martedì 28 febbraio 2017

Enne







Non so, e non ho mai saputo, se questa storia io la abbia sentita nel portico, quand'ero ragazzino, o se me la sia sognata in qualche recesso del tempo; forse, tutte e due le cose. Forse anche il portico è un sogno, e i sogni sono fatti magari anche di portici, in qualche primo pomeriggio d'estate, quando i racconti delle donne e dei parenti sono una specie di diversa declinazione del sonno. Non c'è quasi più nessuno, del resto; sono passati quasi cinquant'anni.

Si diceva, e si sognava, che c'era stata una ragazza in paese. Il paese non lo si diceva mai. Poteva essere quel paese lì, a cinque minuti di una strada che allora era sterrata, polverosa e senza nome, e buia come l'inferno, la notte, se non c'era un po' di luna; o poteva essere un altro paese dell'Isola, Capoliveri, il Poggio, Marciana Marina. Si escludeva Portoferraio, perché Portoferraio non era un paese; c'era questa giovane ragazza, chissà quando, che era un po' strana. Quando si diceva “strana”, c'era sempre qualche risatina e qualche “eeeh...”; io, che ero piccolo, non ne capivo il perché, e non lo avrei capito nemmeno sognando. Dicevano che portava addosso non si sa quante gioie di bigiotteria, e che cosa fosse la bigiotteria dovevo cercare di immaginarmelo perché alla mia età il lessico non è molto, e tutte le parole sono nuove. Il nome lo dicevano, ma non mi riesce proprio di ricordarmelo per quanti sforzi faccia; cominciava, mi sembra, con la N...o qualcosa del genere che mi dovette suonare bizzarro, qualche anno dopo avrei detto “esotico” dopo aver imparato anche quella parola. Forse, mi dicevo, non era dell'Isola; le ragazze e le donne, all'Isola, avevano o nomi semplici di sante (Maria, Antonia, Caterina), oppure dei nomi unici scovati dal ghiribizzo dei genitori. Ce n'era una, famosa, che si chiamava Eneide; un'altra, concepita di sicuro al ritorno di un soldato dal fronte, si chiamava Guerramondiale e non si immagina come dovessero chiamarla da piccola, tipo “monta su, Mondi...”. Il nome di quella ragazza non doveva rientrare in quelle due categorie; altrimenti me lo sarei ricordato. “Enne”.

Non portava soltanto le gioie di bigiotteria, si diceva. Aveva sempre anche delle calze verdi, che dovevano fare chissà quale impressione. Si peritavano, nel portico, a dire che era probabilmente molto bella; in un posto dove le calze erano sempre e solo nere, in una specie di lutto continuato al pari dei vestiti, una ragazza di paese con le calze verdi proprio la si notava, e la si scansava. Viveva, dicevano, da sola non si sa in quale stanza, o tugurio; nel prosieguo degli anni, diventato grande, mi capitò di leggere, a proposito di un'antichissima canzone, che le “maniche verdi” erano come il segno distintivo di una donna di facili costumi. Lo avessi saputo allora, avrei capito, anzi non avrei capito lo stesso perché non sapevo di certo che cosa fossero, i “facili costumi”. Io, a cinque anni, ero innamoratissimo di una giovane sposina della casa accanto, di quando il portico non era ancora diviso prima da una grata, e poi da un muro. Si chiamava, e questo me lo ricordo benissimo, Iliana; non “Liliana” o “Ileana”, proprio Iliana, e avrà avuto, chissà, ventidue o ventitré anni. Ora ne dovrà avere più di settanta. L' “amore” consisteva nell'immaginarmi un uccellino, e andavo sempre a mettere il capo sotto il suo braccio per “dormire”; dev'essere stata anche la prima volta che ho appoggiato il capo su un seno di donna. E mi ricordo anche del marito, un giovanottone simpatico che, anche quello lo avrei imparato tempo dopo, portava un cognome identico a quello di un famoso musicista d'opere liriche.

Portava calze verdi, Enne, e viveva da sola. Insomma, faceva la puttana ma io, quando sentivo raccontarne, cercavo di figurarmi la bigiotteria e le calze verdi. Quasi di sicuro, se ero presente, si ingegnavano a non farmi venire strane idee in testa, i bambini piccoli devono essere tenuti nel loro limbo di uccellini innamorati. Mi sono chiesto tante volte, poi, da dove sarà piovuta, la Enne, arrivata magari alla deriva come succede non di rado nei posti a cui la sorte e la geografia hanno riservato d'essere circondati dal mare. O forse no; nel villaggio ci sono sempre lo scemo e la puttana.

