"La Cavana: vicoli senza uscita (che qui si chiamano androne), miserie piccole e grandi, case mezze diroccate, gente che va e gente che viene. Coi suoi capelli spettinati da folletto mai stanco, Livio mi racconta che in quel quartiere c'era una concentrazione di bordelli impressionante."
(Appunti liberi di un Gucciniano a Trieste)
Mettiamo che Livio (mettons que Livio, Livio Metòn) ora sia tornato a com'era in quella foto nell'orto inviatami dalla Meerfarbäugige di cui sopra; come tutti i triestini pazzi, cioè proprio tutti ivi compresi i neonati e quelli nati in Ghana, scriveva poesie. Le poesie sono cose da pazzi, lasciatemelo dire. Smettono di scriverne i noiosi rinsaviti e gli obbrobriosi granitici. E, allora, vorrei mettere qui sotto un paio di poesie scritte da Livio. Io non dirò che sono belle o non belle; dirò solo che sono lui. Come me lo ricordo e come me lo ricorderò. Se una poesia ha un gusto, oltre che un suono, è quello di una gigantesca e pestilenziale radice di rafano che mi portò ad acquistare in un supermercato di Sezana, in Slovenia. Delle poesie, una è in triestino.
nel frattempo però,
amo la vita,
o chissà,
l'amerò.
Io amo e io odio,
io mangio e io sputo,
io bevo e io rutto,
io vomito il mondo
con tutto quel
che mi sta attorno.
Io creo,
io distruggo,
tutto quel che mi sta accanto,
tutto quel che io vedo,
tutto quel che mi sta amando.
Nel frattempo però,
io amo la vita,
e ancor più l'amerò.
Veciaia.
Vivemo e soratuto volemo viver,
ma par intanto le zornade e le stagioni se ingruma
drio de le nostre spale,
e quel che ne resta se consuma
senza inacorzerse,
come 'na candela.