Esposizione.
La
parola “lavoro” è, in sé, ambivalente. Può indicare sia
un'opera compiuta, sia l'attività esercitata per compierla. Nella
realtà storica delle lingue indoeuropee i due concetti, come è più
che naturale, vanno sia di pari passo, sia si confondono; l'opera
realizzata e la fatica spesa non sono separabili. Non esiste in ogni
caso, a livello originario, una qualsiasi nozione che riporti al
“lavoro intellettuale”, ed è qualcosa di assolutamente naturale:
prima della creazione e dello sviluppo delle culture scritte,
dell'elaborazione filosofica e scientifica, della composizione
letteraria e dell'indagine storica, il “lavoro” è la fatica
necessaria e imposta per compiere qualcosa di materiale,
indipendentemente o, come è infinitamente più comune, sotto un
padrone.
Le
varie lingue indoeuropee non sono state univoche per indicare il
“lavoro” quanto alle radici di derivazione che sono arrivate fino
alle lingue moderne; il lavoro non appartiene ai concetti
fondamentali della relazione umana, della sua struttura e della sua
percezione dell'ambiente circostante (due esempi per tutti: le
relazioni familiari e i termini relativi alla terra e all'acqua). Con
la nascita e con lo sviluppo dell'agricoltura, del commercio e della
costruzione, il “lavoro” si connota basandosi su radici parecchio
varie, vale a dire di differente origine semantica; quel che però,
ad un certo punto, viene percepito in maniera assolutamente comune, è
il lavoro come fatica, come costrizione, come imposizione forzata. Si
potrebbe dire che l'espressione “lavori forzati”, intesa come
estrema e terribile pena giudiziaria, riflette un'antichissima
tautologia. In tutte le radici indoeuropee che hanno dato luogo ai
termini per “lavoro” ed “opera”, pur nella loro varietà,
esistono i concetti basilari di “fatica” e “costrizione”; ne
consegue che, se il lavoro viene imposto per il profitto di pochi
padroni (parola che reca in sé la derivazione da “padre”),
coloro ai quali esso viene imposti sono gli schiavi. E il concetto di
“schiavitù” per “lavoro” è comunissimo. Il lavoro è
schiavitù, e le parole non mentono mai quando si sviluppano
liberamente nelle coscienze delle comunità storiche.
L'italiano
lavoro risale direttamente al
latino labor “fatica”;
il verbo derivato laborare
significa “durare fatica” e, fin dall'antichità, indica la
fatica per eccellenza: lavorare la terra. Il termine permette di
andare direttamente ad una delle grandi “aree del lavoro” delle
lingue indoeuropee: quella che risale alla radice indoeuropea *rabh-
/ *robh- / *rbh- dal significato
primario di “afferrare”, “prendere con la forza”. A tale
riguardo, è necessario seppur sommariamente specificare che, a
livello indoeuropeo, le liquide [r] e [l] sono assolutamente la
medesima cosa, un'evoluzione del medesimo fonema consonantico (per
cui, ad esempio, la radice della “luce” compare come lux
o light
in certe lingue, e come roz
o roká- in altre,
perlopiù indoiraniche; il capodanno iranico, il celebre newroz,
significa “luce nuova”). La radice *rabh-
si ritrova direttamente nel sanscrito rábhate “divengo
padrone; mi impadronisco”, rábhas
“movimento violento dell'anima o del corpo; impeto, forza;
violenza”; nel suo sviluppo ulteriore con la liquida [l] anche nel
comune verbo lábate “prende”,
“cattura” (in sanscrito, fin dai tempi del grande grammatico
Pànini, i verbi si nominano alla III persona singolare del presente
indicativo). Il lavoro sarebbe
quindi una “cattura”, un “impadronirsi con la forza”. La
medesima radice indoeuropea, nella sua “variante con la [l]”, e
munita nel sistema del presente di un infisso nasale, è alla base
del comunissimo verbo greco λαμβάνω
[lambánō]“prendo”,
aoristo ἔ-λαβον
[élabon]
“presi”,
nel greco moderno λαβαίνω,
έλαβα
[lavéno,
élava]; ma lo è anche del termine, assai meno comune, λάφυρον
[láphyron]
“preda di caccia” ; “spoglia del nemico ucciso”.
