sabato 28 febbraio 2009

Bologna, 21 giugno 1984




Questa cosa necessita di una piccola introduzione. Questo blog,
olim, era nato per pubblicare vecchie cose dal sottoscritto sparse per la vasta Rete, specialmente in tempi, internettisticamente preistorici, in cui si pagavano salatamente i provàiderz. Arrivavano bollette da suicidio; restare collegati era questione di squisita sconsideratezza, specialmente per chi -come me- scopriva finalmente di avere una valvola di sfogo alle tante, troppe cose che prima erano regolarmente preda di fogliacci inghiottiti dai cassetti o dai cestini della carta straccia. Questa cosa è il mio secondo post in assoluto pubblicato sul newsgroup di Guccini, che allora si chiamava ancora it.fan.guccini; risale al 29 gennaio 1998. E' tornata fuori stasera, e non è sicuramente un caso. Stasera, 27 febbraio 2009, Guccini era a cantare a Firenze, al palasport che ora è detto "Nelson Mandela Forum" (se a giugno vince la destra, magari sarà rinominato "Foibe Forum", o "Amerigo Dumini Forum"). Il 21 giugno 1984 ricordato nel titolo di questa cosa, Guccini era invece a cantare in Piazza Maggiore, a Bologna. Io ed alcuni amici di allora ci andammo, probabilmente segnando una specie di povera data epica nella nostra vita di ragazzi qualsiasi; e fu una serata che resterà per sempre. Qualsiasi cosa sia accaduta dopo, qualsiasi cosa accada ancora in futuro. Una di quelle cose che passerà nel famoso "film dell'ultimo momento", quando si tratterà poi di spegnere i fari definitivamente. Guccini. Guccini Francesco da Modena o Pàvana, di dove vuol essere sono affari suoi come di chiunque. C'è chi lo critica, io per primo in questi ultimi tempi, e c'è chi addirittura lo definisce un "trombone" (dovendo magari avere la saggia accortezza di rendersi conto di quali siano le proprie, e numerose, e meschine trombonate; e in questo novero mi pongo onestamente e naturalmente anch'io). C'è chi lo rimpiange e c'è chi lo indifferisce; intanto, il 21 giugno 1984, cantava e c'erano cinque ragazzi qualunque ad ascoltarlo completamente briachi. Questa cosa ricorda quella serata. Ci sta bene, prima di trascrivere quella cosa, un povero e urlato "W Guccini"; viva Guccini e viva il tempo che fu, vivano quelli che sono vivi, e vivano quelli che sono morti.

Partimmo una sera verso Milano,
Io, Antonio l'americano
Boyboy il cane....

E invece noi partimmo verso Bologna a sera del primo giorno d'estate del 1984. Io, Stefano, Luca e due Paoli. Il secondo Paolo era il fratello minore di Stefano.

Qualcuno di voi si ricorderà sicuramente che cosa accadde quella sera in Piazza Maggiore. Francesco Guccini aveva deciso di festeggiare i suoi trent'anni di attività con un grande concerto in piazza, ed il Comune di Bologna on solo aveva aderito all'iniziativa, ma concesso la piazza principale della città. L'Unione dei Cuochi Bolognesi aveva preparato una straordinaria megatorta di quattro o cinque metri di altezza, da offrire a tutti.

Centocinquantamila persone. Piazza Maggiore strabordante di gente, che invadeva anche le vie laterali. Una marea di gente, di esperienze, di volti diversi, tutti con una cosa in comune: quel signore con la barba nato a Modena, 1,94 di altezza, che da trent'anni componeva canzoni e sinfonie per chitarra e fiasco.

Non partimmo la sera, ma alle due del pomeriggio. Da Firenze, su una strabiliante Fiat 127 di proprietà di Luca. Gialla sporca, targata Cremona 172980 (chissà per quali astrusi percorsi gli era arrivata...) e nelle seguenti condizioni: metà del tetto era tenuto attaccato alla carrozzeria mediante scotch da pacchi (quello marrone largo). Lo sportello laterale destro non si chiudeva, e tale problema era stato risolto mediante filo di ferro che doveva essere slegato ogni volta che si scendeva da quel lato. Sedili con le molle all'aria, cui dovevamo fare attenzione per non farci male; per terra ogni sorta di cose, tra cui una tazzina da caffè rotta ed una copertina delle "Ore" con Ilona Staller stranamente vestita.

In cinque ci montammo. Avevamo tutti 22 anni, tranne Paolo 2º, che ne aveva 20.

La musica, già. Tutte le cassette di Guccini, rigorosamente registrate di straforo. Lo stereo consisteva in un mangianastraccio senza nemmeno la protezione della cassetta e col volume bloccato. Era mio, ce l'ho ancora. Finanze: esattamente lire 45.000 in cinque (con pieno di benzina fortunatamente).

Da Firenze a Bologna c'è un'ora e mezzo di autostrada, un'ora per chi ha una macchina "come si deve". Noi decidemmo di non ardire a fare l'autostrada; la 127 faceva si e no 70 all'ora, e già vedevamo i titoli del tipo:

CINQUE RAGAZZI CARBONIZZATI SULLA FIRENZE-BOLOGNA NELLO SCONTRO CON UN TIR.

(Sottotitolo: SI STAVANO RECANDO A BOLOGNA PER IL CONCERTO DI GUCCINI - LO STRAZIO DEI GENITORI E DELLE RAGAZZE. )

Volendo evitare ai nostri genitori ed alle fidanzate una sgradita rielaborazione di "Canzone per un'amica" (o "In morte di S.F."), decidemmo di fare la Futa. Qualcuno di voi conoscerà quella strada: Firenze, la Futa, la Raticosa (m 984 sul livello del mare). Una salita continua, e di quelle dure. Guccini a volume bloccato, un paio di fiaschi di vino e Luca che guidava sudato fradicio, per la tensione e per il caldo tremendo. Firenze-Futa 2 ore e un quarto. Disquisendo per 1 ora su Amerigo ed improvvisandone una traduzione in inglese ("He probably got out / Closing the green door / Behind his shoulders..."). Qualcuno propose di chiamare la canzone Ameràigo.

Arrivati al confine ci fu uno dei nostri rituali. Stefano è originario di Pavullo nel Frignano, e scese a baciare la terra d'Emilia. Ovviamente lo imitammo, con Paolo 1º che (dato anche il nome) si lanciò in una imitazione del Papa che bacia la terra quando scende dall'aereo. Rimontammo in "macchina" e, berciando le vituperate Cinque Anatre, ci buttammo per la discesa. C'era il Giro d'Italia in quei giorni, dove si era fatto luce un corridore poi svanito nel nulla, tale Zappi. Incrociammo un anziano ciclista che scendeva, lo affiancammo e ci lanciammo all'unisono in un :

VAI ZAPPPIIIIIII!!!!

finendo ovviamente mandati affanculo. Il bello è che lui, scendendo più veloce di noi, ci superava di continuo. Ogni tanto ce lo ritrovavamo affiancato, e giù coi VAI ZAPPIIIIIII. L'ultima volta, a Pianoro, ci mandò

A CAGHER !

con tutto il suo cuore.

E poi Bologna, facendo economia sui panini per comprare più vino. Riuscimmo a piazzarci vicino alla megatorta, per assicurarcene un pezzo (tutto fa...). La mitica Deborah Kooperman sul palco, e pure un gruppo folk di Pavullo che cantava la ninnananna "Nanìn Pupìn". Chissà se qualche ricordo avrà provocato in Stefano e Paolo 2º..... e poi lui.

Una canzone dietro l'altra, con la sempiterna battuta del "thè freddo" con cui Francesco tracanna e tracanna. Come noi, oramai impossibilitati o quasi a reggerci in piedi; tranne Paolo 2º, che aveva conosciuto una e stava lì accanto a pomiciare, anzi, direbbero gli americani, a fare heavy petting.

Poi l'esplosione. Guccini attacca "Bologna".

BOLOGNA, LAA GRASSA INUMANA,
GIA' UN POCO ROMAGNA....

E noi, in coro:

E IN ODOR DI TOSCANAAAAAAAAAAAA

Non so come. Il palco era vicino. Ci sentì, ci fece un cenno con la mano, anzi con il pugno. O meglio, non so se ce lo fece, ma mi piace pensare di sì. Fra parentesi, della torta ne toccò un pezzo solo a Luca.

Non so come facemmo a tornare, stavolta per l'autostrada. Arrivammo a Firenze alle sette del mattino dopo. Tutti alla nostra vita: l'università per me, Luca e Paolo Iº, la caserma per Stefano (è militare di carriera) e qualcos'altro per Paolo 2º.

Gennaio 1998. Quasi 14 anni dopo. Stasera mi telefona Stefano che sì è certo sposato, ha fatto anche carriera ma, stavolta contraddicendo il Vate, non ha fatto una morte un po' peggiore. Anzi, è sempre lui, l'unico e l'inimitabile "Mannello", capitano dell'aeronautica e gucciniano di ferro.Gli dico del newsgroup (che non conosce, non avendo Internet), e ci rimettiamo a parlare del concertone di Bologna. Luca è ispettore delle ferrovie, e credo si canti spesso qualche canzone "in
tema" del Nostro. Paolo Iº fa invece l'assicuratore, se la barcamena in una storia d'amore appassionata e complessa ed ha sempre lo stesso viso da ragazzino.

Di me più o meno sapete qualcosa da un paio di sproloqui sul newsgroup.

Ma c'è la variante GC. GC sta per Grande Consolatrice. Colei che s'è presa Paolo 2º, fratello di Stefano, il 4 gennaio 1996, per tramite di una siringa e di una polverina bianca.

Ed a lui è dedicato tutto questo.

Ciao.
Riccardo.

Riccardo Venturi @iol.it>
Er muoz gelîchesame die leiter abewerfen
So er an îr ûfgestigen ist.


mercoledì 25 febbraio 2009

Massimi inizi


Una persona che conosco, ieri, ha chiuso il suo blog. Essendo uno dei pochi che ancora leggevo con estremo piacere, la cosa mi fa naturalmente un altrettanto estremo dispiacere; me ne sono accorto così, all'improvviso, in una nottata in cui ero stranamente andato a letto prestissimo. Sono stato svegliato alle una da due stronzi di messaggini pubblicitari della Tim, in rapida successione; e non c'è stato più verso di riaddormentarmi. Andrà a finire come quasi ogni notte, mi vincerà lo sfinimento alle sei o alle sette di mattina; mi toccherà anche vestirmi per andare a lottare con la macchinetta delle sigarette all'angolo.

