lunedì 14 gennaio 2019
Non è primavera
In questi giorni del mese di
gennaio Cesare Battisti è di nuovo prigioniero, mentre vent'anni fa,
nella bottiglia d'orzata, moriva
per la prima volta Fabrizio De André.
Poi,
è andata a finire che De André è morto e rimorto, quasi
quotidianamente. Nella normalizzazione che ne è stata fatta. Nei
monumenti, nelle strade e nelle piazze che gli sono state dedicate,
quasi altrettante che a Cesare Battisti (quello impiccato nel 1916 a
Trento). Nella sua costante e capillare neutralizzazione come una
sorta di poeta nazionale, quando era ed è stato quanto di meno
“nazionale” si possa immaginare (la qualifica di “poeta”,
così tanto amata quanto vuota, non mi interessa). Nella rassicurante
imposizione che è stata diffusa: deve piacere a tutti, bovinamente e
in quanto tale. Nella sua pressoché sacralizzazione. In origine,
quando si veniva dichiarati sacri (sacer esto,
“sia fatto sacro”, si leggeva nelle Leggi delle XII Tavole
dell'antichità romana) significava essere messo a morte in
sacrificio a un qualche dio, in esecuzione di una ben precisa condanna.
In
queste ore sta girando, in una serie di ghetti della “grande Rete”
(siti, blog, pagine Facebook...), un'immagine, quella che si vede
sotto il titolo (che riprendo dalla
Militant).
Un giovane Cesare Battisti dietro alle sbarre, e dei versi di
Fabrizio De André (da “Nella mia ora di libertà”, album Storia
di un Impiegato, 1973). Nulla da
dire sull'immagine; qualcuno la avrà materialmente prodotta, ma sono
certo che sarà venuta in mente a chiunque condivida, in tutte le
diversità, gli amori e gli odi possibili e immaginabili, uno
straccio di percorso, un brandello di storia, un grido di ribellione
strozzato nella repressione, nella standardizzazione, e sovente nella
solitudine e in destini più o meno ridicoli.
Per
questo parlo di ghetti. Ghetti personali, ghetti di piccole
organizzazioni, ghetti di singoli frequentati da altri singoli
sparsi, ghetti di qualsiasi genere che la “Rete” ha fabbricato a
migliaia e migliaia, e che non di rado vengono chiamati “oasi”.
Un'oasi, come si sa, è circondata dal deserto. Si tratta, appunto,
di una perfetta desertificazione. Anche questo blog, per quello che
possa valere, è un ghetto dove, da stamani, gira conseguentemente
l'immagine di Cesare Battisti coi versi di De André. Ci girerà, tra
un po', anche un grido di libertà scritto perbene, in tutte
maiuscole come da prassi o da consuetudine.
C'è
una sola cosa con la quale non mi riesce proprio essere d'accordo: la
primavera. Tante le grinte, le ghigne i musi, ma non c'è, purtroppo,
nulla da spiegare. Non è primavera. Occorrerebbe, forse, spiegare
bene che è un lungo e duro inverno di cui non si vede la fine. Un
inverno che può avere anche i trentadue gradi di Santa Cruz de la
Sierra, Bolivia. Un inverno che si twitta e si fa i selfie. Un
inverno che ha mille e mille facce, grinte, ghigne, musi; e non solo
quelle che, più o meno, ci si aspettano. Non ha solo la faccia di
Salvini, di Trump, di Bolsonaro, di questo o quel fascista. Ha anche
la faccia di Evo Morales. Ha la faccia dei queruli pennaioli e
tastieranti di “Repubblica” che infilano tra gli articoli le
tiratine sulla “libertà di stampa”, sulla “scomodità” e
sulle “fake news”, quando la menzogna informativa e servile è
oramai generalizzata ed eletta a necessario sistema. Ha la faccia di
tutti gli zombies chini sui telefonini -che, tra le altre cose, a
parecchi servono pure per accedere ai propri ghetti e a diffondere le
immagini di Cesare Battisti, di De André e del gattino miao, gli
appelli, i filmini raccapriccianti, edificanti, divertenti,
interrogativi. Le verità rivoluzionarie e le morali. Gli insulti e
le “condivisioni”. Non c'è mai stata un'epoca come questa,
quando si “condivide” ogni cosa e non esiste più nemmeno un
milligrammo di solidarietà, di empatia, di assunzione reale di ciò
che si dice e si fa.