Le
lingue slave mostrano già la naturale evoluzione semantica che va
dall' “impadronirsi” alla “schiavitù”, alla riduzione in
servaggio. Nella più antica forma pervenuta di una lingua slava,
l'antico bulgaro o antico slavo ecclesiastico, la radice ha dato
luogo in primis a рабъ
[rabŭ],
che significa tout court “schiavo, servo”: è parola panslava
(bulgaro роб [rob],
russo раб-ыня
[rabynja],
con derivazione, ecc.). Passa quindi automaticamente al “lavorare”:
già nel suddetto antico bulgaro, работа
[rabota]
copre i campi semantici del “lavoro”, della “schiavitù” e
della “servitù della gleba”. La situazione si evolve
ulteriormente nel cèco storico, dove robit
significa soltanto “lavorare”, e robota
“lavoro
[materiale]”; come tutti sanno, da questo termine Karel Čapek
derivò il termine robot
per
il suo dramma utopistico fantascientifico R.U.R.
(1920),
ovvero Rossumovi
Univerzální Roboti
“Robot Universali della Rossum” (ove il nome dell'azienda
produttrice degli automi-schiavi, la Rossum, deriva da rozum
“ragione”).
Il termine slavo per lo “schiavo” passa peraltro così com'è
nella lingua ungherese, di tutt'altra origine: rab
(si pronuncia [råb] ed è presente nel primo verso
dell'Internazionale
in
ungherese, Fel,
fel ti rabjai a földnek
“Su, su, voi schiavi della terra”). In altre lingue slave, come
il serbocroato,
il
verbo robiti
si è genericizzato: significa, più che altro, “fare”. Uno di
quei casi in cui la storia di una parola fa venire qualche bordone:
per una data evoluzione storica, qualunque cosa si “faccia”
riporta ad un'antica schiavitù.
Per
il lavoro, il russo sembra divergere dalle sue consorelle slave. In
russo, “lavoro” si dice труд
[trud].
Divergere? Il termine, anch'esso presente nell'antico bulgaro o
antico slavo ecclesiastico трѹдъ [trudŭ], significa: “fatica,
pena, schiavitù, lotta per non soccombere”. Dovunque si vada a
parare, il “lavoro” non appartiene ai concetti piacevoli della
vita: appartiene alla pena, al dolore, alla mancanza di libertà, al
servaggio. L'ungherese, che non è lingua slava e neppure
indoeuropea, per il “lavoro” si è sentita però in dovere di
ricorrere ad un altro prestito slavo, dolog
(da cui dolgozik
“egli lavora” e dolgozó
“lavoratore”), una parola che significa: “necessità, dovere
imposto, costrizione”.
Finita
qui con il *rabh-
indoeuropeo?
Niente affatto. Le radici indoeuropee, oltre al fenomeno
caratteristico dell'apofonia (vale a dire il loro comparire nella
“forma debole” caratterizzata dalla presenza della vocale /a/,
nella “forma forte” caratterizzata dalla vocale /o/ e dalla
“forma ridotta” caratterizzata dall'assenza di vocale e
dall'eventuale presenza di una sonante), nella loro evoluzione
storica presentano ogni sorta di accidente fonetico. Così, ad
esempio, nelle lingue germaniche è stata scelta la forma ridotta
della radice, *rbh-,
la quale, per evidenti difficoltà di pronuncia, ad un certo punto ha
dato luogo a *arbh-
con
la una prefissazione vocalica. Nella più antica lingua germanica
testimoniata, il gotico (sec. IV d.C.), compare già il termine
derivato arbaíþi
[da leggersi: /árbethi/] “fatica, lavoro”. Nell'alto tedesco
antico compare come arabeit,
e nel tedesco moderno come Arbeit,
quello che “macht frei”. Parola, che, dal tedesco (o meglio, dal
basso tedesco) è passata, come prestito, in tutte le lingue
scandinave continentali (danese arbede,
svedese e norvegese arbete).
L'islandese, la “nonna” delle lingue germaniche, ne ha dato uno
sviluppo autonomo: erfiði,
che non significa “lavoro” ma comunque “fatica fisica, pena,
travaglio”.
Prima
di terminare con *rabh-
,
occorre accennare al fatto che la sua forma ridotta *rbh-,
testè vista per le lingue germaniche e con la medesima prefissazione
vocalica, è presente nel greco ἄλφ-ημα
[álphēma]. Cosa significa questa non comune parola? “Mercede,
fatica, lavoro, corvée”. C'est étonnant. E, in ultimo, che la sua
primeva origine come “movimento violento dell'anima e del corpo”
è alla base anche del latino rabies
“rabbia”
(accesso violento che prende, si direbbe ora “raptus” per altro
derivato anch'egli dalla medesima radice), nonché di robur
“ròvere”
(albero di grande forza, da cui il derivato robustus).