Dico all'improvviso, facendo un gesto consueto, quotidiano. A quel blog esiste da sempre un link nella lista qui accanto. Ma, sicuramente, l'improvviso è solo mio. Chi scriveva quel blog ci avrà pensato e ripensato. O forse sarà intervenuto un fatto che non conosco; oppure ancora gli è saltato così. Nell'ultimo post l'autore spiega comunque le sue motivazioni. Qualsiasi tipo di motivazione deve essere semplicemente accettato e rispettato, senza fare troppi commenti. Sono cose che appartengono alla vita di quella persona, e a lei esclusivamente.

Questa cosa che sto scrivendo non è quindi fatta assolutamente per chiedergli di ripensarci e di continuare, ammesso e non concesso che mi legga. A dire il vero, non so neppure se ancora mi considera non dico un amico, ma un conoscente, un “qualcuno”. A rigore potrebbe anche considerarmi un idiota, un pezzo di merda e anche di peggio. Non lo so, e va bene così. Va bene anche che abbia deciso di chiudere il suo blog, che pure ritenevo e ritengo un gioiello nascosto tra i quintali di troiai, di facebuccate, di reti “sociali” che di sociale avrebbero bisogno solo dell'assistenza, di puttanate consimilari. Va bene perché, in definitiva, lo capisco benissimo. Allontanarsi dalla rete e dal consesso degli “umani” che vi stazionano è attualmente un atto di sanità mentale e di libertà, e me ne sto accorgendo sulla mia pelle pur continuando imperterrito a mandare avanti 'sto blog in perfetta e volontaria solitudine.

Non la sto scrivendo, questa cosa, neppure per scemenze dell'undicesima ora, tipo “ringraziamenti”, o sviolinate, o panegirici. Conoscendo la persona in questione, credo che se li friggerebbe in padella, i ringraziamenti. Oltretutto rassomiglierebbe a un necrologio; e non è morto nessuno. E' soltanto un blog che chiude, come ne chiudono probabilmente migliaia al giorno. Quel che vi è stato scritto resta, a meno che il suo autore non decida di eliminarlo con un clic. Se non lo farà, ogni tanto mi andrò a rileggere quel che ha scritto.

E non la sto scrivendo, questa cosa, nemmeno per rispondergli, per “controbattere”. Ho smesso definitivamente di dialogare in rete con chicchessia. E poi non c'è niente da controbattere. Credo che, in fondo, l'autore del blog sia arrivato alle mie stesse conclusioni. Siamo arrivati ad un punto in cui, per aprire veramente le porte, bisogna aprire quelle di casa e chiudere a doppia mandata quelle in rete. In cui è la chiusura che, paradossalmente ma neanche troppo, dà una vera boccata d'aria fresca, alla propria mente e al proprio modo di relazionarsi con il mondo e con gli altri; mentre ogni tipo di falsa apertura che viene proposta -mi pregio di ricordarlo- soltanto per far fare soldi al signor Zuckerberg sfruttando milioni e milioni di solitudini e di alienazioni, puzza sempre più di marcio.

Non voglio quindi neanche “salutare” quella persona. Ci saluteremo, se ci andrà, un giorno qualsiasi con un telefono o con un incontro. O, forse, non ci vedremo mai più e ci si ricorderà con un sorriso o con un vaffanculo (e magari con entrambe le cose) nelle pieghe del pensiero. Per quel che mi riguarda, io vado avanti con questo blog rigorosamente blindato; e che, come tale e per quanto sopra, è quanto di più veramente aperto, spalancato, ventoso possa esistere. Come testimonia il signor Arturo, uno sconosciuto che qualche sera fa mi ha preso alla lettera con un'azione elementare: mi ha telefonato per esprimere un suo parere su una cosa che avevo scritto. Ho sentito una voce, e spero di risentirla. Non ho nessuna intenzione di esagerare, ma ho preso quella telefonata come il segno d'una specie di piccola ma decisiva rivoluzione; e non ci sarà nessun “ultimo post” qui dentro.

Nessuna bandiera da ammainare, ché le bandiere da qui sono state eliminate. Nessuno Snoopy che piange, ché anzi, al giornalaio della stazione centrale, ho trovato una paccata di vecchi Linus in vendita a due euri a coppia e me li sto saccheggiando ogni venerdì sera quando vo a prendere la Dani. Nessun congedo: ho deciso di congedare io un bel po' di spazzatura. Hinaus mit diesem Plunder. E al blog che chiude, e al suo autore, dico solo che erano un discreto deodorante. Dev'essere finita la bomboletta. Succede. Mi mancherà, senz'altro. Magari, chissà, in fondo c'è il buco per ricaricarla, per andare verso i massimi inizi che a volte riescono a nascere dai minimi termini.

martedì 24 febbraio 2009

Una storia di strade


Credo che a volte qualcosa guidi in certi luoghi, e cosa sia non so dirlo esattamente. Non voglio neanche dirlo, non credo ne sarei capace; e, forse, mi lascerei andare a considerazioni assai campate in aria.

Mi atterrò quindi ai fatti. A dieci minuti da casa mia c'è l'antichissima abbazia di Badia a Settimo. Dico proprio dieci minuti, nella piana di Scandicci, arrivandoci -come mi piace- non per le strade principali, per i vialoni anonimi di recente costruzione, ma per le viuzze traverse della campagna. In fondo a via dell'Argingrosso, quando diventa anch'essa una stradetta in mezzo ai campi, si tira per Ugnano. Sono strade che esistono fin dalla notte dei tempi, e hanno nomi solenni e semplici: via del Tabernacolo, via del Donicato (dal latino Dominicatum “proprietà di un nobile signore”), via di Fagna, via del Pellicino (probabilmente il soprannome di un contadino). Bisogna conoscerle bene per non perdervisi; io campo ancora sulle mie esplorazioni ciclistiche, quando avevo diciannove o vent'anni e mi partivo da lontanissimo. Dagli antipodi della città, dov'ero nato e abitavo, a due passi da una piccola strada dedicata a Dino Campana. Una strada del tutto insignificante, senza uscita, un piccolo cul-de-sac. “Via Dino Campana – Poeta”, dice tuttora la targa stradale; e siccome quella strada era sul percorso che tutti i giorni facevo per andare a scuola, fin da bambino mi chiedevo chi fosse quel Campana poeta. L'ho appreso molto più tardi.

Sabato scorso Daniela ed io abbiamo deciso di andare a fare un giro. Le campagne attorno a casa mia sono ricche di pievi molto antiche: già a Mantignano e Ugnano ve ne sono tre. Prima siamo capitati a San Colombano a Settimo, dove siamo rimasti per un po' al tramonto, su una panchina, forse disturbando un po' una giovane donna che leggeva la Bibbia e che se n'è andata palesemente scocciata dal nostro cinguettìo da coppietta; ciò le ha valso da parte nostra qualche battutaccia leggermente blasfema (del tipo: “Ora a febbraio legge l'Esodo; a fine agosto, il Controesodo”); poi ce ne siamo andati, decidendo d'impelagarci nel dedalo di stradette là attorno. Ce n'è una che si chiama Via di Porto, dritta all'ingresso della pieve, tra un filare di cipressi. Sono zone, quelle piane là, che sono state pesantemente violentate dall'espansione della città, dall'industrializzazione, dalla “nuova viabilità” che in certi casi ha interrotto una rete stradale millenaria; ma riescono ancora ad avere un fascino indicibile.

Mi sono letteralmente lasciato andare. Le mie conoscenze terminano a Ugnano, e non mi ero mai spinto in quei posti, pur vicinissimi a casa. Mi sono lasciato letteralmente guidare dall'istinto, confidando sul senso dell'orientamento che ho innato. Ad un certo punto, invece, mi sono smarrito. Impegnato nello spiegare che San Colombano, o San Columba, era un monaco irlandese che nel V secolo s'era gettato dalla sua isola (che aveva preservato la cultura occidentale) nell'Europa e nell'Italia buia dell'altissimo medioevo per fondare ovunque pievi e monasteri (ed è per questo che dei “San Colombano” si trovano sia al Lambro che a Scandicci), mi sono ritrovato in un posto fantasmagorico. Una specie di foresta alla mia destra, tra il lusco e il brusco delle cinque e mezzo del pomeriggio, e un campanile la cui sommità in mattoni rossi svettava nel cielo nuvoloso.

La Badia a Settimo, o meglio, l'abbazia di San Salvatore e San Lorenzo a Settimo. Ci siamo messi a cercarne l'ingresso e l'abbiamo trovato. Una specie di fortezza in mezzo alla campagna, una cittadella a sette miglia dalla città quando la città doveva essere ancora bambina. Io e Daniela siamo rimasti letteralmente senza parole. Siamo entrati piano nella chiesa, che era aperta, sbalorditi da quel posto a pochi minuti da casa mia. Non vi avevo mai messo piede prima. Stava per chiudere, ma un avviso diceva che la domenica, dalle 15 alle 18, si poteva visitare tutto il complesso abbaziale addirittura con una guida.

Il bello è che, tornando a casa, e attraversando il borgo semideserto di Badia a Settimo dove l'unica cosa aperta era una Casa del Popolo (ultimo sparuto baluardo della classe operaia), mi sono ritrovato all'improvviso di nuovo in strade dai nomi noti; dall'altra parte di via del Pellicino, passato l'incrocio con via dello Scalo di Peino che è l'ultimissima strada del comune di Firenze, o la prima per chi vi torna. Siamo tornati come per incanto a Ugnano, e poi di nuovo a casa con l'intenzione di tornare il giorno dopo alla Badia a Settimo; cosa che abbiamo fatto.

