giovedì 31 luglio 2008

Vino



Siete pronti per una notizia sconvolgente? Eccola. Oggi, 31 luglio 2008, ho sempre 45 anni -anzi, per la precisione, mi ci sto avvicinando sempre di più. E non ho nemmeno una gran voglia di parlare dei tempi addietro, ché, tanto, tutti quanti sono già in ferie e immagino che abbiano di meglio da fare che leggere dei miei tempi, indietro o avanti che siano. Poi, devo dirlo, ho appena letto il testo di una canzone straordinaria su un altro blog, una canzone che parla di campane che suonano; e si dà il caso, ovviamente del tutto fortuito, che stamani sia stato risvegliato da una campana. C'è una chiesa qui vicino; ma non mi capita quasi mai di sentirne le campane anche se, presumo, suonano tutti i giorni. Si vede che anche per le campane, come per ogni cosa, esiste il momento giusto.

Così per il vino. Pane e vino non si buttano mai via. Ieri sera, alla pizzeria sopra casa, una pizzeria calabrese che considero straordinaria, mi hanno servito un carpaccio di polpo favoloso con le olive nere e una salsina tiepida, talmente buona che non sono stato neppure a chiedermi di che cosa fosse fatta. Però hanno sbagliato il vino. Avevo chiesto un bianco secco, e invece mi hanno portato del rosso messo per sbaglio in frigorifero (evidentemente non si vedeva bene nella bottiglia scura). Poiché me ne ero già versato un bicchiere, quando la cameriera se n'è accorta si è scusata e mi ha detto che mi avrebbe fatto portare il bianco che avevo ordinato; ho rifiutato. La bottiglia di rosso già incignata sarebbe finita nello scarico dell'acquaio, e una cosa del genere mi ripugna. Le ho detto che non importava, che avrei bevuto il rosso freddo di frigorifero. In barba ai dettami della gastronomia, lo so bene. Ma il vino non si butta. Quel rosso sarebbe venuto a perseguitarmi la notte.

Aveva ragione Piero Ciampi quando diceva che il vino è “bello”. Nella sua canzone, forse l'unica sua veramente famosa, dice proprio così: Quant'è bello il vino. Non “buono”: bello. Prima di finire dentro il suo bevitore, passa per i suoi occhi. Ci sono degli sguardi al liquido nella bottiglia, ai suoi colori, almeno quando lo si può vedere bene; quando cade nel bicchiere, poi, c'è una specie di agnizione reciproca. Anche il vino riconosce, in qualche modo, chi lo sta per bere. Se credete che stia delirando di prima mattina, oppure -visto l'argomento- che sia già briaco, vi prego di ricredervi: l'espressione del vino che si fa bere non l'ho certo inventata io.

Riconosce, il vino, un tipo lungo e grosso, a un tavolo da solo accanto a una coppia che parla di cose loro. Riconosce quella sua annosa consuetudine al tracanno, mai al centellinamento coscienzioso e a volte pretenzioso di chi dice di “saper bere”. Allora si predispone a farsi inghiottire d'un botto, a bicchierate piene, senza per questo rinunciare a farsi gustare. Così dicevano, a quel tipo al tavolo, quand'era ancora piccolo, otto o dieci anni; in mezzo alle proteste delle donne di casa, che non volevano, il padre serviva al ragazzino il suo bicchiere in un atto tremendamente maschile, che d'illogico ha solo il non rendersi conto di che cosa siano un padre e un figlio. Giù d'un botto, diceva il padre; e io lo buttavo giù, quel vino dell'Elba, rosso o bianco che fosse. Di quel rosso indelicato, pieno, enorme; e di quel bianco torbido, fortissimo, che a berne un dito a digiuno fa andare a batter la campagna per sentieri tortuosi e ispidi.

Riconosce quel suo gusto nel mangiarci una midolla di pane addosso, ché a questo modo te ne puoi bere a bottiglie intere senza eccessivi danni. Riconosce tutte le sue serate, belle e brutte, allegre e tristi. Riconosce e accompagna; e sa dire basta. E quando non lo sa dire, come un migliore amico non si tira indietro e non abbandona al proprio destino. Non si gira dall'altra parte, non fa finta di non vedere. Non lascia soli, infilato in una tasca d'un vecchio spigato per strade d'inverno. E allora ci si parla per davvero, con quel vino; gli si raccontano le proprie storie, le paure, le sconfitte. E gli si cantano canzoni vere o inventate in quel momento.

Arrivato un certo momento, sempre come un migliore amico, sa farsi da parte prima di diventare un carnefice, come a volte diventano gli amici più veri. Ci si ritrova allora a fare i conti con l'acqua e con l'aria, ed è un'aria che non mi riesce non immaginare salata, salmastra. Accade poi di ripassare per certe strade battute un tempo in compagnia di quel tuo amico, e di ripensare, e di ricordare; allora l'aria instilla risate lievi, e paragoni, e sicurissime incertezze.

Ma è il momento di tirar giù quel rosso sbagliato da una cameriera di fine luglio, senza ripensamenti, senza magagne. Coprirà magari il sapore di quel polpo così squisito, con la violenza d'una libecciata. Pazienza. Bisogna aver pazienza con gli amici. La pazienza paga sempre. Una notte, una certa notte, te la saprà ripagare.

8 commenti:

BlackBlog francosenia ha detto...

A proposito di campane, in sicilia credo si faccia ancora di una simpatica frase, soprattutto la domenica mattina ... una frasetta quasi in rima che dice:

"santi campani, stuccatici i frazza a cu vi sòna!"

Ovviamente, non sto a tradurtela, in quest'epoca di montalbano e camilleri ...

salud

Riccardo Venturi ha detto...

Diciamo che intuisco cosa siano i frazza...anche se vorrei una conferma :-PPP

Salut!

BlackBlog francosenia ha detto...

braccia.

salud

Riccardo Venturi ha detto...

Allora confesso che avevo intuito dimolto male (credevo fosse un sinonimo di "cabasisi", per intenderci)...
Bisognerà che prima o poi, quando vai in Sicilia, ti chieda di portarmi un dizionario di siciliano fatto come si deve. Ce ne dovranno pur essere!

Saluti e abbracci (come si dice abbracci in siracusano?)

BlackBlog francosenia ha detto...

assai male. :-)
Anche perchè il verbo "stuccari" sta sì per spezzare ma come quando si spezza un bastone. Cioè proprio spezzare in due. Quandi mal si sarebbe conciliato con le palle spezzate che avevi supposto! Poi le palle spezzate, nella fattispecie, dovrebbere essere proprio di quello svegliato dal suono delle campane, e non del campanaro.

Quanto ad abbraccio (che si usa assai poco se non nella forma verbale di abbracciare) si dice abbrazzu.

salud

Riccardo Venturi ha detto...

E figurati cosa avevo inteso. per me "stuccatici i frazza" era qualcosa come prendere i coglioni e dargli lo stucco sopra (che, oddio, come punizione non è male!) :-P
Mi sa che col siciliano, nonostante Camilleri, ancora devo fare dimolta strada :-PPP

Saluti e t'abbrazzu! (va bene?)

alleluia ha detto...

Riccardino...pane e vino!!!!

Anonimo ha detto...

… Forse si so spezzate li to vrazza?
Cu voli la giustizia si la fazza
nisciuno ormai ‘cchiù la farà pi ttia …