Era vecchia, quella casa. Vecchia, strana, malandata e brutta. Ci abitavo con la mia ex moglie, a Livorno, e come campavamo lo sanno soltanto chi allora mi frequentava, intuendo e capendo senza parlare, e il padreterno. A volte non avevamo neanche i soldi per fare la spesa. Si batteva chiodo dappertutto. Io non lavoravo quasi più, essendomi bruciata tutta una professione che fino a non molto tempo prima mi aveva comunque fatto vivere dignitosamente in infelicità, in alcool, in notti terrificanti, in discussioni interminabili, in post sui newsgroup e sulle mailing list. Non so dire se scrivere mi abbia salvato o rovinato. Ancora non lo so dire.
Prima che tutto finisse, prima che il coraggio di mettere fine a tutto questo, che mi era sempre mancato per inerzia e mancanza di volontà, non fosse venuto a trovarmi di sua iniziativa, stufo, incazzato e aiutato da un’altra persona, ogni giorno mi ritrovavo a dover affrontare la vita quotidiana. E la affrontavo, senza mezzi termini, vivendo di espedienti. Sul lavoro, ed a ragione, nessuno si fidava più di me. Mi davano una traduzione e non la facevo perché avevo da scrivere altre cose. Col mio orgoglio di merda mi rifiutavo di andare a fare un lavoro qualsiasi, anche malpagato, ma che mi desse un po’ di sollievo. Chiedevo fin dove potevo: in famiglia, agli amici. Ma non era possibile andare avanti. In più, Internet allora si pagava, e salata; arrivavano a volte bollette stratosferiche, e non so quante volte il telefono mi è stato staccato. Solo allora mi davo da fare, perché senza quello sfogo, senza mandare in giro le mie cose ed avere quella specie di mondo parallelo dove cercavo di infilare la vita che non avevo, non potevo campare.
Nel 1998 la Sip, con un debito di quasi dieci milioni, ci tagliò definitivamente il telefono. Scomparvi. Per sei mesi. Nessuno sapeva dove fossi. Ricomparvi con questo espediente: la vecchia vicina di casa, la Carmelina, non aveva mai avuto il telefono. Riuscii a convincerla a fare un contratto, pagandolo con qualche soldo che in quel tempo avevo pur messo da parte. Vennero i tecnici e fecero l’allacciamento. Poi presi una prolunga di dieci metri e la feci passare per la corte interna, collegandola al mio telefono e, soprattutto, al modem. Si poteva tornare a scrivere, a mandare in giro quel che si aveva dentro. Con uno strano numero, 0586-885575, che sull’elenco risultava intestato a Rossi Carmina, via Garibaldi 41, Livorno. Nuove bollette stratosferiche. Nuovi tagli. E nuovi espedienti per pagarle, visto che perlomeno la dignità di non gravare sulla pensione al minimo di una povera vecchia mi era rimasta. Lo riallacciavano, il telefono, ed eccomi di nuovo a scrivere.
Poi c’era il bagno, quel maledetto bagno che si intasava di continuo. A volte allagando di merda tutta la casa, perché i problemi erano alla colonna di scarico del condominio. A volte la merda usciva dalla doccia. Alla fine vennero gli operai a ripararlo, quello scarico. Tranquilli, disponibili, simpatici. E fecero un buon lavoro. Bisognava pagarli. Ma di soldi non ce n’erano. Nemmeno uno. Aspettarono dieci giorni. Quindici. Poi cominciarono a suonare al campanello.
Il periodo più assurdo della mia vita. Al campanello non si rispondeva più. Se doveva venire qualcuno di conosciuto bisognava che facesse il “segnale”, tre squilli brevi seguiti da uno più lungo. Appostamenti alle persiane della camera, che davano sull’ingresso. E quando si doveva uscire, lo si faceva con attenzione, a orari sempre strani, camminando rasente ai muri e infilandoci immediatamente nei vicoli di quella specie di casbah che c’era dietro via Garibaldi. Perché non c’erano soltanto gli operai, lavoratori che avevo ignobilmente fregato, ma anche i negozianti che non pagavi da mesi; guai a passarci davanti. Una vita che definire da clandestino era tutt’uno. I giri di notte. I giri di notte non erano nulla di poetico, anche se la poesia qualche volta saltava beffardamente fuori. Erano una necessità. Erano l’ora d’aria. Ossigeno che veniva bruciato nella bottiglia, dato che l’acqua, ovvero la chiarezza di pigliare la situazione in mano e andarmene da quell’inferno dove un’estranea che in qualche post fingevo di “amare” mentre in realtà la odiavo e tutta una serie di altre cose mi avevano cacciato. O dove mi ero andato a cacciare con la mia poeticissima inconcludenza, che mi ha fatto scrivere tante belle e profonde cosine, ma che mi aveva trasformato in un coltissimo e disperato zombie.