Domenica è bastato, da Ugnano, fare il percorso all'inverso. Quelle stradette, quelle viuzze, aiutano la memoria in un modo assolutamente incredibile. Quanto i vialoni imbecilli che le hanno tagliate come mannaie sono tutti cretinamente uguali coi loro nomi standardizzati, tanto quelle piccole strade tortuose che seguono l'andamento dei campi hanno ad ogni centimetro un particolare che permette di fissare il cammino senza più nessun timore di sbagliarsi. Siamo entrati nell'abbazia ancora alle cinque del pomeriggio, dalla chiesa, chiedendo a un tizio se si poteva ancora fare la visita guidata; ci siamo ritrovati in un chiostro meraviglioso, ma tagliato a metà da un muro. Una parte dell'abbazia è attualmente una parrocchia; l'altra parte è, state un po' a sentire, “proprietà privata”. Risale tutto allo smembramento dei beni ecclesiastici eseguito dal granduca Pietro Leopoldo; cosicché, ancora adesso, una consistente parte di quel tesoro è in mano ad un privato cittadino che la sta facendo tranquillamente andare alla malora. La parte parrocchiale è stata accuratamente restaurata (soprattutto perché, minata durante la II guerra mondiale dai tedeschi che non volevano che il campanile fungesse da punto di osservazione su tutta la piana, aveva riportato danni enormi); quella “privata”, quella al di là del muro, sta cadendo in rovina. Effetti strabilianti della proprietà privata; molto meglio quella ecclesiastica. E se lo dico io!

Ci siamo fiondati sulla guida che stava terminando il giro proprio in chiesa. Le prime parole che abbiamo udito sono state: “...là c'è la tomba di Dino Campana”. Daniela può testimoniare della mia espressione a quelle parole. La tomba di Dino Campana. E dire che il giorno prima, quando pur sempre un giro della chiesa lo avevamo fatto, non c'eravamo assolutamente accorti di nulla. Forse distratti, comprensibilmente, dal quadro del Ghirlandaio; forse perché, semplicemente, non lo sapevamo. Ci siamo avvicinati. Ricordando persino alla guida che conoscevamo un giovane cantautore che sulle poesie di Campana aveva scritto un intero album. Mi è venuto da sorridere, di quei sorrisi che si hanno quando in un qualche modo si sente d'aver chiuso inconsapevolmente un cerchio iniziato, altrettanto inconsapevolmente, da bambino. Seguendo sempre strade quasi alla cieca, ma che non si può fare a meno di pensare che nascondano un percorso, e in quel percorso una sorta di disegno.

Dopo la tomba di Campana abbiamo potuto visitare tutto il resto dell'abbazia, o meglio tutto il resto di ciò che può essere visitato. Le prigioni abbaziali, perché la cittadella era autosufficiente anche riguardo alla galera. Il refettorio riservato, con i busti lignei di nobili fanciulle. La cripta del VIII secolo, ovvero il primitivo nucleo dell'abbazia, con le colonne romane; uno di quei posti che metterebbero i brividi soltanto al pensiero, e figurarsi un po' ritrovarcisi dentro. Per uno come me, poi, che se potesse lascerebbe ogni cosa e questo tempo idiota e si trasferirebbe armi e bagagli nel Medioevo, quello vero, quello che gli è caro da sempre.

E Dino Campana, che là riposa per sempre. Che la bellezza, che non ha potuto avere nella sua vita tragica, lo accompagni per sempre in quel posto meraviglioso dove le strade, in un fine settimana mezzo assolato e mezzo brumoso di febbraio, mi hanno guidato in questa storia che qui si chiude.

Nella foto: la tomba di Dino Campana nella Badia a Settimo.



lunedì 23 febbraio 2009

Una bottiglia di orzata



Ora che sono passati gli anniversari, della morte e della nascita, vorrei dare il benvenuto a Fabrizio in questo posto del tutto defilato. Chiedendogli magari scusa per avere, in questi anni, parlato e straparlato di lui in altri luoghi, facendo quasi a gara, trattandolo a volte come una specie di oggetto di studio ed altre prendendolo come pretesto per raccontare storie e vendere a gratis la mia vita, i miei fatti, le mie fantasie. In quei luoghi “virtuali” la mia frase preferita era: attraverso le sue canzoni, Fabrizio ha raccontato la vita di tutti. Non è vero. Le canzoni di Fabrizio sono soltanto sue, come sua è la vita che c'è dentro. Io, come gli altri, sono un illuso che non sa scrivere canzoni. Punto e basta. L'unica cosa da fare è continuare ad ascoltarle, quelle canzoni, senza nessun obbligo di quotidianità e senza più nessuna voglia di infiorettarci sopra. Se si ha voglia di raccontare la propria vita, lo si faccia senza pretesti, senza delegare ad altri la fornitura del tema.

Così, una mattina qualsiasi al di fuori degli anniversari e delle celebrazioni, basta fare dei gesti semplicissimi, quasi dimenticati in tutti questi anni di furore giaculatorio mal terminato. Alzarsi, andare a prendere un cd o un qualsiasi altro supporto musicale, anche di quelli oramai sorpassati, e infilarlo in un apparecchio per la riproduzione del suono. Questi apparecchi, ora, sono perfezionati; fanno ricordare quando non lo erano. Quando si doveva ascoltare dei gracchi sul mangianastri, quando le bobine si spezzavano, quando sentire una canzone era solo per fissarsi dentro le parole e la melodia. Poi si cantava, da soli; mentalmente o a voce più o meno alta. Succedeva addirittura che una data canzone, la prima volta, non la si ascoltasse nemmeno da un disco o da una cassetta, ma da qualcun altro che la cantava; poi si cercava di procurarsela, in qualche modo. Non sempre ci si riusciva. A volte passava del tempo, ma quando finalmente la si poteva ascoltare dalla voce del legittimo titolare, era già conosciuta, già una cosa propria.

Oggi non ho più la minima voglia, e penso che non la avrò molto a lungo, di fare o farmi domande, di cercare o esigere risposte, di sviscerare questo o quel significato palese o recondito. Facendolo per anni ho paura di aver perso di vista il nucleo di tutto quanto. Così mi prendo, ad esempio, “Bocca di Rosa”, e la smetto di farne un blob di “spunti”; mi ascolto per la milionesima volta quella storia, mi lascio portare dalla musica e dalle parole, la canto o canticchio assieme a Fabrizio e basta. Alla fin fine, faccio quel che avrei dovuto sempre fare. Non mi pongo più il problema se Fabrizio sia “morto” o “vivo”, ché tanto moriamo tutti quanti. Ha avuto in sorte di vivere in un tempo dove la sua voce e le sue canzoni hanno potuto essere registrate, incise, riprodotte, moltiplicate con mezzi sempre più sofisticati; ha vissuto la sua vita e potrà essere ascoltato, da chi lo vorrà, per sempre.

Non rinnego, e non potrei mai farlo, di averlo preso per un certo periodo come una specie di “compagno di strada” che in realtà non è mai stato. Le strade di ognuno sono separate. Non esiste una strada buona o cattiva, esiste soltanto la strada; e se, per caso, qualche tratto sembra coincidere è appunto soltanto un caso, una coincidenza. Gli incontri per strada sono fuggevoli, anche se ci si lascia prendere a volte da facili entusiasmi. Dopo un po' ci si accorge che quel che sembravano comunanze, sono miraggi. Quel che sembravano unisoni, sono dissonanze. Quel che sembravano vicinanze, sono allontanamenti. Non c'è nemmeno da porsi il problema se ne sia valsa la pena o meno; qualcosa resta sempre. Ci si ragiona un po' sopra, si fanno sorrisi e si stringono i pugni, e poi ci si alza e si va a mettere su una canzone.

Naturalmente, il “benvenuto a Fabrizio” che apre questa cosa è soltanto un (peraltro banale) artificio retorico. Fabrizio non sarebbe mai entrato qui dentro neppure se fosse stato ancora vivo. Era solo un modo per dire che non mi scordo delle sue canzoni, nella solitudine di una mattina qualsiasi; non me ne scordo e continuo ad ascoltarle senza più sovrastrutture, liberandole da ogni altra cosa. Ho purtroppo il timore che, a forza di parlare di Fabrizio de André, prima o poi si dimentichi che ha scritto delle canzoni, e che le ha addirittura cantate. A costo di essere preso per matto (ma senza cercare di imparare Wikipedia a memoria, ché oramai la Treccani nessuno sa più che cosa sia), se mi piglia la voglia canto “La domenica delle salme”, “Coda di lupo”, il “Pescatore” e persino “E fu la notte” in coda alla cassa del supermercato, in macchina da solo, nell'intervallo fra il primo e il secondo tempo della partita; quante cazzate ho scritto, e per scriverle quante canzoni mi sono perso. Quante domeniche a fabbricare salme; ora basta. Anche se fa ancora freddo e il sole è pallido, mi voglio mettere sulla porta di casa, mentre abbaia un cane, spettinato. Mi piacerebbe averci una bottiglia di orzata da stappare, ma senza brindisi a nessuna salute. Solo per godersela e cantare; e se si affacciano dei pensieri, che con certe canzoni arrivano sempre, tenerseli.


venerdì 20 febbraio 2009

L'estate del 1973



La strada per andare in paese era ancora tutta sterrata, e polverosa; non aveva ancora nemmeno un nome, quello di “via delle Ginestre” che ha ancora glielo dettero anni dopo, quando l'asfaltarono e ci misero dei lampioni. Già, perché era anche completamente buia, di notte; ma, tanto, chi se ne importava. Io, di notte, a giro non potevo andarci. Avevo dieci anni.

Un ragazzino altissimo e grosso, goffo, impacciato, vestito sempre in pantaloncini e magliettacce da pochi soldi; abitudine che ha mantenuto imperterrito. Fuori, di notte, ci andava mio fratello, che era già un ragazzo grande; era l'estate dei suoi diciott'anni. Lui, invece, allora come ora, era magrissimo, così scheletrito da essere chiamato affettuosamente Biafra persino in famiglia. Non c'era il telefono. C'era una televisione con lo stabilizzatore, quella scatola pesantissima che si accendeva con una levetta per evitare che l'apparecchio avesse sbalzi di corrente e pigliasse fuoco; faceva, all'accensione, un rumore d'inferno, un ronzio che ho ancora nelle orecchie.

