Sulla mia giacca, e ne ho una sola (comprata tempo fa al mercato di Porta Portese, a Roma), porto tre spille sul bavero sinistro. La prima sono delle "cholitas", un amuleto messicano che augura felicità in amore. La terza è una spilla da partigiano, ché è una mia passionaccia per quei ragazzi di ottanta o novant'anni che moriranno fra poco e che porteranno con sé una gioventù oltre il ponte; e oltre il ponte c'è stata, spesso, la derisione, c'è stato spesso il sussiego di tanti. La seconda è una bandiera, quella basca, la "Ikurriña". Proprio io che detesto le bandiere, ne porto una addosso. Così per ricordarmi tra quali incongruenze campo, e ci campo da sempre. Lo dico per onestà, prima che gli zero virgola cinque frequentatori di questo blog leggano quanto segue.
Sabato, sabato prossimo, vado a una manifestazione per la Palestina, a Firenze. Sarà, probabilmente, un gelido pomerggio di gennaio mentre a Gaza, sotto un sole ben più caldo, si muore. Si muore bambini, donne e adulti; si muore e di sogni non ce ne sono più. Lo ha deciso uno stato che chiamano d'Israele, che nel suo nome ha quello di Dio; ma di quel Dio, che i suoi fedeli nemmeno osano nominare e che scrivono coi tetragrammi misteriosi e col trattino, “D-o”, non c'è la minima traccia. Se ne dev'essere andato altrove, fors'anche, e opportunamente, affanculo.
Io non so se queste manifestazioni, a Firenze come altrove, “servano”. Ma non è nemmeno il caso di chiederselo, a meno di non voler fare come diversi buffi snob che sdegnano di professione, e che se ne restano a casa a gingillarsi e sdilinquirsi in avvitamenti mentali che li accompagneranno ad una vecchiaia cretinamente protesa ad una gioventù su cui sputano senza nemmeno rendersene conto. Ci vado e basta perché le grida sono molecole di suono che picchiano, e che a volte hanno picchiato tanto da arrovesciare il globo.
Ho letto ieri, su un giornale di regime, che una persona che stimo molto ha detto delle cose a proposito di certi atti che avvengono durante le manifestazioni per il popolo palestinese. Questa persona si chiama Moni Ovadia, ed è una persona verso la quale ho considerazione e ammirazione. La scorsa estate è venuto a fare uno spettacolo all'Isola d'Elba, a Portoferraio, a pochi metri dalla “Torre della Linguella” dove fu rinchiuso e lasciato impazzire in condizioni disumane l'anarchico Passannante, per aver fatto una scalfittura a un re.
Durante queste manifestazioni, alcuni bruciano la bandiera d'Israele. Moni Ovadia, che pure non può essere accusato di simpatie sioniste nonostante sia di religione israelita, ha dichiarato che sarebbe “sbagliato”. Che “bruciare una bandiera è come bruciare un popolo”, e che non si dovrebbe fare di tutta l'erba un fascio. Che sarebbe meglio manifestare la propria opposizione “col silenzio”.
Silenzio. Appunto. A tutti quanti capita di perdere un'occasione per fare silenzio, a te come a me. Stavolta, a mio parere, è capitato a Moni Ovadia. Senza perdere un milligrammo della stima che gli porto, dico che avrebbe fatto meglio a stare zitto, e a non dire questa castroneria che puzza lontano un miglio della voglia di non irritare ulteriormente certi suoi “correligionari” che già gli hanno riservato parole oltremodo schifose.
E allora vorrei rispondere, qui da questo luogo silenzioso, allegramente e volutamente dimenticato, a Moni Ovadia e a chiunque sbandiera bandiere.
Bruciamole tutte, le bandiere. Quella d'Israele e anche quella della Palestina. Bruciamo quella italiana, quella americana, quella svizzera, quella di San Marino, dell'Indonesia, delle Vanuatu, del Milan, della Fiorentina, della Ferrari, della Microsoft e della Polisportiva San Terenzio di Valmontone. Tutte. Bruciamo la bandiera rossa e, anarchicamente assai, pure quella dell'Anarchia.
Bruciamo questi simboli schifosi, che non rappresentano nessun “popolo”. Bruciamo le “nazioni” e bruciamo gli Stati. Bruciare una bandiera è salvare un popolo. Bruciamo l'idea che un “popolo” possa essere rappresentato da entità che producono solo repressione e oppressione. Uno “stato palestinese” non sarebbe diverso da uno “stato di Israele”. Le cosiddette “sinistre radicali” che propugnano i “due popoli e i due stati” hanno di radicale soltanto la loro infinita imbecillità. Ci andrò, sì, alla manifestazione, a gridare che uno stato canaglia ammazza i bambini col suo esercito enorme, davanti all'impotenza del mondo che lo lascia fare perché così vuole la logica del potere. Ma non prenderò in mano nessuna bandiera, perché nella mia testa le ho già bruciate tutte, e da tempo.
Che in Palestina, come ovunque, possano vivere liberamente tutti quanti, liberi di parlare la propria lingua, di credere nel proprio dio se così vogliono, oppure di non credere in nessuno, in nessun profeta, in nessuna collezione di infamie che va sotto il nome di “sacra scrittura”. Vivano in pace, in fratellanza, senza stati e senza bandiere. Vivano come gli ulivi di quella terra, che danno i propri frutti senza chiedere niente a nessuno. Vivano senza muri e senza armi. Vivano e basta. E' così difficile?
Abbattano i caporioni che giocherellano con le loro vite, coi loro destini. Taglino le sozze barbe lendinose ai loro preti vegliardi, decidano una volta per tutte per la realizzazione dell'utopia, che poi sarebbe una cosa elementarmente semplice, una volta individuato che il vero nemico è la gabbia di separazione e di odio che il potere ha voluto inculcare nelle loro menti. Facciano tabula rasa delle “terre promesse”, ché le promesse degli dèi falsi e bugiardi hanno sapore di veleno. Cessino di invocare le “tradizioni”, ché le vere tradizioni sono quelle della terra di tutti, e non quelle di idiozie miracolistiche e soprannaturali che hanno meno consistenza delle favole con le fate. Una fata, specialmente se ti salva con una mano da una morte per carrarmato, è molto più vera di un dio i cui simboli compaiono, come dubitarne, regolarmente su quei maledetti pezzacci di stoffa detti bandiere.
Nessuno “Stato”, ma tutta la terra. In Palestina come altrove. In quella terra la cui vera promessa è la sua mescolanza, la sua variopintezza, e non stelle e mezzelune, non sacri scarabocchi che nascondono la morte violenta e prematura, non falsi “diritti ad esistere” che si risolvono immancabilmente nell'inesistenza per tutti, e specialmente per i più deboli, per gli indifesi. Via tutte le bandiere, via gli “ismi”, i sionismi, i fondamentalismi, i “Dio ce l'ha data”, ché il vostro Dio, comunque lo chiamiate, nient'altro è che un generale, e ché dirlo in arabo, in ebraico o in qualsiasi altra lingua sempre suona, disperatamente, come “Gott mit uns”.