sabato 16 aprile 2016

La stazione di San Benedetto



Il mio universo ferroviario, oramai, si sta allontanando anche dagli Intercity in direzione del più rigoroso TBV a tutt'andare. "TBV" vuole dire: Treno a Bassa Velocità. Più ci mette e meglio è. Calci nel didietro alla fretta capitalistica. Umanissime e comodissime scomodità; perché vuoi mettere come si sta bene in un regionale mezzo vuoto coi cessi che non funzionano ma dove si può andare tranquilli a fumarsi la sigaretta perché tanto al controllore gl'importa una sega, tornando poi a stendere le gambacce lunghe, facendo quintali di parole crociate o gli esercizi di bretone, guardando il paesaggio che scorre piano dal finestrino e, a volte, dormicchiando mentre ci s'impuzza di treno. Alla malora non solo le "Top Class", ma anche quelle orrende "Frecce" da sessanta euro solo andata, coi tavolinetti, i sedili contrapposti e, soprattutto, la costrizione ad ascoltarsi stronzate di famiglia, idiozie professionali, telefonate di lavoro e discorsi di futuri "cervelli in fuga" (per favore, fuggite alla svelta e non tornate!), perdipiù sistemati malissimo in quella specie di strumento di tortura per tutti coloro che non siano dei nani. Senza contare, naturalmente, che un treno regionale da Prato a Bologna (o da Bologna a Prato, all'incovercio) costa otto euro e dieci centesimi, coi quali ti puoi permettere anche di farti tutte le stazioncine appenniniche, una dietro l'altra. Ma vadano a fare in culo la Centropadana di Reggio Emilia e i superarchitetti, Foster, Calatrava e quant'altri; nessuno saprà mai chi sarà stato il manovale che ha costruito la stazione di San Benedetto.

Non mi ci ero mai fermato, alla stazione di San Benedetto Val di Sambro; mi è capitato per puro caso, pochi giorni fa, in una tarda mattinata splendente. Il fatto è che avevo sbagliato: credevo che dal Piazzale Est di Bologna partisse a una cert'ora l'oramai consueto Bologna-Prato, senza essermi accorto che circolava solo nei giorni festivi. La mettono di solito, questa fondamentale dicitura, in un riquadrino più piccolo di una formica, sui fogli degli orari nelle stazioni; da coscienzioso viaggiatore TBV io guardo ancora i fogli, faccio il biglietto in biglietteria, detesto le macchinette e l'elettronica e mi porto i panini avvolti nella stagnola. Ci avevo pure, quella mattina, la bottiglia del vino; una bonarda un po' svaporata, ma andava bene lo stesso. Un trenino però c'era, al Piazzale Est; solo che si fermava, appunto, a San Benedetto. Fine della corsa. L'ho preso lo stesso, con la prospettiva di aspettare un'ora in cima al valico. Non mi ci ero mai fermato in treno, a San Benedetto; ma trentadue anni prima c'ero andato molto, troppo vicino. Solo dall'altra parte della galleria.

A San Benedetto vanno solo quelli di San Benedetto. A Bologna una ragazza mi chiede se può stare seduta vicino a me, perché dice che c'è un tipo strano sul treno; ma figuriamoci. Una volta, sulle Calabro-Lucane da Camigliatello e San Giovanni in Fiore, due ore e mezzo per fare sessantotto chilometri, a Silvana Mansio vidi salire in treno un tizio con un mazzo di fiori e un fucile a tracolla; un'altra, poco prima della stazione di Populonia-Baratti, salì invece uno in costume da bagno. Nient'altro. Rideva. La ragazza, rassicurata, si mette a giocherellare con lo smartphone e io dormo un pochino; si arriva a San Benedetto e scendo. Non c'è assolutamente nessuno. Trentadue anni dopo, un riquadrino orario letto male mi ci ha fatto andare; e immagino subito che cosa ci sia appena fuori dalla stazione.