Era l'estate del 1973, e non aveva nulla di particolare. S'era tutti all'Elba, e come in ogni estate avrà pur fatto qualche giorno brutto; ma non mi ricordo altro che sole, sole a picco, e la vecchia 850 beige di mio padre che si arroventava. Mio padre si godeva ancora un anno di ferie forzate: l'anno prima, sempre all'Elba, mentre era a pescare con la canna sugli scogli a Marciana Marina aveva messo un piede in fallo e la gamba gli si era letteralmente stritolata tra due massi. Uno sculo veramente della madonna, pover'uomo. Frattura esposta di tibia e perone. E' morto , venticinqu'anni dopo, con ancora nella gamba sinistra una sbarra di ferro con delle viti che gli avevano messo all'IOT di Firenze; la si vedeva nelle radiografie.

Si era nei primi anni '70, ma mica nessuno se ne rendeva conto. Era tutto normale. Le cabine della spiaggia di Marina di campo erano piene di falci e martelli, fasci littori, w il Duce, camerati al rogo. Mio fratello aveva un sacco di amiche e amici, venivano a casa, uscivano e tornavano a mattina; si divertiva, usciva, e io cominciavo impercettibilmente a invidiarlo. A invidiare la libertà di far quello che si vuole. Io ero piccolo. Dovevo stare sempre appresso ai genitori. Al massimo qualche passeggiata o una corsa nei campi lì attorno. La famiglia accanto erano dei siciliani, padre madre e cinque tra fratelli e sorelle di cui quattro erano già grandi, anche più di mio fratello. Il quinto era un ragazzino della mie età, ma stava per conto suo. Io dovevo sorbirmi tutto. Le visite ai parenti, in primis. Però ancora c'era l'abitudine delle spiaggiate, e quelle erano il mio paradiso in terra.

Stipati in macchina, a volte costretti a far due viaggi per portare prima la gente e poi la roba; ci si sistemava a Cavoli o a Fetovaia, con gli ombrelloni e un quintale e mezzo di roba da mangiare. Io stavo sempre in acqua. L'acqua del 1973 all'Isola d'Elba non ve la potete nemmeno immaginare. In dei posti sembra cristallo ancora oggi. Mio padre si prendeva le pinne e la maschera e andava sott'acqua; a me non me ne è mai importato niente. Sapevo nuotare benino, però. In mare mi scompariva la goffaggine. Quando mi stancavo facevo il “morto” divertendomi a emettere suoni a bocca chiusa che, nelle orecchie a fior d'acqua, sembravano strani richiami cosmici modulati. E' una cosa che faccio sempre. Quando, quest'estate, mi butterò in mare per il primo bagno della stagione a quasi 46 anni, lo farò. E l'anno dopo, e quello dopo ancora.

Di amici e amiche non ne avevo, a parte mia cugina Rosalba. Ma era anche lei già grande, anche se con me ci stava volentieri. In quegli anni c'era qualcuno, all'Elba, che sognava l'indipendenza; e a noi ci piaceva fantasticarci sopra, immaginando Portoferraio capitale, le targhe automobilistiche con le sigle dei paesi, sbellicandoci dalle risate quando corrispondevano a quelle italiane esistenti.: MC = Marina di Campo. MN = Marciana. PR = Portoferraio. CA = Capoliveri. PA = Porto Azzurro.

Tutti vivi erano ancora. La radiolina in casa sempre accesa, musica e musica. Mio fratello però aveva il mangianastri a cassette, e in casa le canzonette si alternavano a De André, ai Led Zeppelin, al progressive. “Leva quei troiai!”, gli urlavano mia madre e mia zia che volevano Celentano, Claudio Villa e roba del genere. Mio padre scuoteva il capo quando passava in radio Alan Sorrenti. Con mia cugina avevamo due passioni brucianti: Drupi e Riccardo Cocciante, ebbene sì. Quello senza la “S”. Lui non lo sa, ma quando mi sono fabbricato l' “alter ego” parodiatore sulle "Canzoni Contro la Guerra" avevo in testa anche l'estate del 1973. Quell'estate dove cominciai anche a fare parole crociate a chili interi, cercando d'andare dietro a mio padre che era bravissimo. Mi dava sempre consigli e si faceva le gare, ma ebbe ad accorgersi presto che la cosa gli stava sfuggendo dalle mani quando gli “Incroci obbligati” del numero 2161 glieli risolsi dandogli un distacco di cinque minuti e sventolandogli la rivista sul muso. E' per questo che ancora adesso mi ricordo persino gli attori e le attrici in copertina sulle Settimane Enigmistiche di quell'estate, che sul n° 2156 c'era Kaz Garas e sul n° 2162 Robert Mitchum.

In mare giocavo a palla da solo, e lo faccio ancora quando ne ho la possibilità. Le parole crociate le faccio non più a chili, ma a quintali; e negli occhi ho sempre le stesse cose. Il portico di casa mia. Tutte le persone che vi sono passate, e ne sono rimaste poche poche. L'850 aveva il motore posteriore, e dalla griglia sortiva un odore di benzina che adoravo; a volte ci infilavo il naso per sentirlo. Polvere e sole, sole e ragnatele nel magazzino. C'erano gli interruttori vecchi, nel magazzino, ed ero affascinato da quelle levette, dai fili intrecciati, dalle lampadine avite. E dall'odore delle botti misto a quello degli agli e delle cipolle. Faceva ombra un glicine che tirarono giù anni dopo.

Non c'era mai acqua, e proprio in quell'estate fu costruito il pozzo. Il venticinque agosto ebbi una cuginetta nata morta. Era stata chiamata Irene; tanti anni dopo scoprii che il suo nome significa “pace”. Il giorno del suo funerale, a San Piero, me lo ricordo come fosse ieri. E' anche l'unico giorno di quell'estate di cui mi rammenti che era nuvoloso, che minacciava pioggia; musica e polvere. Musica e la televisione, l'undici di settembre, sul finire della stagione, accesa in continuazione a seguire cosa stava succedendo in Cile. Mio fratello e mio padre con la testa fra le mani a dire “maledetti, maledetti”. Ma io ero piccolo. Non s'immagina mai quante delle cose vissute da piccoli ci si portino dietro, e per sempre. E quante delle cose che non si sono potute vivere le si siano poi cercate, spesso illudendosi amaramente. Quanti miti ci siamo creati. Fanno parte di tutti noi, e li riproduciamo all'infinito, anche nelle pieghe della nostra vita.

In quel portico, in quei campi e in quelle spiagge ci vado ancora. A volte non soltanto mi rivedo bambino, ma mi metto a parlare con me stesso. Sono colloqui che non racconterò mai perché non mi riuscirebbe farlo. Ci facciamo domande e ci diamo, non sempre, delle risposte. Spesso ci accompagniamo in silenzio ed entriamo in mare. Ci mettiamo a fare il “morto” coi rumori nelle orecchie semisommerse, e ci teniamo per mano. Lui mi racconta di cosa farà e io gli racconto di cosa ho fatto; ma senza fare troppi commenti. Meglio abbandonarsi alle onde, ché le onde sanno sempre non solo dove portare, ma anche dove aver portato.

In quell'estate, mio fratello s'era portato dietro, tra le sue cassette stereo, una delle “Orme”. Si chiamava “Uomo di pezza” ed era l'unica cosa in cui s'andava d'accordo. Un diciottenne non può andare d'accordo con un bambino di dieci anni. Sono due universi distinti e inconciliabili. Di quando si ha dieci anni ci si ricorda a quarantasei, non a diciotto anni. A diciotto anni ci si gode uscire di notte compiangendo il fratellino che avrà visto un po' di televisione, avrà fatto le parole crociate e poi sarà stato costretto a andare a letto dalla mamma e dal babbo.

S'andava d'accordo perché c'era questa canzone qui, che si chiama "Gioco di bimba" e che cantavamo tutti i giorni, ma dico tutti. Stasera m'è tornata a mente, all'improvviso. Non so, forse sarà un qualche disegno sconosciuto; ed è bene non calpestare troppo i misteri, è bene non razionalizzarli eccessivamente. Dall'estate del 1973 approda quindi a questo blog, coi suoi sogni e le sue realtà mescolate al cammino fatto ed a quello ancora da fare. La spediamo in due, io a dieci anni ed io a quarantasei. Nel gioco di bimba, dice la canzone, si perde una donna; e nei giochi di un bimbo si ritrova certe sere un uomo. La ascoltiamo insieme, in silenzio, e ve la facciamo ascoltare lanciando manciate di polvere, e schizzi d'acqua, e raggi di sole.

Riccardo Venturi, anni 10
Riccardo Venturi, anni 46.

giovedì 19 febbraio 2009

Ronde, rondini




Duro inverno, questo; freddo, nevoso, lungo. Esistono dei popoli la cui storia è stata tutta un inverno, senza soluzione di continuità; e il popolo rumeno è uno di questi. Ma, forse, sarebbe meglio parlare di tutte le genti che vivono in quell'area chiamata “Balcani”: un territorio aspro che ha saputo dare all'umanità tutto e il contrario di tutto. Dalle crudeltà più infinite alla grandezza di poeti sconosciuti, perché sconosciute ai più sono le lingue che vi si parlano. Guerre, pastori, codici di onore, componimenti popolari dove tutto è espresso in poche righe: cattiverie, bassezze, bellezza, amore, slanci, sangue, sogni, realtà. Nei miti dell'eroe serbo Marko Kraljević tradire e picchiare la moglie innamoratissima va di pari passo con le più alte espressioni della solidarietà umana verso i compagni; ma alla moglie, poi, Marko morente dopo la battaglia di Kosovo Polje riserva gli ultimi e più toccanti pensieri. È un mondo dove i miti si formano ancora velocemente; pochi anni dopo l'attentato di Sarajevo del 28 giugno 1914, quando lo studente Gavrilo Princip uccise l'arciduca Francesco Ferdinando dando l'avvio al primo macello mondiale, già i guslari balcanici ci avevano ricamato sopra miti con tanto di angeli, spade, ninfe color madreperla del Danubio (sedefne vile) e persino resurrezioni.

