lunedì 6 ottobre 2008

Verso il 18. 3, Breve tremoto.



E vedermi vecchio con dentro agli occhi tutta una vita, e le sue immagini, e il desiderio che possa non spegnersi mai quando si sa che, quando si sa che invece. O quando invece non so nemmeno chi fosse Enrico Mayer, e perché gli abbiano dedicato una via a Livorno. Ma sì, visto che siamo a far tutto quanto, apriamo pure Wikipedia; eccolo qui, Enrico Mayer. Nato a Livorno nel 1802 e morto nel 1877, sempre a Livorno. Di origine franco-tedesca. Fu precettore presso importanti famiglie aristocratiche. Scrisse un commento alla Divina Commedia e nel 1840 fu addirittura imprigionato a Castel Sant'Angelo per alcuni scritti rivoluzionari. Fu volontario nella battaglia di Curtatone e Montanara. Si firmava spesso “Ellenofilo” per il suo sostegno alla guerra d'indipendenza greca. L'articoletto ha anche una “perla”: recita che “gli fu concessa la cittadinanza italiana soltanto nel 1860”. Mi chiedo come avrebbe fatto a ottenerla, la cittadinanza italiana, prima del 1860. Ecco, ora so chi è stato Enrico Mayer, e perché gli abbiano dedicato una via a Livorno.

La via in cui, a casa di momentanei amici che poi non lo erano un gran ché, mi trovavo la sera del 16 novembre 1997. I livornesi, uno, se li immagina spesso tutti col Vernacoliere in mano, tutti comunisti o roba del genere, sboccati per non dir volgari, e così via; ma Livorno, tra tutti i posti in cui ho vissuto, non cesserà mai di essere quello più sorprendente, più segreto. Questi erano livornesi aristocratici, benvestiti, dall'eloquio forbito, forniti di ottima cultura e di passioni démodées. Ne avevo conosciuti un paio durante una gita organizzata a Vienna, ché ho fatto anche quelle; e dopo averli fatti sbellicare dal ridere sotto il nevischio, improvvisandomi surreale guida della città austriaca e qualificando di “monumento all'orchite” una statua d'arte moderna sistemata non mi ricordo davanti a quale palazzo, mi avevano qualche volta invitato ad auguste cene con il servizio buono. Naturalmente stavano in via Enrico Mayer, che è una via rimasta a modo suo elegante, a due passi dal lungomare; e figurarsi che popo' di belle maniere mettevo in campo, sbafandomi tutto il bendiddio che veniva portato in tavola, bevendo come una cisterna e guardandomi bene dal lasciare nel piatto il cosiddetto “boccone della creanza”. Per un po' mi devono avere sopportato, mentre con la bocca piena di rosbif parlavo di poesia giullaresca toscana del '200, di come comincia la Völuspá dell'Edda Antica (che recitavo in islandese antico), di che cosa fosse il carme anglosassone delle Rovine e di come, probabilmente, fosse una descrizione di ciò che già nel IX secolo dopo Cristo erano i ruderi dell'antica città romana di Bath. Non mi devono avere mai inquadrato, quei gentili signori e quelle cortesi signore livornesi. Mi versavo una bicchierata di vino rosso del migliore, mi servivo una porzione di flan di spinaci che avrebbe stiantato un rinoceronte, e giù di nuovo a disquisire della Cançon d'Auliver, dei nominativi fritti e mappamondi del Burchiello e della poesia medievale galego-portoghese. Poi, all'improvviso, hanno semplicemente smesso di chiamarmi alle loro serate. Forse avevano finito le provviste. Oppure non appartenevo a quel mondo di professoresse di lettere in pensione, di funzionari statali con interessi varij, di giovani appena sposi che sognavano di lasciare Livorno per Seattle.

Quella sera, il 16 novembre 1997, avevano organizzato una serata di poesia e musica. Si trattava di leggere delle poesie a propria scelta, mentre un autentico pianista eseguiva la musica di sottofondo. Dopo la cena, con la mia moglie d'allora che sfoggiava uno dei suoi famosi tailleurs stile 1928 andante, il qui presente, Venturi Riccardo di Alberto, col suo maglione a collo alto blé e un paio di bluggins mezzi stinti, s'avvicinò al pianoforte e lesse la poesia che aveva portato. Una sua fissa, come tutta la poesia barocca napoletana e meridionale in genere. Una poesia conosciuta fin dall'adolescenza, sapete, quell'età dove si leggono insieme i poeti che nessuno poi leggerà mai; e non immaginate neppure quanti ne abbia letti, insieme o da solo. Questo si chiama Giacomo Lubrano.

