mercoledì 1 marzo 2017
La parola Morte
La parola
Morte [*], che indica un
avvenimento ed un concetto fondamentali nella vita dell'essere
animato e vegetale (sebbene, poi, con tutte le possibili
ramificazioni metaforiche; anche le più comuni metafore sono di
antichissima origine), è, nella lingua italiana ed in tutte le altre
lingue neolatine, o romanze, derivata direttamente dal latino:
*-morte(m), accusativo di
mors. Nel latino
letterario, generalmente, il termine non era utilizzato al plurale
(laddove in italiano, ad esempio, si può dire “tante morti”,
“tutte quelle morti inutili”). In quanto termine fondamentale
astratto non attraversato da mutamenti religiosi, tecnologici e di
altra natura (e, quindi, facente parte del lessico quotidiano e
familiare), le lingue derivate direttamente dal latino parlato lo
hanno conservato senza soluzione di continuità, ognuna con le sue
peculiari evoluzioni fonetiche: il francese e il catalano mort,
il provenzale antico mortz,
il castigliano muerte,
il portoghese e galiziano (e sardo logudorese) morte, il
friulano muart, il
rumeno moarte.
La
parola Morte appartiene alla più remota antichità indoeuropea, come
appare palese dal confronto con le altre lingue di tale grande
famiglia linguistica. La radice del “morire” è stata individuata
nella forma *mer-
/ *mor- / *mṛ,
con i tre gradi apofonici (detti, rispettivamente, “debole”,
“forte” e “ridotto”) di ogni radice originaria. Il
significato originario della radice pare però essere stato
differente: indicava, con buona probabilità, concetti quali
“strisciare”, “trasportare trascinando” e, per traslato,
“portare via”. Il passaggio della radice al suo significato
millenario del “morire” dev'essere stato, a sua volta, un altro
traslato originato dal destino che spetta ai mortali al momento della
fine: quello di essere “trasportato via”, “trascinato”
all'ultima dimora durante il funerale; ancora oggi, nel toscano
popolare, il funerale è detto semplicemente “trasporto”. Il
“morire” e la “morte” sono quindi stati associati, in
origine, con l'ultimo viaggio del mortale, come una sorta di
traduzione in suoni del trascinamento del feretro fino alla
sepoltura.
Si
hanno così, nelle varie lingue indoeuropee, gli omologhi astratti
(tutti per “morte” e formati con un'estensione in dentale tipica
degli astratti) quali il sanscrito mṛti
e
il lituano mirtìs;
e, ancora, per il “morire” come concetto verbale, il sanscrito
márate “muore”,
il latino morior
“muoio”,
il russo у-мирать
/ у-мереть
[umirat'
/ umeret'] “morire”. Così l'aggettivo e participio per “morto”:
sanscrito mṛta-,
latino
mortuus,
paleoslavo
мрътвъ
[mrŭtvŭ],
armeno marb
[← *martwos,
del tutto analogo alle altre forme testè nominate). Soltanto,
naturalmente, per citarne alcuni.
In
epoca altrettanto antica, il termine comincia ad essere usato in
alcune aree indoeuropee per indicare l' “essere mortale”, vale a
dire il destino dell'uomo e di ogni essere vivente; in particolare lo
si nota nella lingua greca. Il greco dorico μορτός
[mortós]
significa “soggetto a morte, mortale”; nella lingua classica
attica si usa la forma βροτός
[brotós],
da *mr-tós
(formato sulla radice di grado ridotto, mentre il dorico utilizza la
radice di grado forte) con successiva epentesi in labiale sonora [*m-b-r-o-tós]
per motivi di eufonia (esattamente come, nel fiorentino parlato, si
dice comunemente Isdraele
per
“Israele”, con epentesi però di una dentale sonora).
Fondamentalmente
la stessa cosa accade nelle lingue indoiraniche: già il sanscrito
martá-
significa
“mortale”, ed inizia ad assumere gradatamente il significato di
“essere umano, uomo” in quanto essere mortale per eccellenza.
Nell'area, il passaggio definitivo avviene nelle lingue iraniche,
cosicché il persiano moderno mard
significa esclusivamente “uomo” (“il mortale”).