La si dovrebbe conoscere almeno un po', la cultura di quei posti. Aver letto almeno una volta la Mioriţa o il Luceafăr di Mihai Eminescu. Conoscere un paio di canti partigiani bulgari o greci, di quelli dove Lenin combatte assieme agli opliti spartani; o la lettera del quattordicenne condannato a morte dai nazisti a Kessariani, dove persino uno come me riesce a capire che cosa possa essere l'amor di patria (“addio Grecia, madre di tutti gli eroi”; si confronti tale espressione con un quattordicenne italiano attuale, dedito alla Playstation e a mettere su YouTube il filmino del compagno di classe down brutalizzato).

Genti con cui non è mai stato facile trattare. Genti che si sono anche, e spesso, sbudellate fra loro. Tra rumeni e greci, ad esempio, non corre storicamente buon sangue. Ai tempi dell'impero Ottomano, l'amministrazione delle terre valacche era stata affidata dalla Sublime Porta ai greci del quartiere costantinopolitano del Fanar (i Fanarioti, appunto), che si distinsero per la sistematica, scrupolosa, capillare vessazione del territorio e dei suoi abitanti. Quello che dai greci è considerato un eroe dell'indipendenza del 1821, Alexandros Ypsilantis, dai rumeni è considerato un traditore, uno strozzino, un furbastro dedito solo alla spoliazione. Degli zingari non parliamone nemmeno, perché gli zingari sono odiati da tutti; almeno qui si sa come regolarsi. E non parliamo poi di tutti gli incroci, i miscugli e i pot-pourri che queste genti si sono creati: i rumeni sono arrivati fino all'Istria (ancora nel XX secolo c'erano dei villaggi in Istria dove si parlava un dialetto rumeno), ci sono i bulgari in Turchia e i turchi in Bulgaria, c'erano gli shtetl ebraici dove si parlava yiddish, c'era di tutto e ancora in parte c'è. Ci sono ancora gli sbudellamenti, come fanno fede le recenti guerre jugoslave. C'è che noi, dalle nostre belle parti, ancora non ci avevamo avuto troppo a che fare. Posti matti, lontani, oscuri. Posti di montagne spaventose e gelide. Non sono bastati i racconti dei nonni che avevano combattuto in Jugoslavia, in Grecia, in Albania, a farcene un'idea. Non sono bastate le fanfaronate del Dvce, che voleva “spezzare le reni”: a quelli lì, le reni non gliele spezza nessuno. Senonché, per quelle fanfaronate sono morte migliaia e migliaia di persone.

Nel XV secolo i rumeni, o meglio i valacchi, si accorsero con stupore di parlare una lingua abbastanza simile all'italiano. Dall'Ungheria rinascimentale, dove peraltro si parla una lingua diversa non solo dall'italiano ma da tutte le altre, erano arrivati dei viaggiatori napoletani, fiorentini, milanesi. Mercanti, perlopiù. La voglia di fare soldi vince anche il timore d'inoltrarsi in terre strane. Figurarsi quando il fiorentino si accorse che, nella lingua dei valacchi, “casa” si dice casă, “uomo” si dice om (ma si pronuncia uom) e “avere” si dice avere nella "forma lunga" (e aveà in quella "breve"). Figurarsi il pastore valacco quando si accorse che lapte si dice “latte”, che carne si dice “carne” e che iarbă si dice “erba”. Un nobile erudito valacco del XVI secolo, che scriveva la sua lingua ancora nel bellissimo alfabeto cirillico paleoslavo, e che in Italia non era mai stato, cominciò ad infiorettarci sopra: nelle città italiane scorrevano latte e miele nelle fontane, il clima era sempre primaverile, le donne tutte bellissime, leggiadre e istruite nelle lettere (e nelle arti dell'amore), i prìncipi erano tutti saggi e generosi, il paesaggio coltivato e rispettato con genialità e cura, e così via. L'Italia: un paradiso in terra. Fu grazie a quei miti, e alle comunanze linguistiche, che il popolo rumeno prese coscienza della propria origine latina; e nella sua storia è un avvenimento di non poco conto. Fino ad allora, il termine rumân aveva voluto dire soltanto “contadino, villano”; quando si accorsero che derivava da Romanus, divenne il nome di tutto un popolo. Nel XIX secolo, quando sotto la spinta culturale del romanticismo si volle abbandonare l'alfabeto cirillico per quello latino, fu preso a modello l'alfabeto italiano, a volte con l'esagerazione di alcuni che volevano italianizzare artificialmente la lingua (certuni arrivarono a italianizzarsi il cognome: così nella storia rumena troviamo dei Rosetti e dei Negruzzi). Per un lungo periodo, la Romania intera ebbe una sorta di “febbre” italiana, senza che in Italia se ne sapesse assolutamente nulla.

A questo punto dovrei fare il salto al giorno d'oggi. Ad un popolo che ha vissuto una delle dittature più oscurantiste del XX secolo. Ad un popolo che, prima di essa, ha avuto a che fare con il maresciallo Antonescu (che ha dato al mondo la parola conducător) e con Corneliu Zelea Codreanu, attuale idolo dei giovinotti di via Maruffi. Ad un popolo che, ritrovata la democrazia in mezzo al generale tripudio del vasto mondo, si è poi ritrovato anche povero in canna; ed essere poveri in canna quando trionfa il “mercato” è un bel problema. Allora hanno cominciato a andarsene, da quelle terre senza latte e miele, senza prìncipi saggi e generosi, senza donne leggiadre e colte, senza primavera; e sono arrivati nell'Italia di fine d'un millennio e d'inizio d'un altro. Un paese, notoriamente, dove nelle fontane scorre attualmente anche l'aspartame, oltre che al latte ed al miele. Dove i prìncipi saggi e generosi si chiamano, che so io, Borghezio, La Russa, Calderoli, D'Alema e Casini. Dove donne coltissime e dall'eloquio meraviglioso, come ad esempio Maria de Filippi o Alda d'Eusanio, si esibiscono in pubblico diffondendo l'intelligenza e l'amore pel bello. Dove il paesaggio è coltivato con ancor più cura e genialità, tipo a Punta Perotti. Dove in primavera si è messo persino a nevicare, a volte; tanto ci pensa Emilio Fede a farci il titolo di punta del TG4, quello sulla primavera più fredda degli ultimi 43,6 anni.

Brutta situazione, la fame. Ancor più brutta, non contare nulla. Sentirsi accolti come estranei, quando magari a scuola ti avevano spiegato che l'Italia era un “paese fratello” facendoti leggere il famoso brano di Miron Costin (si chiamava così il nobile erudito del latte e miele). Sentirsi additati come il popolo degli stupratori di ragazzine, quando si sa benissimo che la maggior parte degli stupri, compresi quelli delle ragazzine, in Italia come nel resto del mondo avvengono tra le mura domestiche (ma questo non si può dire in questo santo paese cattolico basato sulla Famiglia). Come un popolo di delinquenti da fare oggetto di leggi speciali, di limitazioni, di pogrom. Senza potere nemmeno incazzarsi e rendere con gli interessi le legnate agli squadristi di Forza Nuova che ti entrano nel bar, perché sennò ci perdi magari quel lavoro da fame che hai. Siamo fatti così: se s'arrabbiano i cinesi, e si ribellano ai soprusi dei vigili meneghini con tanto di bandiere nazionali, console e ambasciatore che fa la voce grossa, ci inchiniamo e chiediamo umilmente scusa perché la Cina è oramai la prima potenza economica mondiale. Se s'arrabbiano i rumeni, “fratelli latini”, ci possiamo permettere di sbeffeggiare anche un presidente o un primo ministro, ché in Romania ci abbiamo impiantato le fabbrichèètte outsourcizzate, ché in Romania ci fanno affaroni gli imprenditori del Nordest i quali magari, ci si trombano tranquillamente pure la tredicenne all'insaputa dell'intoccabile e santa famigliuola lavoratrice, ex-democristiana e ora leghista. Ché la Romania, così come l'Albania, possiamo ora come ora trattarla senza problemi da colonia, pigliandoci i suoi calciatori più bravi, qualche soubrettina, migliaia di lavoratori regolari e al nero, qualche volatore dalle impalcature, qualche bruciato vivo dall'imprenditore lombardo, un esercito di badanti perché nelle sacre famiglie italiane i figli non si occupano più dei genitori vecchi, bavosi, pieni di merda e di decubiti, e un uguale esercito di puttane, ragazze che volevano magari il latte e il miele, e la primavera e che invece hanno avuto non soltanto lo sfruttamento, ma anche le perversioni notturne del tizio che, al mattino, le vorrebbe tutte al muro, schedate, espulse.

Hanno avuto i progetti di “ronde”, quelle fatte dai bravi cittadini che sorvegliano il territorio. Le ronde invece delle rondini. Ci vorrebbe un nuovo Rembrandt, per ritrarre, invece della compagnia del capitano Frans Banning Cocq, la compagnia dello sciùr Mazzacurati in camicia verde o der sor Projetti in camicia nera alla ricerca del fratello valacco stupratorizzabile che dorme sotto un ponte a Quarto Oggiaro o in una baracca nella pineta di Castelfusano (dalla quale lo scaccerà il borgomastro in persona), o della sorella valacca disprezzata persino dalla vecchia cui amorevolmente medica la piaga puzzolente, e che alla televisione ha sentito che i rumeni altro non sanno fare che violentare le bambine.

venerdì 13 febbraio 2009

Mazzola e Rivera


Annunzio bobbis godìum magnum: ce l'ho fatta. Chiederò (forse) l'iscrizione documentata nel “Guinness dei primati”. Credo infatti di essere l'unico in Italia, almeno negli ultimi mesi, a non aver detto e/o scritto nemmeno una parola per sbaglio sulla nota vicenda di una signora in coma neurovegetativo da 17 anni eccetera. Non perché me ne sia volutamente disinteressato, non perché non provi dei sentimenti verso tale vicenda; tutt'altro. Solo che ho sentito il possente imperativo, in mezzo a giornali, politicanti, parlamenti, pizzicagnoli, parrucchieri, bar, blogghi, feisbucchi, niusgruppi, forum, sondaggi, listarelle e chi più ne ha, più ne metta, di farmi i cazzi miei. E continuo a farmeli. Inutile chiamarsi Rete Asociale se non si ha, venuto il momento, la capacità di farseli sul serio, 'sti famosi cazzi propri. Sono quindi moderatamente contento di me stesso.