Per
questo, o anche per questo, è inverno pieno. E' inverno quando ti
propinano che l'accanimento su Cesare Battisti non sarebbe “vendetta,
ma giustizia” (ancora una volta, farina del sacco di “Repubblica”,
come dubitarne). No, no, è proprio vendetta, vendetta cieca e assai
mirata. Capillare e ben al di là di Cesare Battisti e delle sue
vicende. Dietro a quelle sbarre, quelle dell'immagine, non deve
stare soltanto lui; ci deve stare chiunque abbia, nei modi più
disparati possibili, condiviso realmente qualcosa, che abbia o meno
impugnato le armi per un periodo della sua vita in una guerra che ha
avuto dei vincitori e dei vinti. Gli appelli a “liberare gli anni
'70”, così come si legge in queste ore, sono giocoforza destinati
a cadere nel vuoto. Al massimo, a girare tra i luoghi dove già
girano da tempo, vale a dire nei ghetti fisici e virtuali (che,
oramai, si confondono appieno). Prova ne sia che qualsiasi tentativo
di parlarne, con la presenza o meno di qualche “protagonista” (o
deuteragonista, o tritagonista, o nullagonista), viene stroncato e
delegittimato a colpi di grancassa mediatica, “social” e
poliziesca (a tutti coloro che si sono infilati a orgasmico capofitto
nei “social” mi premerebbe ricordare la primaria funzione di
controllo e di polizia che hanno, specie quando ripetono come automi
“dipende dall'uso che se ne fa”).
L'inverno
consiste nel fatto di non avere, attualmente, nessun'altra
possibilità che esporsi con dei mezzi che permettono un controllo e
una repressione immediata e capillare. Secondo quanto si legge,
persino Cesare Battisti è stato beccato mentre cercava un wi-fi per
le strade di Santa Cruz. E probabilmente, ciò è avvenuto perché
attualmente, in una fuga, non si hanno altri mezzi per cercare in
qualche modo di sfuggire: uscire da un luogo più o meno sicuro per
cercare di mettersi in contatto con qualcuno che ti aiuti e ti
sostenga. Si tratta di un'impasse nella quale ci troviamo tutti,
attualmente, anche chi non è certamente costretto a fuggire e a
nascondersi. Anche chi non è braccato da uno Stato, dall'Interpol,
dai fascisti mediatici e dal “popolo”. Anche chi non ha mai
toccato un'arma in vita sua. Anche chi desidererebbe esprimere un
semplice pensiero, un'idea, una proposta che vada contro a ciò che,
oramai, non si può più nemmeno definire “maggioranza”: è,
realmente, una massa planetaria ben plasmata e felicemente
intrappolata in dèi, legalità, telefonini, sport, cuochi, vittime,
ammòre, fiction e razzismi.
E'
inverno, e occorre andare a spiegarlo in modo a mio parere assai
brutale e chiaro, perché la primavera è morta. Cinguettiamo come
uccellini, ma coi “tweet” e coi cinguettii di Whatsapp. Per il
resto siamo pienamente in gabbia, e non cantiamo per amore, ma per
rabbia. Liberare gli anni '70? Bisognerebbe liberare la Storia, tutta
quanta, e invece ce la facciamo raccontare in TV da Paolo Mieli, mi
scappa da ridere. “Assaltare il cielo”, come si legge sulla
Militant? Dai ghetti si assalta poco o punto, i ghetti sono fatti di
mura, di chiusura, di ingressi rigidamente controllati a chi vuole
entrarvi, e di uscite impossibili per chi è dentro. Viviamo quindi
tranquilli e beati nei nostri ghetti, nel blogghino, nella paginetta
Facebook, in qualche “spazio libero” che tanto fra due o tre
giorni verrà chiuso e sgomberato con tante belle denunce fresche
fresche, nella stanzetta o nella baracca, nell'oasi e nell'illusione
di sfuggire. Stiamo anche noialtri cercando un wi-fi. Fra poco ci
estradano. In quel Cesare Battisti dietro alle sbarre ci siamo tutti,
in dei casi senza nemmeno rendercente conto. In altri casi, sotto
sotto forse nemmeno del tutto scontenti perché di “compagni” che
ho sentito dire che “se l'è andata a cercare” ne ho sentiti più
di uno.
CESARE
BATTISTI LIBERO!
LIBERIAMO GLI ANNI '70.