Da
notare che la lingua greca, una volta spostata l'antica radice
indoeuropea verso la “mortalità”, per il concetto del “morire”
e della “morte” prenda a utilizzare una radice di origine
sconosciuta (probabilmente pregreca e preindoeuropea), *than-
/ thṇ-,
da cui il verbo con suffisso incoativo θνῄ-σκω
“muoio”
[thnḗskō] (nel greco classico si usa comunemente il composto
ἀπο-θνῄσκω
[
apothnḗskō]), aoristo ἔ-θανον
[éthanon]
(si veda l'alternanza apofonica ridotto-forte tra il sistema del
presente e quello dell'aoristo; dall'aoristo del comune composto classico si è formato il greco
moderno πεθαίνω,
aoristo
πέθανα).
Il sostantivo greco comune per “morte”, θάνατος
[thánatos,
inalterato nel greco moderno], è anch'esso da tale radice
esclusivamente greca, ma appare formato pure con l'estensione
astratta in dentale.
Un'evoluzione
analoga avviene nelle lingue germaniche. In esse, l'antica radice
indoeuropea del “morire” e della “morte” ha però preso
un'accezione ancora differente, quella del “dare la morte” ovvero
dell' “uccidere”. E' un passaggio semplice, come ad esempio si
può vedere dal comune uso popolare (ad esempio in spagnolo, ma anche
nel toscano e in altri dialetti italiani) di morire
usato
transitivamente per “ammazzare”: he
muerto a un hombre
“ho ammazzato un uomo” o, come dissero i famosi agenti di polizia
a proposito del giovane Federico Aldrovandi, “è stato
morto un ragazzo”.
Così,
nelle lingue germaniche, l'antico astratto per “morte” significa
“omicidio, assassinio”: islandese antico morðr,
tedesco Mord
(l'inglese murder
è probabimente di derivazione scandinava diretta, oppure è formato
con un diverso suffisso astratto, -*tro-).
Il termine diviene talmente “tipico” delle società germaniche,
che dà luogo tout court al mediolatino mordrum,
oltre che passare direttamente nel francese meurtre
e
derivati. Come il greco, le lingue germaniche utilizzano per il
“morire” e la “morte” una radice autoctona, non presente cioè
nelle altre lingue indoeuropee: *dau-.
Con varie derivazioni e formazioni, è quella dell'inglese die,
dead, death,
del tedesco Tod,tot
(ma, per “morire”, il tedesco usa per traslato esclusivamente
sterben,
propriamente “morire di fame” come l'inglese starve
“morire
di fame o di freddo”), dello svedese dö,
död.
La radice appare già nel gotico dauan
“morire” nella sua forma più antica. Da notare che anche le
lingue slave, pur avendo conservato la radice del “morire” e
della “morte” in senso proprio, la usano anche per l'”uccidere”;
serbocroato u-moriti,
per
traslato anche “stancare, affaticare” (umor
significa
solo “stanchezza, spossatezza”, esattamente come noi diciamo
“stanco morto”).
Se
ne può concludere che, nelle lingue indoeuropee, la più comune
radice per la parola Morte non ha alcuna connotazione “spirituale”
o “magica / sciamanica”; è, bensì, derivata dalla più
elementare sensazione visiva e uditiva dei vivi al momento del
trasporto di una salma (si potrebbe ipotizzare persino, come alcuni
hanno del resto fatto, il rumore prodotto dal trasporto del feretro a
contatto con il suolo, non su un carro, tirato da altre persone o da
un animale: mrrrrrrr.....).
Le connotazioni “spirituali” e ultraterrene non sono certamente
assenti da parecchi termini fondamentali indoeuropei, così come i
tabù (tipico: il nome del “lupo”, ma se ne avrà, chissà, a
riparlare), ma è altresì vero che la magia, lo sciamanesimo e il
culto magico degli antenati hanno sovente afflitto la ricerca
linguistica più del dovuto. In definitiva, gli antichi erano uguali
a noi. Ascoltavano rumori e li associavano agli atti formando parole
(come noi abbiamo inventato, millenni dopo, crack,
zig-zag, scrosciare e
altre centinaia di parole).
[*]
Ogni parola nome di una cosa
è
un nome singolare della morte
tranne
la vita che non è parola.
La
biblioteca di Alessandria arse
insieme
a un libro che narrava l'incendio
che
arse la biblioteca di Alessandria.
Ogni
orologio che fa l'orologiaio
è
uno strumento per segnare l'ora
in
cui dovrà fermarsi l'orologio.
Juan
Rodolfo Wilcock, La
parola Morte,
14.