Sarà forse, chissà, anche perché di persone nelle medesime condizioni di quella persona mi è capitato di vederne diverse. Diverse, dico; non parecchie. Mi è capitato di doverle trasportare, e pesano tanto. Anche se ridotto a un cumulo di ossa in posizioni strane, è difficile immaginarsi quanto pesi un corpo che non può aggrapparsi, disporsi, muoversi. In alcuni dei posti dove ho dovuto, assieme ad altri, spostarle, non c'era nemmeno un ascensore.

Mi è capitato, anche più spesso, di dover rimuovere dei cadaveri; vale a dire persone ufficialmente morte, certificate non più in vita. Dal punto di vista della problematica di trasporto, sono più facili. Non hanno con sé nessuna apparecchiatura elettromedicale attaccata. Quando c'è da trasportare un vivo in condizione di cadavere, la vita -o comunque la si voglia chiamare- è attaccata a quegli apparecchi. Bisogna fare un'attenzione estrema. Metti di inciampare in un filo e di staccare la macchinetta X: sono casini grossi. Minimo ti becchi un procedimento per omicidio colposo. Minimo pensi: ma chi te lo fa fare.

Quindi mi sono fatto gli affari miei, nel modo più totale e programmatico. Cercando di non ostentarlo, peraltro. L'ostentazione parla. Non ho voluto che parlasse neppure lei. L'ho presa, una volta tanto, come semplice questione di rispetto. Quello che provo nei confronti dei vivi e dei morti. Il mio è un rispetto, come dire, contadino; di quella fatta da stradine di campagna, quando passava un trasporto e gli uomini si toglievano il cappello sebbene non sapessero nemmeno chi fosse il morto. Sia detto da uno che non ha mai portato un cappello in vita sua.

E' lo stesso rispetto che mi impone di non fare parola di tutto il teatrino che si è sviluppato attorno a questa faccenda. In questo paese dove, in tempi migliori, esistevano sessanta milioni di commissari tecnici della nazionale di calcio. Ora esistono sessanta milioni di giudicatori sulla vita e sulla morte, perdipiù con i mezzi per esprimerlo o sputarlo in forma permanente e archiviabile. Rimpiango le discussioni su Mazzola e Rivera.

Sessanta milioni meno uno. Rivendico questa mia esclusione. Me la prendo e me la tengo. Un pensiero va al personale di quell'ambulanza che ha dovuto fare il trasferimento, e che conosce bene quanto ho detto prima. Un pensiero va anche oltre, discretamente oltre, ma lo esprimerò in forma del tutto mia. Il viaggio verso il nulla era già stato compiuto. Buon viaggio verso l'infinito. E se toccasse a me, fate quel che volete, ché non lascerò nessun “testamento”. Sai che accidenti me ne fregherà. Chiedo solo scusa in anticipo a chi mi dovrà eventualmente trasportare, perché durerà una gran fatica.


mercoledì 11 febbraio 2009

Antifascismo


Un post assai impegnato, cazzarola; ma oggi è una giornata particolare. Ho cambiato tequila. Mi sono rotto della Sauza e mi sono letteralmente svenato con una bottiglia di Herradura. Nella foto sopra si vede la sagoma delle mie dita; ma, giuro, stavano solo reggendo la macchinetta fotografica e non facevano il simbolo della P38. Forse.

Mi piacerebbe poter dire a testa alta: Sono antifascista. Mi piacerebbe, perché probabilmente, in qualche atto della mia vita, piccolo o grande, anche io mi sono comportato da fascista. Anche io, ad esempio, avrò obbligato a dire, tanto per tornare al caro vecchio Roland Barthes. Ne ho piena coscienza, perché la sopraffazione, per tutti, è cosa quotidiana; tante volte la si subisce quante la si impone. Mi piacerebbe, quindi, essere un antifascista che, coscientemente, in ogni occasione, sa rifiutare i comportamenti da fascista. Non sempre è riuscito, non sempre mi riesce; e per questo non esiste scusante.

Ma arrivano dei momenti in cui rendersene conto diventa come uno stacco necessario, in cui si ha voglia di impegnarsi maggiormente su questo fronte. Lasciando perdere le definizioni e guardando con occhio ponderatamente critico il passato. Buttando via l'inutile e il dannoso, e tenendo l'utile e il giovevole. Almeno provarci finché si è in tempo. Ci sono stati dei periodi in cui mi ero quasi deciso a buttare via persino l'antifascismo; ne sentivo di tutti i colori, e non tanto da chi antifascista non lo è o non lo sarebbe comunque. Ne sentivo soprattutto da chi, a rigore, doveva essere pienamente antifascista. A queste persone non stava bene nessun “tipo” di antifascismo, ideale o militante che fosse. Ne ho ricevuto un po' di confusione in testa, e giuro che non è la cosa che più mi occorre. Provo un estremo bisogno, invece, di semplificare. Di sgomberare il campo da alcuni grovigli.

Quelli che l'antifascismo è diventata una parola vuota. Quelli che l'antifascismo è un comodo sistema per mascherare il proprio nulla. Quelli che l'antifascismo è un bla bla bla. Quelli che l'antifascismo è una cosa sorpassata alla luce dei nuovi sviluppi. Quelli che l'antifascismo giusto è soltanto il loro. Quelli che l'antifascismo non è porsi la questione correttamente. Quelli che l'antifascismo è il peggior prodotto del fascismo. Quelli che l'antifascismo è soltanto una fighettata da inutili manifestazioni di piazza con le bandiere, la musica e i megafoni. Quelli che l'antifascismo è abbandonare ogni cosa e cercare un buen retiro. Quelli che l'antifascismo è la loro generazione (vittoriosa, sconfitta, incarcerata, stroncata, sopravvissuta, eccetera). Quelli che l'antifascismo si fa dentro al parlamento con gli “strumenti della democrazia”. Quelli che l'antifascismo si fa fuori dal parlamento “tornando fra le masse”. Quelli che l'antifascismo è andare al concerto della Banda Bassotti, di Guccini, di Pinco Pallino. Quelli che l'antifascismo è infilarsi più o meno acrobaticamente in un qualche fortino telematico da “difendere” con le unghie e con i denti. Quelli che l'antifascismo è analizzare profondamente le cause, le concause, gli effetti, i controeffetti, le esperienze passate e presenti, insomma tutto quel che c'è da analizzare a condizione di essere pochi. Quelli che l'antifascismo è fanculo le maggioranze. Quelli che.

Ho fatto, in forma “iannacciana”, un piccolo campionario di tutto quel che m'è capitato di sentire in questi ultimi anni alla voce “antifascismo”. Non l'ho fatto a fini sarcastici. Sto cominciando sinceramente a odiare il sarcasmo, a detestare la derisione nel profondo del cuore. Molte delle cose che fanno parte del precedente campionario sono sicuramente giuste. Altre sono sbagliate. Così va sempre, è la natura delle cose. Molti di coloro dai quali ho sentito ho letto quelle cose sono sinceri antifascisti; su altri mi si è quantomeno instillato qualche ragionevole dubbio. Ma anche questo è normale. Quel che non è affatto normale è che, in mezzo a tutti queste vibrazioni sulla natura, sui metodi, sulle motivazioni, sulle critiche e sull'analisi dell'antifascismo, il fascismo è tornato in grande stile. E qui non parlo certamente dei comportamenti quotidiani di ognuno di noi; parlo del fascismo, quello politico, quello sociale, quello in camicia nera, quello delle squadracce, quello dei topi di fogna che credevamo tutti cancellati dalla storia, e che invece ora ci ritroviamo più che mai presente. E non sto parlando nemmeno di “governi” o “parlamenti”: sto parlando del fascismo che sa plasmare le opinioni e le coscienze nel senso che desidera. Del fascismo che sa creare consenso. Del fascismo che sa permeare la vita pubblica e privata. Per questo urgerebbe semplificare molto le questioni. Urgerebbe che gli antifascisti tornassero a occuparsi di una cosa elementare: combattere il fascismo.

Ricominciare a dire che l'antifascismo è opporsi al fascismo, in ogni sua forma. Ricominciare a dire che ognuno la pensa come vuole, ma intanto, perbacco, diamoci da fare in tutti i modi possibili. Anche quelli apparentemente inutili. Anche quelli verso i quali si nutrono dubbi, ché a forza di dubbi ci si ritrova indubbiamente al solito impasse che il fascismo adora; un avversario che si blocca da solo è quanto di meglio possa esistere. Il fascismo non ha avuto dubbi, non ha avuto blocchi. Si è creato il terreno fertile, e questo terreno è la palude nel quale gli antifascisti attualmente si ritrovano. Sabbie mobili fatte a volte di disprezzo e sufficienza verso l'altro antifascista.

Pochi giorni fa ero a una manifestazione. Di fronte, un corteo di una sessantina di fascisti -istituzionali e meno- che ricordavano le “loro” foibe. Ci avevano pure lo striscione con scritto “Io non scordo”; quello che scordano molto facilmente sono invece le bombe sui treni, nelle stazioni, nelle piazze durante le manifestazioni sindacali. Di fronte, un paio di centinaia di persone che, a modo loro, manifestavano la loro opposizione. Tra queste persone ho sentito cose giuste e cose non giuste. Ho sentito anche delle sonore cazzate, e se dico sonore è anche perché sono state berciate a un altoparlante. Ma perché dovevamo essere soltanto in duecento, poco più o poco meno? In una città come Firenze? Che cosa hanno fatto tutti quelli che si dicono antifascisti, e che sono rimasti a casa oppure se ne sono andati per i fatti loro? E' antifascista starsene tra quattro mura a leggere o a ascoltare una canzone? E' antifascista fare qualche sorrisetto compiacente, qualche battuta umoristica, qualche cacchio di altra cosa mentre là di fronte ci sono quegli altri? E se invece fossimo stati in due o tremila? Dove eravate? Magari a dare di cretini a quei duecento che l'antifascismo è anche starsene al freddo in una piazza di febbraio per far vedere che ancora c'è qualcuno che non si adatta al fatto compiuto, e che questo suo mancato adattamento vuole urlarglielo in faccia?

