giovedì 2 ottobre 2008

Verso il 18. 2, Il cimitero delle fotografie.




Prima o poi, nello spazio di parete vuoto tra l'armadio e la cassettiera rossa ci andrà un bizzarro specchio che una ragazza con un numero nel cognome mi sta fabbricando; e ad uno specchio doveva essere la fotografia illustrativa di questo secondo passo verso il 18. Ora che ho la fotocamera digitale, regalatami per il compleanno, avevo deciso di fotografarmi allo specchio con in mano una foto di trent'anni fa precisi, di quando avevo quindici anni.

Sicuro di averla, in un vecchio album a casa di mia madre, ero andato persino a cercarla, qualche giorno fa; l'album l'ho trovato, ma la foto non c'era più. Non so se l'ho strappata io, se l'ha presa qualcun altro, oppure se se n'è andata via da sola; le fotografie sanno essere strane. Me l'aveva fatta mio fratello, che tra le sue varie cose è fotografo diplomato, un pomeriggio di prima estate dell'anno 1978, nella cantina condominiale che era la mia stanza; un primo piano leggermente di sbieco, coi miei riccioli di allora, una masnada di collanine di quelle che “andavano” negli anni '70, il mio solito sorrisetto a mezzabocca e un fiasco di Chianti sullo sfondo. In bianco e nero. Si vedeva un po' di quella cantina, che già avevo eletto a Repubblica ma che non si chiamava ancora con il nome con cui sempre la ricorderò: The Free Bird's Cellar Republic. Ma di questa cosa parlerò, statene pur certi, tra qualche altro passo.

Niente fotografia allo specchio; anche quella se n'è andata. Come la maggior parte delle foto in cui sono comparso. Alcune mi sono state bellamente gettate via senza neppure informarmi, e iddio ne guardi da chi crede che, eliminando le immagini, si eliminino i ricordi; altre le ho perse io stesso. Fatto sta che, per un motivo o per un altro, sono andate tutte quante al Cimitero delle Fotografie. Questa espressione non la sto inventando io, ora, per questo post; la si trova nel testo di una canzone, molto bella, di Gilles Servat. Una canzone che dice: Occorre amare gli istanti che muoiono subito, e che si rivedranno soltanto nel cimitero delle fotografie. A me è toccato andare oltre. Gli istanti sono morti subito, e poi sono morte anche le fotografie. Il loro cimitero non sono neppure vecchi album polverosi, è un cimitero che neppure so dove si trovi.

Chissà dov'è andata a riposare per sempre, ad esempio, una foto fatta sull'isola di Lipari, in cui ero assieme ad un'altra persona. Il suo istante consistette nel farcela fare da un gentilissimo signore che si trovava nel nostro stesso albergo, sul corso principale del paese, e proprio sulla terrazza dalla quale ci preparavamo ad assistere alla processione del Santo. Gli porsi la macchina fotografica, una Asahi Pentax che per comprarmela m'ero dovuto svenare, e lui la guardò con interesse; “bella macchinetta, bella macchinetta davvero”. Non feci nemmeno in tempo a ringraziarlo, che cominciò a scattare foto come palleggiandosela tra le mani. Diceva: ragazzi, no, non vi mettete in posa, fate come se non ci fossi. E giù a scattare foto su foto. Dopo che ebbe finito, gli chiesi con molto rispetto se per caso fosse un fotografo professionale; mi rispose di sì, e si presentò dicendo di chiamarsi Fulvio Roiter. Prima deglutii io, poi la persona che era con me. E ne venne fuori, tra le altre, una foto in cui l'immagine fermata mi aveva fatto diventare un ventiduenne bellissimo.

E quell'altra, di tanti anni dopo? Ero sempre in compagnia di quella stessa persona, ma da un'altra parte. Ero a inseguire canzoni.

