lunedì 2 marzo 2015
Il Diavolo esiste (e ci ha pure il Palazzo)
Un tempo, tutta la zona era in mano al Diavolo e al suo palazzo. Quando, nei primi anni '50, un sant'uomo di sìnnacu decise di costruirvi un quartiere popolare, -quello che sarebbe diventato l'Isolotto- i bandi di edificazione recitavano qualcosa come: Lotti di edilizia popolare aree Torcicoda e Palazzo dei Diavoli. Nel Palazzo dei Diavoli, naturalmente, si torcevano code a tutt'andare; e ancor oggi che l'Isolotto ha celebrato i suoi sessant'anni di vita, quelle antiche vie sono rimaste, col loro nome.
Quando, a notte oramai già consolidata, scendo da una delle ultime corse della Tranvìa per tornare a casa, Cristo non si ferma a Eboli; si ferma in piazza Batoni. Da lì non c'è più niente; l'ultima corsa del 9 è alle 22.05, e il viandante che giunga là a tarda ora, diretto verso le remote plaghe dell'Argingrosso, deve farsela a piedi, un passo dopo l'altro e con qualsiasi tempo. Piova o faccia caldo, nevichi o tiri vento, da piazza Batoni si entra nel regno di Satana; tant'è vero che il suo Palazzo, quello che dà il nome alla via e lo diede, olim, a tutta la zona, è subito là, proprio all'angolo con la piazza che quasi si riposa, in silenzio, dopo ogni sua giornata che la vede tra le più intasate, incasinate e puzzolenti di tutta la città.
Così m'è capitato, poche sere fa, oltre la mezzanotte. In una di quelle nottate di fine inverno, piene d'un vento un po' allegro e un po' carogna che dice, senz'ombra di essere contraddetto, che la primavera sta per arrivare, e d'una luna incorniciata da poche nuvole, le uniche nel cielo terso, a farle da squisite e perfette ancelle. In una notte del genere, anche se la strada viene allungata, è giocoforza incamminarsi per via del Palazzo dei Diavoli, penetrando in un solitario inferno di periferia, nei suoi rumori segreti e nel territorio dei liberi gatti. Con l'animo da scopritore, poiché non s'ha mai da entrare nel Regnum Tenebrarum senza cercavi qualche segno della fattiva, palpabile presenza del Maligno -oltre a quella che Egli manifesta nel Vento e nella Luna, ça va de soi.
M'incammino dunque, con l'eterno zaino in ispalla, tra il consueto odore del pane appena sfornato e quello, non definibile, della notte; ché ogni cosa non ha soltanto il suo aspetto e il suo suono, ha anche il suo profumo. Anche i miei passi odorano di qualcosa; passa il primo dei tanti gatti che si avvicendano quasi a farmi da scorta. Per una volta, decido di non accontentarmi di fare l'esploratore; tiro fuori la fotocamera, e m'improvviso reporter da un mondo che ognuno di noi avrebbe sotto casa, ma che si rifiuta di conoscere preferendo luoghi fintamente lontanissimi.
Cogliere i segni di Satanasso, però, non è propriamente semplice. Occorre avere ciò che chiamo la Sindrome di Marcovaldo, dal famoso personaggio dei racconti di uno scrittore mezzo cubano e mezzo ligure. Bisogna saper porre attenzione ad ogni minimo particolare, a ogni foglia secca che incede a cavallo del vento, a ogni sassolino, a ogni granello di realtà della quale, in quel preciso momento, si è parte. Nell'epoca della Sovrana Disattenzione, qual è questa, si tratta di un esercizio che costa sempre più fatica e che si avverte inviso, sconsigliato, scoraggiato. Ma dà i suoi frutti, solo apparentemente insignificanti. Non tardano ad essere colti.
Cammina cammina, lentamente e senza preoccupazione alcuna d'arrivare rapidamente a casa, ci s'imbatte nel numero ottantotto di via del Palazzo dei Diavoli. Regolarmente segnato col suo numero civico, ma d'una natura che rivela l'appartenenza di quel mondo a una diversa configurazione. Come si noterà dalla foto, infatti, il numero civico è stato apposto sì, ma alla rovescia; e non dev'essere cosa di ieri, dato che la piastrella è di assai vetusto stile ed aspetto.
Il numero otto, come si sa, è identico al segno dell'infinito; siamo quindi in presenza di un messaggio inequivocabile, vale a dire quello di un infinito arrovesciato. O del mondo alla rovescia, se si vuole; e riecheggiano, prepotenti, i versi di una remota filastrocca.
Aller wunder sî geswigen,
das erde himel hât überstîgen,
daz sult îr vür ein wunder wîgen.
Erd ob und himel unter,
daz sult îr hân besunder,
vür aller wunder ein wunder.