  
C'è questo. Una targa apposta su un muro di pietre, sotto una ringhera arrugginita con il simbolo delle FS. Era una domenica sera, due giorni prima di Natale; avevo poco più di ventuno anni e già facevo il volontario sanitario sulle ambulanze, a Firenze. Il turno della domenica sera, dalle 20 alle 24, era fisso; e non succedeva mai niente. Si stava lì a chiacchierare, a guardare la televisione, a leggere; ma quella sera c'era presa un po' diversa. La sede della sezione della grande associazione dove prestavamo servizio si trovava, pensate un po', nello scantinato di una chiesa parrocchiale; si scendevano delle scale e, da una parte, c'era una specie di salone che serviva per le feste e per i bambini. Dall'altra, c'era l'ingresso della sezione dell'associazione. Se per caso si sbagliava lato e si entrava nel salone, si veniva accolti da un enorme e inquietante fungo di cartapesta con la cappella rossa. La sezione era piena di sedie. Non si sa bene a che cosa servissero, tutte quelle sedie, visto che normalmente al massimo ci saranno state dieci persone tutte assieme in servizio; può darsi che la sezione servisse un po' anche da deposito. Non succedeva mai nulla, e quella domenica sera, il 23 dicembre 1984, ci prese il bischero di metterci a fare la lotta con le sèggiole. A tirarcele dietro, facendo un casino della madonna (e la madonna, in una parrocchia, ci sta decisamente bene). L'autista di turno, a un certo punto, esclamò: Sai icché si fa? 'E si distrugge ogni hosa! E giù risate. S'era proprio allegri e si faceva a seggiolate, quando i telefoni saltarono. Tutti e tre insieme; quello ordinario, quello delle urgenze e quello del 113, con cui s'aveva un collegamento diretto. Cazzo succedeva? Lo si seppe in trenta secondi. Recarsi di corsa a Vernio per un incidente ferroviario. Da Firenze. Se ti mandavano da Firenze a Vernio, quarantacinque chilometri a dir poco, doveva essere successo un macello. A Vernio comincia la galleria. Nella galleria c'era già stato, dieci anni prima, un incidente ferroviario


Mi aggiro, in una mattinata d'aprile di trentadue anni dopo, all'esterno della stazione di San Benedetto con uno zaino bisunto a tracolla e una fotocamerina digitale. Il poliziotto di servizio alla stazione mi osserva senza dirmi nulla. Chiudo gli occhi senza chiuderli. Si parte con la sirena e si accende la radio; c'è una voce che dice, anzi ordina: per le ambulanze da Firenze, uscita Piano del Voglio. Poi si corregge; chiedo scusa, uscita Roncobilaccio. Dalla radio si sentono altre sirene che chiedono conferma; la stessa voce dice che l'autostrada viene tenuta sgombra per i mezzi di soccorso. Interviene un'altra voce per radio che chiede di controllare le bombole d'ossigeno e l'altra attrezzatura. Ne interviene un'altra che chiede se sia una bomba. Nessuna risposta. Tanto lo si sa già. C'ero sì, andato vicino, trentadue anni prima, a San Benedetto. Quando si arrivò a Vernio, fuori dalla stazione c'era un delirio mentre nevicava fitto; saranno state trenta, quaranta, cinquanta ambulanze coi lampeggiatori accesi, senza contare i pompieri, la polizia, i carabinieri. Dall'ingresso della galleria non si vedeva uscire quasi nulla, o perlomeno mi sembrò così; dalla parte di Vernio tirarono fuori poca gente ferita o semplicemente in stato di choc, da portare all'ospedale di Prato o a Firenze. A me e alla mia squadra non toccò nessuno, anche se comunque si rimase lì fino alle sette di mattina. Non avevo visto nulla. Il treno, il rapido 904, lo tirarono fuori dall'altra parte, come dieci anni prima. A San Benedetto.


Il poliziotto, alla fine, non ce la fa più. Mi si avvicina e mi chiede come mai sto fotografando lapidi, monumenti, ogni cosa. Ha un fare gentile, però; e allora gli dico che, trentadue anni prima, avevo fatto parte delle squadre di soccorso. Mi chiede persino scusa, mi dice che non voleva disturbare e che era solo curioso. "Sa, davvero, qui non si ferma mai nessuno a parte i locali". "Locali", un tempo, si chiamavano anche dei treni, quelli più infimi; gli dico, "Già qui si sono fermati i rapidi invece. Ce li hanno fatti fermare". Mi saluta e se ne va entrando nel bar, che si chiama "Il Pendolino". Treni. La parola che ha più anagrammi nella lingua italiana: treni, Inter, terni nome comune, Terni nome di città, trine, entri. Se dici "i treni", puoi fare anche "interi" e "retini". Da "bombe", invece, si può fare solo "Bembo", come Pietro Bembo. Da "stato" si può fare "tasto" e "tosta". Non lo so perché mi vengono in mente queste cose, non lo so. 