Dunque,
“lavoro” = “cattura, riduzione in schiavitù, impadronimento”.
Nelle lingue romanze, o neolatine, il termine labor
si è generalizzato come “lavoro” soltanto in italiano (il rumeno
ha muncă,
un prestito slavo). Nelle altre lingue significa piuttosto “fatica”
e, quindi, “lavoro della terra” (francese labeur;
labourer “lavorare
la terra”, spagnolo labrar,
labrador
-che è anche il nome della penisola e del cane-, portoghese lavrar,
lavrador).
Per il “lavoro” in senso generico, molte lingue neolatine hanno
preferito un altro piacevole termine, quello del nostro “travaglio”,
del francese travail,
dello spagnolo trabajo,
del catalano treball,
del portoghese travalho,
del sardo traballu.
In
questo caso non si risale affatto all'antichità indoeuropea, ma a
una forma e a uno strumento di tortura: il tripalium.
Tre pali, disposti uno in verticali e gli altri due a X, ai quali il
torturando veniva legato; viene, tra gli altri, menzionato da
Cicerone nell'orazione In
Verrem (“Contro
Verre”, 70 a.C.) come forma di tortura nata da un sistema per
immobilizzare bestiame riottoso e riservata, naturalmente, agli
schiavi ribelli (come tale, viene descritta allo stesso modo in un
testo molto posteriore, il Concilio
di Auxerre del
582 d.C., specificando che si trattava di una procedura talmente
crudele che ai chierici veniva proibito di assistere alle sessioni di
tortura col tripalium).
Questa simpaticissima punizione riservata agli schiavi è stata
associata al lavoro, alla pena fisica e morale, alle doglie del parto
e alle tribolazioni del viaggio (è alla base, mediante il
franconormanno, anche dell'inglese travel).
Da notare che, il più delle volte, al tripalium
con
il relativo tripaliatus
veniva,
che quest'ultimo fosse o meno già morto, dato fuoco. Ad un certo
punto, nella coscienza popolare, il “lavoro” è stato paragonato
ad una cosa del genere.
La
lingua greca, sia antica che moderna, ha sviluppato appieno la
distinzione tra l' “opera” (il lavoro compiuto) e il “lavoro”
come attività. Per il “lavoro” come “opera” c'è poco da
dire, anche la relativa radice, quella di ἔργον
[érgon],
da
*ϝέργον
[wérgon;
la “ϝ” è il digamma
indicante
il fonema /w/, ancora presente nelle fasi più antiche del greco e in
Omero, ma scomparso nelle fasi storiche del greco
sebbene
conservatosi in uno sperduto dialetto ancora parlato, lo zacònico],
è panindoeuropea, *werg-
/ *worg- / *wrg-, quella
del semplice “fare”. Analizzarla significherebbe perdersi in un
oceano, dalle lingue germaniche (inglese work,
tedesco
Werk)
all'armeno gorc;
anche
se va detto che ha anch'essa degli sviluppi un po' sinistri, visto
che la ritroviamo anche nel greco ὀργή
[orghé]
“rabbia,
collera”, nell'antico bulgaro vĭrša
“rete per acchiappare i pesci al passaggio”, nell'antico
irlandese ferg
“rabbia,
ira” (irlandese moderno: fearg)
e nel tocario wark
“frusta, scudiscio” (il tocario è una lingua indoeuropea i cui
documenti su tavolette sono stati scoperti nel XX secolo nel
Turkestan cinese, più o meno dove ora stanno gli Uiguri). Da dire
comunque che, in greco -anche moderno- il verbo “lavorare”
presenta un'interessante dicotomia. Da un lato c'è il “lavorare”
come attività produttiva organizzata e industriale, espresso
mediante il classico ἐργάζομαι
[ergázomai,
mod.
ergázome].
Il “lavoratore” in senso elevato, cosciente, è un ἐργαστής
[ergastēs,
mod.
ergastís]
o un ἐργαζόμενος
[ergazómenos].