Il sovvertimento dell'infinito; si provi a pensarci ogni qual volta si esca di casa, in perfetta solitudine. Un altro gatto sfila accanto, concentrato su chissà quale particella soltanto a lui nota; si aspetta il refolo di vento, ed eccolo che arriva mentre, da una finestra, si accende e si spegne una luce in un istante. Non c'è nessuna paura, nessuna inquietudine; si arriva, anzi, a pensare che l'unico, vero senso di pace lo si abbia in una quotidiana e vicinissima realtà, e soprattutto nella percezione esatta della sua diversità, della sua eccezionalità. Il mondo alla rovescia è qua fuori, basta saperlo cogliere senza sobbarcarsi inutili e vuoti viaggi. I viaggi non danno nessuna conoscenza e, casomai, è vero il contrario. E' la conoscenza che dà il viaggio.
Ma le vecchie case suburbane di via del Palazzo dei Diavoli riservano altri segni della presenza del suo Abitatore. Vi ha operato più d'una sovversione numerica, e l'alterazione dei numeri è indice di una piacevolmente diabolica assenza del continuum. Adoro gli accidenti nelle sequenze, nel predeterminato, nell'ordine consueto e costituito; quella che vedete sopra ne è la sua dimostrazione raccolta a poco più di un chilometro da casa mia.
Seguendo infatti la normale sequenza di due portoni appartenenti allo stesso blocco d'antichi immobili, lato dispari, al numero 203A dovrebbe seguire il numero 203B, o il numero 205; invece, guardate il numero recato dal portone esattamente accanto:
Che cosa dunque può essere se non un altro segno del Diavolo, nella via del suo Palazzo, questa incongruente e misteriosa sequenza la quale fa sì che al numero 203A segua il numero 181? Siamo quasi alla fine della strada, che termina al numero 207; al limite del Territorio che sto attraversando, dell'Inferno in una ventosa e luminosa notte al termine dell'inverno che si è trasformata in un Voyage au bout de la nuit. Mi viene a mente che, in questa città, non è l'unico caso del genere. Ad esempio, via Domenico Maria Manni, nel quartiere di Coverciano, inizia dal lato dispari con il numero 29. I numeri dall'1 al 27 non esistono. Al Salviatino, una recondita e elegante viuzza dal nome di via Pietro Betti parte col numero 8, seguito dal 95A e da una schiera di terratetto che vanno dal numero 91 al numero 53, interrompendosi all'improvviso per dar luogo ad una diversa via, dedicata al naturalista Paolo Mantegazza (quello dell'Heracleum Mantegazzianum, o Pànace di Mantegazza, una bellissima pianta dotata di un singolare veleno che si attiva soltanto se c'è il sole). Via Bolognese, sempre lato dispari, parte regolarmente col numero 1, seguito però immediatamente dal numero 5; il numero 3 non c'è. Mi sono sempre immaginato d'essere convocato, un giorno, in via Bolognese al numero 3; sarei stato certo d'andare incontro ad un bizzarro ed affascinante destino. Una Shunned House lovecraftiana senza nessun bisogno di andare fino a Providence.
Ma è tempo di rientrare nel Territorio normale. Al termine di via del Palazzo dei Diavoli, tale rientro non può essere segnato che da un simbolo antagonista, un tabernacolone ammadonnato piantato là, in mezzo a un incrocio, su di una via che ne è l'esatto proseguimento ma che ha un diverso nome, quello d'un pittore. Una via che percorro alla ricerca del giardinetto delle rose, un piccolo pergolato che, nella sua stagione, è un delirio di fioriture, di profumi, di bellezze. Da lì, però, si entra, con una breve deviazione attraverso quella che dev'essere la più breve via di questa città, di nuovo in Territorio Satanico. Via dei Sabatelli, un'altra strada antichissima e di vetuste case; quella da dove si può mettersi in comunicazione diretta col Maligno sfruttando la Teleselezione. Proprio così; all'ingresso di una casa identica a quelle di via del Palazzo dei Diavoli, troneggia infatti, indisturbato, un cartello rotondo che era comune parecchi decenni fa, quello con la sagoma di un telefono nero a disco combinatorio su sfondo giallo. Quando, con la creazione della SIP e dei prefissi automatici per le chiamate interurbane, si poté fare a meno di passare dal centralino; quando nacquero gli 055, gli 02, gli 06, gli 081; e quando si scendeva per andare al posto telefonico pubblico. Una diversa funzione sembra aver mantenuto quel cartello, in quella via di antiche case e di giardini.
Aspiro profondamente. Il tempo è stato sospeso. Mi accorgo d'aver camminato per più di un'ora, sono oltre le una; di non avere accettato il normale scorrimento. Vanno e vengono le nuvole, e mi si para davanti un'altro gatto, reclamando una carezza a suon di miao; poi se ne va. L'alternanza dei territori vuole che mi ritrovi in una via dedicata a Pio Fedi, scultore, ché nome più divertentemente cristiano non pòle esistere. Mi sento di una leggerezza che non esito a definire soprannaturale; e decido, prima o poi, di scrivere questa cosa facendo estrema attenzione a che i suoi eventuali lettori non capiscano mai appieno se li stia coinvolgendo in una Bildungsreise di banlieue in compagnia del Signore dell'Ade, o se stia ammannendo loro una gigantesca presa per i fondelli. La risposta, come sempre, è 42.
"E da dominatrice, nel silenzio acuto entrò la luce."