Una volta, però non ce la feci a sfuggire a quegli operai. Era un primo pomeriggio di marzo, pochi giorni quella “piola” che mi ha salvato la vita. Sarà magari buffo leggere questa cosa per chi era presente, quel 30 marzo 2002; eppure, quando ci ripenso, oramai lo faccio in questi termini. Era la cosa migliore, e forse immeritata in positivo, che potesse capitare a quell’immonda testa di cazzo che ero diventato.
Dovetti uscire per non mi ricordo che cosa. Ed eccoli lì, davanti, parati con un sorriso di scherno. “Ehi, òmo di merda”, mi fece uno. “Ma non ti vergogni, ladro?”, mi fece un altro. Il terzo non parlava; era il più grosso. Com’ero conciato allora, sarebbe forse bastato il più piccolo a riempirmi di cazzotti, e a Livorno il cazzotto non si lesina. E io a testa bassa, senza dire nulla, con le chiavi della polo blé in mano. Entrai dentro la macchina, mettendo in moto e andandomene via. Non li ho più rivisti. Nel “bignami di riccardoventuri” ci deve stare anche questo, sennò è un bignami incompleto.
Lo scrivo, questo bignami, da un ufficio. Via Pancaldo 25, Firenze. Dove faccio il mio lavoro di traduttore di testi tecnici, ma stavolta con uno strano tipo di contratto (le stranezze non sono cessate nella mia vita, ma va bene così) che mi fa vivere senza più problemi. A volte mi domando come mi sono rimesso in carreggiata, ma è una domanda che non ha risposte. O forse ne ha dieci, cinquanta, cento, corrispondenti a tutte le persone che mi hanno aiutato. La domanda vera dovrebbe casomai essere: perché lo hanno fatto? Che cos’è che, nella mia persona, fa volere bene? E questa è una domanda cui non posso rispondere.
E cerco di starci, in questa carreggiata, facendo estrema attenzione. A volte persino scontentando quelle stesse persone che mi vogliono bene. A volte tornando a scontentare me stesso. Ma la faccia di quei tre operai ce l’ho sempre davanti, e mi chiedo se mi riconoscerebbero nel caso che m’incontrassero. Vergogna, òmo di merda. La vergogna dell’uomo adulto che non aveva un soldo in tasca, di un povero truffatore, di una larva. E’ questo che non voglio mai più ritrovarmi a dover vivere, anche a costo, io odiatore del lavoro, io “critico radicale”, di starci nottate intere, a lavorare. Perché non devo più scappare da nessun operaio, da nessun fornaio, da nessun negoziante. Perché la tizia che adesso sta con me non deve più cacciare fuori il portafoglio quando si va a mangiare fuori. Perché, quando vado in vacanza, non devo più "stare alle regole" di chi mi ospita, anche se è tua madre, ma faccio quel che cazzo mi pare perché l'appartamento me lo pago. Sono cose molto terra-terra. Sono cose meravigliose. E sudate.
Perché in quel bagno allagato di merda c’era pur sempre uno specchio. E mi ci specchiavo, con quella faccia che ho ancora adesso. Mi guardavo, e mi rendevo conto. Trovavo tutte le mattine conferma a quel detto latino che dice: homo sine pecunia, imago mortis.
2 commenti:
Fiuuu, per un attimo temevo tu mi avessi dedicato un post... :-D
O caro, post del genere si dedicano soltanto...a se stessi, non avere paura :-P Saltando a pie' pari, fatti vivo per questi giorni!
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