Antifascismo, certo, non è solo questo. Antifascismo sono, o sarebbero, mille altre cose. Antifascismo è, o sarebbe, fregarsene dei rimpianti, delle disillusioni, delle melme, dei ditini puntati, dei piedistalli, degli snobismi e/o snobbamenti, delle scontentezze raggelanti e tornare alla presenza. Tornare al numero. Ché il numero spaventa lorsignori. Il numero li fa stare almeno un pochino più fermi. E in questo numero vorrei ricordare che si contano anche parecchi morti. La peggior morte per un morto è essere una lapide in un cimitero. Il miglior ricordo è sentirselo accanto a urlare che non passeranno, né dal viale Milton né sopra le nostre vite. Chi preferisce svanire, svanisca; mi saluti i suoi fantasmi, ma io sono vivo e mi piace stare in mezzo ai vivi. L'antifascismo, in ogni sua forma, è vita. Il fascismo è morte.


sabato 7 febbraio 2009

Io so che un giorno




Oggi alle ore 21, il cantautore Alessio Lega terrà un concerto al circolo anarchico fiorentino di Via dei Conciatori, sordido vicolo nelle vicinanze di piazza Santa Croce. Quello che segue è un commento ad una canzone di un sito che contribuisco a gestire, una canzone di Ivan Della Mea. Lo ripropongo, perché il concerto di Alessio parlerà di "matti", e di un periodo, come ha avuto a dire stasera in occasione di un altro concerto, in cui una massa di persone diceva no a dei lager, a dei campi di concentramento legalizzati chiamati manicomi. Un periodo in cui, ha detto ancora Alessio, questo paese era un po' meno di merda di ora. E a volte fa bene pensarlo.


Il 28 maggio 2006, trovandomi a Brescia in piazza della Loggia (e no, non mi ci trovavo affatto per caso), mi sono messo a parlare con Ivan Della Mea. A un tavolaccio improvvisato in piazza, in un casino di chitarre e bottiglie di vino, mi è sorta dal profondo la classica domanda idiota. Anzi, la madre di tutte le domande idiote. Proprio quella: "Ma senti, Ivan, qual è la tua canzone che ami di più?" M'aspettavo che mi guardasse con quella sua aria là e mi dicesse roba del tipo "Quarantaquattro gatti" oppure "Papaveri e papere". Ben meritato me lo sarei! Invece m'ha anche risposto, e senza nessuna esitazione. "Io so che un giorno". E allora ve ne vorrei parlare un pochino; perché in Italia, anni fa, c'erano i manicomi, e c'erano i matti dentro ai manicomi. Qualcuno lottava perché non esistessero più quei luoghi ancor peggiori della galera, e qualcuno ci scriveva sopra persino delle canzoni per aiutare quella lotta.

A Firenze, prima della soppressione dei manicomi, c'era il vecchio manicomio di San Salvi. E mi è capitato tante volte di entrarci dentro, e spesso di notte, come volontario e autista di autoambulanze. Ho visto cos'è un ottavo padiglione, e la cosa non era per nulla giocosa come nel nome del vecchio gruppo di Bobo Rondelli. Mi è successo di vedere, una notte di luglio che si crepava dal caldo, un infermiere gigantesco, tale Giustarini, massacrare di botte un ricoverato che aveva dato in escandescenze. Sono nomi che non si scordano, perché era arrivato il dottore, in pantaloncini corti e con la sigaretta in bocca, e gli aveva detto, alla lettera, "Giustarini, rimettilo a posto te". E giù cazzotti e calci a quel povero essere umano. Finché il caposquadra dell'ambulanza, Stefano Guidotti (a me i nomi piace sempre farli), non aveva urlato basta, e aveva minacciato di andare alla radio di bordo per chiamare la polizia. Il ricoverato, si chiamava Carlo, era a terra mentre i compagni di stanza, alcuni legati, urlavano e urlavano. Tranne uno che si era cacato addosso e si stava beatamente tirando una sega nella sua merda. Ecco, non so se a qualcuno è mai capitato di sentir dire dalla parrucchiera o dal pizzicagnolo frasi come "Ci rivorrebbero i manicomi, lì almeno li curavano!". Se sentite qualche deficiente dire una frase del genere, raccontategli questa storia, coi nomi e coi cognomi.

"Io so che un giorno", Ivan della Mea l'ha scritta nel 1966. E continua a cantarla, a quanto mi risulta. Anche se i manicomi li hanno chiusi. Forse continua a cantarla perché il manicomio si è semplicemente dilatato, è tutta questa società, tutto questo mondo che è un manicomio. Ma è una canzone che parla di un manicomio dall'immagine "classica", con i camici bianchi, le tendine bianche, i letti bianchi (ho un odio feroce verso il colore bianco, devo proprio dirlo). Ed è una canzone che parla di libertà, della libertà che non si vuol fare più esistere, della libertà che però è un fatto. Magari qualcuno non l'ha mai sentita. Nella sua incisione storica comincia con un motivo popolare di fisarmonica, che poi è la melodia di un'altra canzone di Della Mea, "A quel omm". Poi si sentono dei rumori di martello pneumatico. Sulla melodia propria della canzone, ma senza accompagnamento strumentale, Della Mea comincia a cantare; poi entra una chitarra, e poi un'altra.

C’è da chiedersi se “Io so che un giorno” sia una canzone dal manicomio, o se sia piuttosto una canzone in cui l’immagine del manicomio (un’immagine, come detto, decisamente stilizzata) serve a parlare di qualcosa che va persino oltre. E questo “oltre” si chiama a mio parere repressione. Non serve aver visto com’era fatto per davvero un manicomio per rendersi conto che quello di “Io so che un giorno” è piuttosto ciò che molti s’immaginavano che fosse. Un luogo asettico, dove tutto è bianco; nel testo, Della Mea insiste volutamente con il bianco, sin dall’inizio; la canzone assume quindi un valore “cromatico” che ha una grande importanza, il bianco come nebbia separatrice, come attutimento delle sensazioni e dei rumori, come barriera, come isolamento e quindi, in definitiva, come preciso simbolo di allontanamento coatto, di “campo”, di lager.

Sebbene stilizzata, tale immagine non è del tutto irreale e si basa su criteri che venivano effettivamente adottati nei manicomi. Anche nel più putrido, il bianco (come colore delle pareti, delle tende, delle suppellettili, dei letti) la faceva da padrone. Il bianco doveva separare e doveva soprattutto contribuire ad obnubilare la mente di chi era rinchiuso nel manicomio (scopo del manicomio non era quello di “curare”, ma di contribuire a mantenere la follia, e spesso di indurla in coloro –numerosi- che vi erano costretti dentro senza essere minimamente “matti”). Il manicomio veniva quindi percepito come un luogo “tranquillo” (da qui i tanti nomi sullo stile di “Poggio Sereno”, “Villa la Quiete”, “Loggia Paradiso” –il bianchissimo paradiso come perfetto manicomio, insomma), e la tranquillità è bianca. Si deve opporre, con la sua sorridente, paradisiaca e rassicurante repressione, alla confusione di colori, al violento caleidoscopio con cui viene raffigurata la mente del “matto”. Il mondo della repressione è sempre terribilmente monocromatico. Esiste la repressione nera della polizia, e quella bianca del manicomio. Sono andate spesso e volentieri perfettamente a braccetto. Strumenti dello stesso potere.

Ritengo inutile dilungarmi sul modo in cui l’istituzione “manicomio” è stata utilizzata dal potere per reprimere, e non importa neppure andare all’ovvio esempio stalinista (il manicomio e il gulag sono del tutto intercambiabili). Il manicomio e la galera sono istituzioni del tutto universali, sono strumenti-principe dello stato repressivo. Per la galera non è stato trovato nessun sostituto; per il manicomio, diciamo, si è passati piuttosto ad una dilatazione. Il manicomio “chiuso” (inteso come luogo ben definito di concentramento di persone la cui marginalizzazione era stata sancita in termini “psichiatrici”) è stato sostituito da forme di manicomio “aperto”, dove le barriere fisiche tipiche dei vecchi manicomi (i cancelli, le grate, le inferriate, le cinghie, le camicie di costrizione) sono state sostituite da barriere sociali. Dal manicomio-fortezza si è passati quindi al manicomio-ghetto; ma verrebbe da dire che non c’è proprio nulla di nuovo sotto il sole. Proprio nulla.

“Io so che un giorno” è una canzone che, ambientata in una specie di manicomio di rappresentazione immaginaria collettiva, parla invece del manicomio di classe che l’essere umano deve vivere ogni giorno della sua vita. E’ un manicomio generalizzato dove chi parla di libertà è semplicemente matto. Chi si azzarda a presentarla come un fatto, come qualcosa che “resiste”, deve essere legato al letto. Arrivano i signori bianchi e forti e sei legato. 1966, l’anno in cui viene scritta. Mancano due anni al ’68, ma già da qualche parte ci sono dei ragazzi, ovviamente matti, che “parlano dei loro sogni come se fosse la realtà”. Gli sforzi per presentarli come completamente pazzi cominciano fin da subito. Qualcuno parla loro di libertà, qualcuno che può avere un nome (Orwell, Marcuse, Vaneigem, Débord) o può non averlo. Matti. Matti che hanno visto tutto chiarissimo, lucidissimo (come nella più pura tradizione dei matti). Qualcun altro arriva a dire che “la libertà più non esiste”, e presenta ciò che la sostituisce: la seicento, la lavatrice, il supermercato, l’immagine, lo spettacolo. E’ il grande e bianco sonno della società dello spettacolo. 1966. L’anno dopo, Débord, scrive il suo libriccino. “Lo spettacolo è il cattivo sogno della società moderna incatenata, che non esprime in definitiva se non il suo desiderio di dormire (-‘mio caro amico, tu sei stanco’-). Lo spettacolo è il guardiano di questo sogno”. Così Débord descrive perfettamente non solo la società dello spettacolo, ma anche il manicomio. E’ la stessa cosa.

“Io riderò /il mondo è bello”. La famosa risata che seppellisce. Non so se questa risata seppellisca, ma sicuramente è un’espressione di resistenza, di ribellione; e la risata, non per niente, è sempre stata associata con la follia! “Il riso abbonda nella bocca degli stolti”, recita l’antico adagio, e viene senz’altro a mente anche la feroce opposizione al riso di Jorge da Burgos. Il matto ride. Ride sempre! Questo è intollerabile. Deve essere rinchiuso. Deve essere eliminato. E cambiando l’ordine dei fattori, il prodotto non cambia: chi ride è matto.

