come il suo inno, la sua canzone. Ed è esattamente per questo motivo che, in seguito, è diventata, negli Stati Uniti e dovunque ancora si parli e si intenda lo yiddish, la canzone dell’Otto Marzo. Non è esagerato affermare che, alla costituzione e alla formazione di quella festa nel suo significato più profondo, abbia contribuito non poco. Scritta da un uomo che condivideva tutti i giorni il destino, le condizioni di vita, le aspirazioni e le speranza di quelle povere persone immigrate, donne e uomini, che lavoravano nel più totale sfruttamento e che morivano nelle fabbriche, non solo per incendi o altre catastrofi.
Mi rivolgo qui, se leggeranno, alle donne con cui, proprio stamani, ho voluto cantare questa canzone (non completamente: ho saltato una strofa) in casa di Lucia F., per ricordarla di fronte all’urna contenente le sue ceneri, in un momento di memoria e condivisione proprio in quella lingua di cui conosceva ancora qualche parola, e che forse rappresentava la sua lontana provenienza. Quello che segue è il testo in yiddish, accompagnato da una traduzione. Grazie a tutte voi e un abbraccio.
Nit zukh mikh vu di mirtn grinen,
Gefinst mikh dortn nit, mayn shats.
Vu lebens velkn bay mashinen,
Dortn iz mayn rue-plats,
Dortn iz mayn rue-plats.
Nit zukh mikh vu di feygl zingen,
Gefinst mikh dortn nit, mayn shats.
A shklaf bin ikh, vu keytn klingen,
Dortn iz mayn rue-plats,
Dortn iz mayn rue-plats.
Nit zukh mikh vu fontanen shpritsn,
Gefinst mikh dortn nit, mayn shats.
Vu trern rinen, tseyner kritsn,
Dortn iz mayn rue-plats,
Dort iz mayn rue-plats.
Un libstu mikh mit varer libe,
To kum tsu mir, mayn guter shats.
Un hater af mayn harts dos tribe,
Un makh mir zis mayn rue-plats,
Un makh mir zis mayn rue-plats.
Non mi cercare nel mirteto,
Non mi cercare là, amore mio.
Dove le vite ai macchinari
Si spezzano nel logorio,
Quello là è il sepolcro mio.
E né tra il canto degli uccelli,
Non mi cercare là, amore mio.
Ma tra gli schiavi incatenati,
Tra loro, sì, ci sono anch’io.
Quello là è il sepolcro mio.
Non mi cercar tra le sorgenti,
Non mi cercare là, amore mio.
Ma tra i digrigni in mezzo al pianto,
Quello è il mio solo zampillìo,
Quello là è il sepolcro mio.
E se mi ami d’amor vero,
Allora vieni, amore mio.
E poni fine a quel dolore
Che stringe e serra il cuore mio,
Dolce sarà il sepolcro mio.