Il "monumento" all'Italicus, il treno 1486, è di fianco alla stazione di San Benedetto. Davanti al giardinetto, perché prima nelle stazioni mettevano i giardini e non c'erano gli architetti. Mi viene da pensare lì per lì che il monumento sia stato fatto utilizzando un pezzo di quel treno, o un pezzo di strage di stato, o un pezzo di strategia della tensione; ma forse non è così. E comunque un pezzo di vagone, con delle mani nere e metalliche che sporgono. Sarà stato, forse, così, quel quattro di agosto del 1974 alle ore 1.23 del mattino. Tutta la linea è stata completata: la borsa messa a Firenze, l'Italicus, il 904, la stazione di Bologna. Poi è toccato anche a Firenze, ma in pieno centro; e allora m'è toccato vederlo perbene, l'inferno. Quello che hanno visto a San Benedetto per due volte. Le mani. Il fumo. E allora continuo a aggirarmi, per quello che posso visto che alle dodici e cinquantasette passa il regionale per Prato. Mi ci sono fermato, finalmente, a San Benedetto; la giornata continua a essere splendida anche se, a quell'altezza, proprio caldo non fa. Soffia un vento di montagnetta e abbasso la testa. Trentadue anni prima nevicava come iddio la mandava, faceva un freddo terrificante e stavo all'ingresso di una galleria dove era entrato un treno, la stessa galleria che, alle dodici e cinquantasette, dovrò fare, chissà, per la millesima volta in vita mia. Magari dormendo, o facendo le parole crociate, o un esercizio in qualche strana lingua.

Ho il tempo, però, di andarmi a mangiare i panini nella stagnola. Vado in sala d'aspetto perché fa freddo. C'è una signora giovane che aspetta pure lei qualche treno e che, con squisita originalità, spippola su un telefonino; mentre mi metto a mangiare e a bere la bonarda svaporata, decido di essere molto composto. Normalmente non lo sono granché, non posso essere definito un modello di belle maniere. Però cerco di starci attento, di fare movimenti lenti, di masticare bene, di pulirmi le mani e la bocca, di andare a buttare i rifiuti nel cestino. Di fare il buon cittadino di questo paese che ha fatto saltare i treni in galleria e le stazioni intere. Di questo paese che è l'unico al mondo dove una deliziosa stazioncina di montagna col giardinetto e il pesco in fiore è disseminata di lapidi, di monumenti, di mani nere, di ferraglia contorta, di decine di lampeggianti sotto la neve, di agosti macchiati di sangue che solo per un caso non è il mio, o il tuo.

In mezzo al monumento alla strage dell'Italicus c'è una ragnatela. E' quella che si vede nella prima foto, quella sotto il titolo. Non è enorme, ma è spessa, ben fatta, indisturbata. Ha tutta l'aria di essere lì da parecchio tempo, e il ragno ha scelto proprio una delle mani simboliche per tesserla. Magari mi sono chiesto se poteva voler significare qualche cosa, perché per natura e per attitudine sono uno che cerca significati anche dove non ci sono. Chissà, mi sarò detto che una ragnatela sulla memoria ha una sua squisita e amarissima ironia, dato che la parola "ironia" significa, in origine, "dissimulazione". Però, a pensarci bene, quel monumento sembra fatto apposta per tesserci sopra una ragnatela; bisogna fare uno sforzo e mettersi dalla parte del ragno. A lui importa di acchiappare gli insetti, e li acchiappa. Ecco, è arrivato il treno; fra quaranta secondi s'infilerà nella lunghissima galleria popolata di ombre sempre più flebili sulle quali si sono stese le ragnatele del potere.