Però si diceva, a volte, che quella ragazza aveva avuto un padre. Si nominava quasi sempre, a quel punto, una cosa, un “palazzo di giustizia” che, porco pionòno, nemmeno quello sapevo che accidenti fosse. Il palazzo, d'accordo; ma la giustizia? Che diavolo era, la giustizia? E che ci faceva in un palazzo? Poi dicevano che il padre di quella ragazza era innocente, e terminavo anche di fare domande. Ripensandoci, non mi veniva nemmeno da bambino di interrompere sempre a chiedere che cosa volesse dire una parola; ero già impegnato a fabbricarmele da solo, le parole, e quelle le sapevo solo io.

Era innocente. Non aveva fatto nulla. Poi partivano sempre col “Palazzo del mistero”, ma quello lo conoscevo anche se non c'ero ancora mai stato. Era una grotta a mare tra Pomonte e Chiessi, che ci si arrivava giù per un viottolo scosceso che avrei fatto solo a diciassette o diciott'anni, quand'ero allampanato e secco come un chiodo. Chissà chi glielo aveva dato, quel nome così poetico; anche perché, in fondo, di misterioso aveva poco. Era una grotticella come ce ne sono tante, neanche un po' delle dimensioni d'un palazzo, e si apriva su una spiaggetta di sassi. Non c'era quasi niente nel Palazzo del mistero, dicevano, e giù ancora risatine; e quel “quasi”, mi sa, voleva significare che la Enne se ne serviva per portarci qualcuno a fare chissà cosa al sicuro da sguardi indiscreti. Beh, giù, chissà del resto cosa ci andavo a fare, io, da ragazzotto; allora erano già passati i tempi dell'uccellino con la testolina sotto l'ala, come natura vuole.

Poiché, e lo dico sempre con dieci benefici di quindici inventari, il mio temperamento (o indole, una parola difficile che all'inizio pronunciavo indòle) è sempre stato romantico con qualche frequente spruzzata di ridicolo, io m'immaginavo sì qualche piccola cosa; ma doveva essere per forza amore. La Enne era innamorata di tutti, portava le calze verdi e andava al Palazzo del mistero (che ci doveva durare, poveraccia, una fatica non di poco conto, specie al ritorno su per quelle pènte). Qualche cosa se la lasciavano sfuggire, però; per esempio, che “dormiva con tutti”. Ecco, andava a dormire. E faceva proprio bene, un bel riposino in compagnia di tutti, del ciabattino, del maresciallo e magari anche del prete. Chissà, forse anche di quel mio zio, che all'epoca era un bel ragazzo e che è morto un mese fa quasi a novantott'anni, con la bara portata fuori davanti all'Isola che si vedeva chiarissima in una mattinata gelata ma che si sarebbe vista anche l'Australia, da Piombino. Era innamorata di tutti, sì, e quindi ci dormiva. Un bel sonnellino di quelli che, di sicuro, a quel punto andavo a fare anch'io, lasciandoli tutti lì nel portico a raccontarsi le storie.

Una volta non andai a dormire. E allora sentii la fine di quella storia. Non la avrei voluta sentire, però. Le storie dovevano essere buffe, divertenti; i fatterelli, come li si chiamava (la parola “storia” la conoscevo, ma per me voleva dire soltanto di quando mi dicevano “su mangia e non fare storie!”, e io non le facevo per niente, figurarsi). Quella non finiva per nulla bene, non era buffa, non era divertente. Dicevano che la Enne, un giorno, la avevano trovata morta affogata, non si sa dove. Forse vicino al Palazzo del mistero, forse da qualche altra parte, ché all'Isola non mancano di certo posti per affogare. A riva, con le sue calze verdi, sbattuta un po' dalla risacca, con dei brutti segni sul collo. Dicevano che aveva i capelli sciolti, e non li portava quasi mai così; erano lunghissimi. Aveva una macchia di sangue “giù”, e quel “giù” no, non sapevo che cosa volesse dire. Tanto era morta affogata, e tanto bastò. Mi chiedo ancora perché, quella volta, davanti a me che non avevo ancora sei anni, mi avessero voluto raccontare quella fine, senza mandarmi a dormire; e chissà che, quella volta, non abbia cominciato, non so dire come, a ingrandire. Dal che, tempo tempo dopo, mi è venuto a volte da pensare che un bambino lo si ingrandisce facendogli prendere un po' coscienza con l'esistenza della morte. Magari raccontando una storia, il fatterello d'una povera ragazza che aveva cambiato sonno sulla riva del mare.