Per avere un posto in questa società, quindi, è necessario vendere il proprio cervello. E non solo quello. Assieme al cervello bisogna vendere anche l’intero proprio corpo, la propria forza. Venderla al lavoro, per il quale ti viene data la possibilità di comprare, comprare, comprare una miriade di oggetti inutili. E così la vita è bella nel mondo della Seicento e della lavatrice (nel 1966) o della Grande Punto e della megativvù al plasma (nel 2006). Continuano ad esserci però dei matti che, per necessità o per disperazione, distruggono. Matti. Per nulla vestiti di bianco. Di nero. Black. Black bloc. Presentati come folli, distruggendo gli oggetti-simbolo essi compiono in realtà un atto di opposizione al manicomio, cioè un atto di libertà e di sanità mentale.


Viva la vita
pagata a rate
con la Seicento
la lavatrice.
Viva il sistema
che rende uguale e fa felice
chi ha il potere
chi invece non ce l’ha.

Io so che un giorno
verrà da me
un uomo bianco
vestito di bianco
e mi dirà:
«Mio caro amico tu sei stanco»
e la sua mano
con un sorriso mi darà.

Mi porterà
tra bianche case
di bianche mura
in bianchi cieli
mi vestirà
di tela greggia dura e bianca
e avrò una stanza
un letto bianco anche per me.

Vedrò il giorno
e tanta gente
anche ragazzi
di bianco vestiti
mi parleranno
dei loro sogni
come se fosse
la realtà.

Li guarderò
con occhi calmi
e dirò loro
di libertà;
verrà quell’uomo
con tanti altri forti e bianchi
e al mio letto
stretto con cinghie mi legherà.

«La libertà
- dirò - è un fatto,
voi mi legate
ma essa resiste».
Sorrideranno:
«Mio caro amico tu sei matto,
la libertà,
la libertà più non esiste».

Io riderò
il mondo è bello
tutto ha un prezzo
anche il cervello
«Vendilo, amico,
con la tua libertà
e un posto avrai
in questa società».

Viva la vita
pagata a rate
con la Seicento
la lavatrice
viva il sistema
che rende uguale e fa felice
chi ha il potere
e chi invece non ce l'ha.

Ivan Della Mea.

martedì 3 febbraio 2009

Christian Riganò


Strane cose le influenze. Arrivano, ti mandano in coma, vai a letto e poi a metà notte ti svegli senza averci più la minima voglia di dormire. E allora cosa si fa? La passatina in bagno, la tisana così tanto per buttare giù uno scaldabudella in quest'invernaccio infame, e il computer. A giro senza costrutto per i soliti siti. Su fiorentina.it ci sono due righe.

“Ex viola: bomber Riganò raggiunge Mondonico alla Cremonese. L'ex viola Christian Riganò è oggi passato dalla Ternana alla Cremonese a titolo definitivo. A Cremona ritroverà Emiliano Mondonico.”

Io, quando vedo quel nome, Cristian Riganò, ho come una sequenza fissa. Un film, con tutti i relativi fotogrammi che mi scorrono negli occhi, uno dopo l'altro. La TV bretone che, nel bungalow dove mi trovavo in vacanza, annuncia, nella lingua locale, il fallimento della Fiorentina cecchigoriana. La telefonata di mio fratello, due settimane dopo, che mi parla della C2, dell'acquisto dei Della Valle. Le cose che mi si agitavano in testa mentre, lontano, in capo al mondo, facevo finta di niente; e poi, una volta ristabilito un collegamento internet, la notizia dell'acquisto di Christian Riganò, il superbomber del Taranto, quello che ha fatto sognare a suon di gol una delle tifoserie più accanite d'Italia fino allo spareggio per la serie B. La serie B. Quella dove l'ultima Fiorentina del Cotonato era caduta con ignominia; ora sembrava un miraggio lontano anche quella.

L'unico contatto con la Fiorentina, dall'estremo nord della Francia dove abitavo, era un computer con uno di quei biechi collegamenti a forfait, 50 ore mensili, sforate le quali si pagavano cifre immonde. Per la Fiorentina altro che sforare; solo la domenica stavo su fiorentina.it per ore a seguire la “diretta testuale”, l'unico modo che avevo per seguire la partita. Christian Riganò. Rigagol. A Firenze ci sono stati solo due casi, finora, di cognome abbreviato unito a “gol”; uno è Batigol, l'altro l'ho appena detto. Toni, di cui non importava abbreviare il cognome perché ce lo ha già corto di suo, non è mai stato “Tonigol”. Gilardino ancora deve diventare Gilagol, anche se le premesse ci sono tutte quante.

Christian Riganò da Lipari, isole Eolie, come il professor Franco Scoglio. Strane razze, gli isolani. Un marcantonio con un aspetto e un fisico da muratore, perché il muratore lo aveva fatto sul serio. Nulla dei ragazzini rileccati che si vedono oggi sui campi, con fascettine sulla fronte, testoline rasate, tatuaggi e tutto il resto. Riganò i capelli ce li aveva belli lunghi, e lungo quel suo naso importante, quella sua faccia da testate ne' denti e quel senso del gol che dev'essere fatto comunque, bello, brutto, di sghimbescio, al volo, di testa, di anca, di ogni cosa. Avesse potuto, i gol li avrebbe fatti anche di stomaco e di pancreas, anche se nella testa qualcosa mi dice che ogni suo gol è stato fatto con un altro organo che si chiama cuore.

E quanti ne fece, in quell'anno di C2 che a volte, suonerà strano ma è così, mi trovo a rimpiangere. Ci ha fatto bene quell'annata proletaria, di radici, di cazzotti e di Gualdi Tadini. Trenta gol fatti da un ex muratore, la cavalcata trionfale in C1 poi diventata all'improvviso serie B grazie alla cattiva coscienza del palazzo. E anche in serie B, di gol ne fece ventiquattro. Esordì in serie A a trent'anni suonati, dopo averne viste di tutte; un infortunio alla prima giornata lo tolse di mezzo per buona parte del campionato. E mi chiedo se non ci fosse stato, quell'infortunio maledetto. Me lo chiedo, perché qualche anno dopo, in un Messina disastrato e in procinto di scomparire persino dalla geografia del calcio, com'era successo a noi o quasi, di goal in serie A ne mise a segno diciannove. Due persino alla Fiorentina, in un match inutile, col Messina già abbondantemente retrocesso; ma Rigagol ci fece vedere di che pasta era fatto, una pasta di Viola nell'anima. Una persona e un giocatore che non si vedono più a giro, e che forse non si vedranno mai più.

Giocava, in quella Fiorentina di C2, assieme a uno che pochi mesi prima era a fare il mondiale con la Nazionale, e ora si addannava a Agliana, a Imola, a Gubbio: si chiamava Angelo Di Livio. Giocava assieme ad altra gente che proprio malvagia non doveva essere, se poi ce la siamo ritrovata come Ariatti o come Quagliarella. Giocava assieme agli Andreotti, agli Ivan e ai Bismark, quello del favoloso goal di Rimini, finito poi alla Fortis Juventus di Borgo San Lorenzo dopo essere passato per una coppa UEFA giocata in Svizzera. Giocava e segnava, e io, da lassù, non potevo mai sentire il Guetta che berciava “gooooooool” quando la metteva dentro; potevo solo immaginarmelo.

Ma c'ero allo stadio, dopo essermi sciroppato ore e ore di treno per scendere a Firenze, il giorno in cui Riganò ha vestito l'ultima volta la maglia Viola, quella specie di spareggio col Brescia il 31 maggio 2005. La partita che poi fu messa sotto accusa per quella farsa di “Calciopoli”. Entrò, e mise anche a segno un gol. E' stato, quel suo ultimo gol, l'unico che ho visto coi miei occhi. Un gol bruttissimo. Me lo terrò dentro finché campo.

Poi Rigagol comincia di nuovo a peregrinare. Empoli per restare vicino a Firenze, Messina, la Levante di Valencia. Nonostante i diciannove gol fatti con una compagine di scalzi e gnudi come il Messina (e anche lì un grave infortunio gli aveva impedito di giocare per mesi), non è, si dice, “giocatore da grande squadra”. Troppo Riganò, troppo muratore, troppo naso, troppa polvere, troppo sudore da lavoratore. Giocatore da squadre ultime in classifica o roba del genere, dove però si permette di mettere a segno triplette intere; con la Levante ne rifila una all'Almeria, la squadra che poi ci darà Felipe Melo. Poi di nuovo in Italia, come me. Si torna a casa. Va al Siena per restare in Toscana, a Terni non gioca nemmeno una partita e ora eccolo approdare a Cremona, a trentacinque anni, ché questo è il gioco più bello del mondo e bisogna giocarlo. Facendo gol. E lui li fa, i gol, accidenti se li fa. Fin da quando giocava nel Terme San Calogero.

C'è chi lo ha visto, lo scorso anno quando la Fiorentina si è qualificata per la Champions' League, a giro vicino allo stadio con un bandierone Viola a festeggiare come un tifoso qualsiasi, ché Riganò è uno di noi. Di sicuro l'ho visto io alla panineria “Dogali” del Viale Malta dirmi, una volta, che era meglio farmi un cappotto mentre addentavo la terza schiaccina con la pancetta. Un sorrisone e una battuta fra gente in un bar. Cristian Riganò, per me, è qualcosa di più e di diverso da una “bandiera”: è di quelle persone che, a quarant'anni, te le ritroverai a giocare magari di nuovo nel Terme San Calogero, con l'anima di un ragazzino. Dovrebbero essere loro le bandiere di questo sport. Loro e basta.

Nel frattempo, poiché ho la fidanzata a Piacenza, prima o poi lo faccio. Ci vado spesso, per forza di cose, a Piacenza; e Cremona dista solo una quarantina di chilometri. Almeno un'altra volta “Riga Riga Riga Rigagoool” lo voglio urlare; poi, nella remotissima ipotesi che ci si veda e ci si riconosca, a ognuno il suo. S'anderà a i' bàrre. Io sono il Riganò dei panini, in quello non può battermi.