mercoledì 20 maggio 2015

A leggere i poeti (che nessuno al mondo, poi, leggerà mai)





Quei poeti, che nessuno al mondo (poi) avrebbe mai letto, avevano un nome e un cognome. Erano quasi tutti di paesi strani e le loro poesie le avevano scritte in lingue anche più strane dei loro paesi; ogni tanto, però, provavo uno strano piacere nell'andare a cercare in mezzo ai classici, quelli che ci erano inflitti a scuola, per trovare la “perla sconosciuta” il cui autore non era da dire immediatamente. Sennò la sorpresa andava a farsi fottere, lo sgranamento degli occhi che era l'attesa conclusione quando il nome veniva finalmente rivelato. L'autore di quei versi che, per due o tre minuti, avevano fatto un po' sognare era lo stesso che, la mattina fra i banchi di classe, ci faceva caramellare i coglioni con le urne de' forti, con Pindemonte, coi sepolcri dei grandi e con le roboanti virtù degli antichi. Ma sì, ci voglio riprovare.

Oh come del pensier batte alle porte
questa fatale immago e mi persegue!
Come d’incontro mi s’arresta immota,
e tutta tutta la mia mente ingombra!
Chiudo ben io per non mirarla i rai,
e con ambe le man la fronte ascondo;
ma su la fronte e dentro i rai la veggio
un’altra volta comparir, fermarsi,
riguardarmi pietosa e non far motto.
Le braccia allargo, e prono in su le piume
cader mi lascio colla bocca e il petto;
ma l’immago dagli occhi non s’invola;
anzi s’accosta, e par che ciglio a ciglio,
gote a gote congiunga, e tal poi meco
reclini il capo e s’abbandoni al sonno.

E' una poesia, questa, di Vincenzo Monti. Qualche anno dopo, in una specie di album di fotografie e poesie, l'avrei messa sotto un'immagine di una ragazza, che allora doveva avere diciannove anni, mentre scendeva degli scalini in un antico angiporto di una città di mare. Una foto persa chissà dove, ma che rimane nella memoria. La memoria delle immagini. All'epoca dei poeti che nessuno al mondo eccetera, invece avevo preso un quaderno con le clip e ci avevo scritto tutte quelle poesie, alcune addirittura traducendole di persona, per offrirglielo in regalo. Le notizie attuali sono, forzatamente, assai scarse e non cercate; ma sembra, sempre che non me lo sia immaginato o sognato, che quel quaderno esista ancora.

Dev'essere, almeno un po', una caratteristica di quei primi amori nati negli anni '70. I primi amori di quei tempi erano sì, come quelli di ogni epoca, pieni di autunni, di foglie secche, di passeggiate nei viali e anche di giornali. Nel mio (o nel nostro) caso, c'erano anche sigarette fumate in un piccolo bar in Borgo de' Greci, c'erano i chiarimenti, c'erano gli intervalli a scuola, c'erano insomma tutti i paraphernalia adolescenziali; parlo degli anni, diciamo, dal 1978 in poi. Poi c'erano, dati gli anni, anche le liberazioni sessuali, le cattiverie, le politiche. Da ragazzo ero molto meno estremista di adesso; oppure, lei lo era molto più di me. Poiché essere fuori tempo è però una mia caratteristica saliente, la rivendico con pacata rabbia. Durante una di quelle passeggiate, in un'artistica stradina collinare della città, per chissà quale motivo mi sentii pure paragonare a Beppino, un personaggio di uno sceneggiato, “La Delia”, che veniva trasmesso a quei tempi in televisione. Beppino era il marito, tardo di cervello e impotente, della protagonista che lo tradiva anche con un morto in casa. Cose che si dicono, che si ascoltano, e che si inchiodano nella memoria per non uscirne mai più; ed è così che, specialmente nell'adolescenza, amore fa forzatamente la rima con rancore, bellezza con schifezza, poesia con porcheria. Eravamo un po' bizzarri, ad ogni modo; io già altissimo, allampanato, spettinato, sporco, lei bassina, delicata, con espressioni a volte bellissime e a volte cattive. Corollari erano libri, ciclostili, gli ultimi fuochi di un'epoca che non avevamo vissuto, le ferree disperazioni dell'età, gli autobus, una cantina condominiale, e anche -perché no- Francesco Guccini. Lunghe pause piene d'ira.

Succede così che, in serate che sono e debbono essere rare, l'âge venu, mentre magari si sta lavando i piatti venga a mente una canzone. Così, senza un motivo. Viene a mente, subito dopo, anche l'immagine che l'accompagna, il Guccini col montgomery e i pantaloni “acqua in casa” nel viale autunnale. I pantaloni troppo corti sono, del resto, una costante di noialtri altissimi; contribuiscono anch'essi al fissarsi definitivo dell'immagine. La canzone scorre, e invariabilmente ci si rivede; o meglio, ci si rapporta. Senza sapere neppure a chi esattamente quelle parole siano state dedicate e quale storia abbiano raccontato, si vede la propria. Si vede Lui e lei, e non è mai semplice metabolizzare, anche a quasi quarant'anni di distanza, che Lui sei tu. Si fa il solito gioco di Quel Che Rimane e Quel Che È Andato; e si vorrebbe, naturalmente, trarre somme che, lo si sa benissimo, non verranno mai tratte -specie quando, ad un certo punto, è intervenuta un'interruzione. O meglio, è intervenuta la vita. Può darsi pure che abbia ristabilito un po' di logica. Che abbia, come è lecito e doveroso, ricondotto molte cose alla loro vera natura. L'adolescenza, poi; il periodo più schifoso e terrificante della vita, ma che si finisce sempre per rimpiangere, probabilmente perché si percepisce sempre più chiaramente che ti ha fissato, ti ha stabilito, ti ha marchiato. Che sei quello che sei perché lo sei diventato allora. Che il tuo bene e il tuo male sono nati in quegli anni. Che le poche gioie e le tante pene di allora sono, dentro di te, sempre presenti come fossero di pochi giorni fa. Così è, mentre la città d'attorno sembra nuova, mentre il suono, o il vuoto, del silenzio ci accompagna.