Non era sincero nessuno. Chissà chi la aveva ammazzata, la Enne, magari per non pagarla, per non darle quei miserandi e pochi soldi che chiedeva. Dicevano poi che la avevano presa, e che le avevano fatto fare un funerale alle sei di mattina, non in chiesa, in fretta e furia, e seppellita in una tomba senza nome in un cimitero lontano, a Portoferraio, che poi è rimasto bombardato dai tedeschi nel '43. Me ne andai via, o forse mi rintanai in qualche sogno mentre la mi' mamma s'arrabbiava con chi non aveva tenuto la bocca serrata davanti a un bimbo. Me la vedo a fare dei gesti a tutti gli altri e le altre, “giù...! giù...zitta! Zitto!”

Nel sogno era notte.

C'era la Enne, bellissima, forse le davo pure la faccia della sposina della casa accanto, quella dell'uccellino. Arrivava una persona, che mi vedevo con l'aria triste, sperduta; e magari mi vedevo io stesso, già grande, ché i bimbi se lo mirano nella loro nebulosa, a volte; ché i bimbi, assieme all'esistenza della morte, imparano automaticamente anche quella del tempo, cioè imparano tutto quel che serve della vita e non esiste nessuna “minore età” se non per i fabbricatori di leggi e di galere. Facciamo che ero io, quello che arrivava, nella notte; o facciamo anche che eri tu, non importa. Era così contenta, la Enne, che stavi arrivando; mi chiamava, o ti chiamava, persino amore. Sono contenta che sei venuto.

E siccome i sogni hanno il vizio di restare inalterati, e di non essere proprio nessuna realtà parallela, ma soltanto una diversa proiezione della realtà reale, la gratitudine che provo verso la Enne, verso quella ragazza strana con le gioie di bigiotteria e le calze verdi, è rimasta pari soltanto a quel granello di felicità da quattro soldi di aver ricacciato via la sua schifosa morte, che mi avevano voluto raccontare. Di esser passato oltre, di averla presa con me in quella notte come ce ne sono state non poche, e nella maggior parte delle quali me le sono dovute patullare da solo, la tristezza, la solitudine, la cattiva coscienza o una cena di pane e rinoceronte.

Di essere, per questo, sempre pronto a fermare ogni pensiero, a ore che voialtri spesso non concepireste neppure, e a fare immediatamente la Enne anche se vi toccherebbe, malauguratamente, di avere a che fare tutt'altro che con una bella ragazza con le calze verdi e disponibile a dormire con voi. Non si dorme affatto. Però io sono lì, e sono contento che sei venuta, sono contento che sei venuto. Nel tuo buio della notte, col tuo tutto e col tuo niente, col tuo bello e col tuo brutto, con la tua indifferenza e con la tua putrescenza, con la tua minuscola piccineria o col tuo alito all'immenso. E' questo che la Enne mi ha mandato a dire quella volta, in mezzo a un sogno con Paperino e a un'altro coi calciatori, mentre il portico si svuotava e tutti se ne saranno tornati alle loro case.

Mi sarò svegliato verso le sei del pomeriggio, sudato fradicio, ci sarà stato lo scirocco, quel tremendo scirocco dell'Isola che trasforma tutto in una ragnatela grassa e soffocante. Poi ci sono state le canzoni, tanto tempo dopo, quelle non me le aspettavo di certo. La Enne si deve essere infilata, con le sue calze verdi, nei sogni di altri bambini lontanissimi, che però non stavano nel portico e che la storia non la conoscevano troppo bene. Una canzone la aveva scritta un genovese e diceva che la Enne s'era buttata dal terzo piano col telefono rotto; l'altra era addirittura di un canadese ebreo, e diceva che invece s'era sparata con una calibro 45. Però in tutte e due le canzoni c'erano le calze verdi, il Palazzo o la Casa del mistero, c'era che dormiva con tutti. E c'era, sì, che era contenta che sei venuto. I sogni viaggiano, e i sogni sono storie, sono fatti. Sono la realtà che si traveste, anche lei con le calze verdi, da immaginazione. Sono isola e sono terra. Sono notte, e in quella notte stai arrivando. E in quella notte tutto arriva, nel buio che potrebbe non avere fine come potrebbe non avere avuto inizio.