Nel sud della Francia, nel Languedoc. Sull'autostrada, ad un certo punto, vidi un cartello che indicava Sète; quasi inchiodai per svoltare. Sète è il posto dov'era nato Georges Brassens, quando ancora la cittadina si chiamava Cette, “come un pronome dimostrativo” (“cette” vuol dire “questa” in francese). Stufi delle battute tipo: “Come si chiamano gli abitanti di Cette? Ces! (= “queste”)”, i sétois indissero un referendum per cambiare l'ortografia pur mantenendo la pronuncia del nome; e nacque così Sète. E non è neppure che ci volevo andare a fare chissà quale “pellegrinaggio”, ché nei panni del pellegrino proprio non mi riusciva immaginarmi nemmeno allora; volevo andare in un certo posto. Volevo andare sulla spiaggia della Corniche, dove Brassens voleva essere sepolto nella “Supplique pour être enterré à la plage de Sète”, una della canzoni che mi hanno segnato la vita e che una volta ho rifatto, mezza in elbano occidentale, spostandola in Galenzana (tutto quanto sta qui, se per caso vi piglia la voglia di vedere). E così fu fatta anche quella foto. Dove sarà andata a finire? Mi fu fatta dal basso verso l'alto, mentre camminavo, con il mare sullo sfondo. Avevo un'espressione felice, di quella felicità che si ha quando ci si trova in un posto che fa parte di qualcosa che ami, ma che non pensavi mai di poter vedere. Poi un'autostrada e un cartello, all'improvviso, ci mettono lo zampino; e si forma l'istante qu'il faut chérir e che, già, morirà immediatamente.

Così, ho dovuto mettere in azione la memoria. Una macchina fotografica delicatissima, che un giorno c'è e che, quello dopo, magari non c'è più. Ho dovuto sforzarmi di ricordarle, quelle ed altre fotografie, per non scordarmi di quegli istanti morti. Chiudere gli occhi e rivederle, cercando di mettere tutti i particolari al loro posto, ordinando i colori e le espressioni; e non ci sarà mai nessun album, nessun “supporto” cartaceo o meccanico che le possa contenere, quelle fotografie. Sono dovuto diventare l'album di me stesso, per cercare di non perdere gli istanti della mia vita. Sforzarmi a ricordare, e a ricordarmi. La foto di Cleto a Capraia, dove sarà? Con otto fiaschi di vino, quattro in una mano e quattro nell'altra, che Dio solo sa come facesse a tenerli; è morta la foto, e anche Cleto, qualche anno dopo. La foto a Vieste del Gargano, leggermente sfocata, con due ragazzi appoggiati a un muretto, e uno ero io, al tramonto? La foto della prima volta che sono stato a Parigi, presami mentre accarezzavo un cagnolino nero di una signora che stava raccattando da terra un filone di pane e due scatolette che le erano cadute dalla borsa della spesa? Sì, volevo proprio mettercela, qui, quella foto con il fiasco di Chianti e le collanine. E un paio d'occhi di ragazzino che forse, quelli, ce li ho ancora. E che continuano a fotografare ogni cosa, e continueranno a farlo anche ora che ho la fotocamera digitale.

E magari, chissà, dopo aver letto questa cosa, la persona che me l'ha regalata capirà meglio di che cosa abbia rimesso in moto, e anche il mio malcelato entusiasmo nell'averla ricevuta e messa all'opera immediatamente. Così, magari, potrò dar luogo a un mio vecchio sogno ad occhi aperti: quello di andare in giro per la città a fotografare strade, e per ogni strada inventarci sopra una piccola storia. Come si dice? Storie son tutte!

E chissà, poi, che un giorno non mi riesca di trovarlo, il cimitero delle mie fotografie. Con la foto col fiasco di Chianti, con quella sulla plage de la Corniche, con quella di Cleto a Capraia e con tutte le altre. Ho però l'impressione, nient'affatto vaga, che quel cimitero coinciderà con il mio. Forse, un giorno, inventeranno una macchina da collegarsi addosso, e che riuscirà a “scaricare” le immagini su un computer (o chissà dove) direttamente dalla propria testa; del resto, vattel'a immaginare, qualche anno fa, che sarebbero esistite le fotocamere digitali. Nel frattempo mi dedico a andare ancora più addietro, a una foto che avevo da bambino piccolo, con in mano una cornetta di telefono più grande di me; o a una foto di classe con accanto un amico che poi non lo è stato più; oppure ad andare avanti, e avanti, e vedermi vecchio con dentro agli occhi tutta una vita, e le sue immagini, e il desiderio che possa non spegnersi mai quando si sa che, quando si sa che invece.

Verso il 18 il secondo passo.

1 commento:

alleluia ha detto...

È vero che tutte le fotografie sono istanti morti, im-mortalati, e ogni albun è un cimitero della memoria ... pensiero impressionante ed imbarazzante.
saludos!
Alle