Dall'altro c'è il “lavoro” come termine generico, basso, crudo:
in greco moderno è δουλειά
[dhouliá],
mentre lavorare è δουλεύω
[dhulévo].
Entrambi i termini risalgono a quelli classici per “schiavitù”,
δουλεία
[douléia],
e “sono schiavo”, δουλεύω
[douléuō].
Non è certamente un caso che i termini “elevati” siano stati
filtrati dalla “lingua ufficiale” arcaizzante, la katharévousa,
rimasta in uso formale fino al 1974 (quando fu abolita dopo la fine
della dittatura dei Colonnelli; il dittatore Papadopoulos, quello
della “Grecia dei Greci cristiani”, si esprimeva praticamente in
greco antico!): la lingua dell'élite, della Chiesa, della
burocrazia, dei padroni. La dhimotikí,
il neogreco popolare, diceva e dice tuttora di essere schiavo quando
va a sgobbare. Interessante notare che per la “schiavo” in senso
proprio, il neogreco può usare sia il termine classico, δούλος
[doúlos],
sia, più comunemente, il prestito veneziano σκλάβος
[sklávos],
propriamente derivato dagli “slavi”, popoli schiavi assoggettati.
“Schiavitù” è sia σκλαβιἀ
[sklaviá],
sia il classico δουλεία,
pronunciato
[dhoulía], che si distingue dal “lavoro” [dhouliá] solo per la
posizione dell'accento.
L'evoluzione
forse più originale e interessante, per quanto riguarda il “lavoro”,
si ha però in quei pochi paesi del Salento dove ancora si parla il
griko,
il greco salentino che, assieme a quel pochissimo che ne resta anche
in Calabria (il grecanico)
rappresenta le ultima vestigia storiche del greco della Magna Grecia.
Pur avendo sotto molti aspetti seguito l'evoluzione del greco di
Grecia e dei suoi dialetti moderni, il griko salentino ha
-ovviamente- caratteristiche tutte sue. Non soltanto per la presenza
massiccia di termini salentini, ma anche per sviluppi particolari dei
termini di pura origine greca (alcuni dei quali sono, come è normale
nei linguaggi isolati, arcaismi notevoli). Bene, nel griko salentino
di Calimera, “lavorare” si dice polemáo.
Vale a dire: nel Salento griko non si va al lavoro, si va alla
guerra. Il “lavoro” come sostantivo è però il pugliese fatía,
propriamente il “lavoro come bracciante” (“fatica”).
Esercizio.
Sostituire,
nel seguente brano, il termine “lavoro” con termini desunti
dall'Esposizione.
Esempio:
“Il nuovo fanatismo della schiavitù”...
“Il
nuovo fanatismo del lavoro, con cui questa società reagisce alla
morte del suo idolo, è lo stadio finale di una lunga storia.
Dall'epoca della Riforma, tutte le forze propulsive della
modernizzazione occidentale hanno predicato la sacralità del lavoro.
Soprattutto negli ultimi 150 anni, le teorie sociali e le correnti
politiche sono state addirittura possedute dall'idea del lavoro.
Socialisti e conservatori, democratici e fascisti si sono combattuti
fino all'ultimo sangue, ma per quanto fossero nemici mortali si sono
sacrificati insieme all'idolo 'lavoro'. Il verso dell'inno dei
lavoratori dell'Internazionale che recita : 'Non c'è posto per gli
oziosi' ha trovato un'eco macabra nell'iscrizione 'Il lavoro rende
liberi' sopra l'ingresso del lager di Auschwitz. Poi le democrazie
pluralistiche del dopoguerra hanno fatto solenne giuramento di
difendere l'eterna dittatura del lavoro. Perfino la costituzione
della cattolicissima Baviera, proprio nel solco della tradizione di
Lutero, insegna ai cittadini: 'Il lavoro è la fonte del benessere
del popolo e si trova sotto la particolare protezione dello Stato', e
il primo articolo della costituzione dell'Italia, culla del
cattolicesimo, recita: 'L'Italia è una Repubblica fondata sul
lavoro. Alla fine del XX secolo, tutti i contrasti ideologici sono
praticamente svaniti nell'aria. In vita è rimasto lo spietato dogma
comune che il lavoro è la vocazione naturale dell'uomo.”
[Robert
Kurz, Norbert Trenkle, Anselm Jappe (Gruppo Krisis): Manifesto contro
il lavoro, ed. italiana, 2003 Derive/Approdi, pp. 14/15]