Aspettate, ché ve la ridico, questa poesia. E' un sonetto. Si chiama: Terremoto orribile accaduto in Napoli nel 1688. Tanto la so a memoria, non importa che la cerchi su Google. Come scordarsela poi, dopo quella sera. Mi fa bene anche fermarmi un attimo e recitarla a voce alta, mentre la scrivo.

Mortalità che sogni? ove ti ascondi
se puoi perire a un alito di Fato?
Dei miracoli tuoi il fasto andato
or né men scopre inceneriti i fondi.

Sozzo vapor da baratri profondi
basta ad urtar con precipizio alato
Alpi di bronzo; e in polveroso fiato
struggere tutto il Tutto a regni, a mondi.

Di ciechi spirti un'invisibil guerra
ne assedia sempre, e cova un vacuo ignoto
a subitanee mine in ogni terra.

A' troni ancora, a' templi è base il loto:
su le tombe si vive: e spesso atterra
le nostre eternità breve tremoto.

Ecco, questa poesia avevo scelto di dire. E allora non avevo ancora il telefono cellulare. Lo avessi avuto, forse non avrei avuto il tempo di dirla. Nessuno sapeva dov'ero. Ero irraggiungibile. In quel momento esatto, mentre declamavo quei versi, mio padre stava morendo. Un breve tremoto sotto forma d'infarto.

I saluti, ci rivediamo, e pure lasciai a quella gente un paio di libri che non sono mai più andato a riprendere. Resteranno in via Enrico Mayer, a Livorno, o dovunque il diavolo li porti. Io e mia moglie tornammo a casa, e dalle scale si sentiva suonare il telefono fisso. Era mio fratello. Alzai la cornetta e sentii che piangeva.

Presi la macchina, una vecchia Alfetta targata Siena. Mi precipitai a Firenze, all'ospedale di Santa Maria Nuova. Arrivai che erano quasi le due di notte. Si era sentito male con la Settimana Enigmistica in mano. Esattamente il n° 3425 con, sulla copertina, Maria Grazia Cucinotta. Ho qui in mano quella rivista. Mio padre si è interrotto sulle “Parole crociate senza schema” a pagina 44, sulla parola “Montessori”. Definizione: “Una celebre pedagogista”. Sembra che ci sia scritto “Montessorii” con due “i” finali, ma la seconda “i” è uno sbaffo della matita che aveva in mano.

Lo avevano avvolto in un lenzuolo, su un lettino. Aveva addosso tutte le malattie del mondo, credo. La mattina prima ci avevo leticato al telefono. Lui era un amministratore esattissimo. Io, in quella cosa, definirmi un disastro è un eufemismo. Era preoccupato e assillante, e assillante lo sapeva essere benissimo. Le ultime parole che gli ho detto, al telefono, sono state: Madonna, ma mi lasci in pace una buona volta? Ha provveduto. Dentro a quel lenzuolo sorrideva, con quel sorriso della morte che libera finalmente dai mali, dalla sofferenza. Può darsi che fra di noi ci fosse un abisso, il vuoto spaventoso del ginnunga gap; ma in quell'abisso ora c'eravamo tutti e due. Lui per la via maestra; io coi miei soliti cammini tortuosi, coi miei angiporti, con le mie brutte e paurose oscurità trapiantate su un paio di gote troppo paffute per crederci.

Verso il 18 il terzo passo.


1 commento:

Riccardo Venturi ha detto...

Völuspá
1-3

1.
Hljóðs bið ek allar
helgar kindir,
meiri ok minni
mögu Heimdallar;
viltu at ek, Valföðr,
vel fyr telja
forn spjöll fira,
þau er fremst of man.

2.
Ek man jötna
ár of borna,
þá er forðum mik
fædda höfðu;
níu man ek heima,
níu íviðjur,
mjötvið mæran
fyr mold neðan.

3.
Ár var alda,
þar er ekki var,
vara sandr né sær
né svalar unnir;
jörð fannsk æva
né upphiminn,
gap var ginnunga
en gras hvergi.

Il Presagio dell'Indovina
Traduzione di Adriano Marchetti

1.
Silenzio totale io chiedo,
sacre stirpi
maggiori e minori
figli di Heimdallr.
Vuoi tu che io, o Valföðr,
bene enumeri
gli antichi canti umani,
quelli che meglio ricordo.

2.
Io ricordo i giganti
nati da tempo,
quelli che me, in passato,
hanno allevato.
Nove mondi io ricordo,
nove grandi distese,
il nobile albero del mondo
nelle profondità della terra.

3.
Si era nel tempo remoto
in cui Ymir dimorava,
non v'era sabbia né mare,
né fredde onde;
la terra non esisteva
né il cielo superno,
l'abisso era spalancato
ed erba in nessun luogo.