lunedì 1 marzo 2010

Il tedesco Klöger (1)


Il tedesco Klöger aveva una pompa di benzina dove pochi si fermavano; a metà fra Portolongone e Rio nell'Elba, dove la strada comincia a salire. Che fosse tedesco, non se ne curava praticamente nessuno; con una sorprendente rapidità era riuscito a imparare l'elbano, e neppure con una lieve inflessione: Longonese nato e spiccicato. Si faceva chiamare Antonio, o Toni; abitava in una catapecchia non lontano dalla pompa, tanto che si muoveva a piedi. Nessuno lo aveva mai visto, né a Rio e né a Portolongone, a bordo di un qualsiasi mezzo di trasporto, neanche una bicicletta. Le poche volte che andava a Portolongone per andare a far la spesa (di andare a Rio non se ne parlava neppure, data la salita che c'è) ci andava a piedi, e a piedi ritornava con le borse; mangiava, del resto, pochissimo ed era magro come un chiodo. Accanto al suo tugurio, che peraltro teneva ordinatissimo con le scarne cose che c'erano, aveva un orto che coltivava con cura ma soltanto a cavoli, patate e rutabaga; non beveva vino, poca birra e aveva un debole per la Fanta.

Si chiamava Anton Erwin Klöger von Ritzebüttel und Hadelheim ed era nato, quando si verificò l'episodio che segue, sessantadue anni prima a Cuxhaven, in Bassa Sassonia; proveniva da una delle più nobili e antiche famiglie anseatiche. Se arrivava qualche rara automobile con targa tedesca, si guardava bene dal parlare nella sua lingua materna e, anzi, faceva generalmente finta di non capire nulla limitandosi a dei gesti per le operazioni di lavoro: il pieno, controllare i livelli, pulire i vetri. Soltanto all'anagrafe comunale un paio di impiegati sapevano da dove venisse per davvero, anche se diceva tranquillamente a tutti di essere nato da qualche parte in Germania; ma già padrone della parlata locale e cittadino italiano, li aveva pregati gentilmente di non dire mai nulla a nessuno promettendo loro un vitalizio di benzina a gratis. E quelli se ne servivano, invero con moderazione e andando spesso a riempire il serbatoio da qualche altra parte per non dare nell'occhio. Avevano capito che al tizio non doveva riuscire gradito il suo passato, o qualcosa del genere; e, naturalmente, avevano pensato che fosse un vecchio nazista. Ma non dava noia a nessuno, faceva il suo lavoro, campava con il suo rutabaga e la sua Fanta e al resto ci avrebbe pensato, un giorno, il Padreterno.

Il 5 luglio 1967, poco dopo l'apertura pomeridiana della pompa, si fermò un furgone Volkswagen arancione, con una scritta sulla fiancata destra, pitturata con della vernice bianca: Kein Atomwaffen! Alla guida c'era un tipo più o meno della stessa età, vestito curiosamente da hippy; era sudato come un maiale per il caldo terrificante del primo pomeriggio, e aveva addosso un paio di pantaloncini verdi bisunti e una maglietta gialla completamente intrisa, sulla quale si leggeva una qualche frase contro qualcosa. Accanto a lui una giovane donna dall'aria incupita e un paio di occhiali scuri troppo grossi; sul sedile posteriore un'altra coppia, visibilmente più allegra, composta da due giovani che uno avrebbe preso per fratello e sorella gemelli tanto si somigliavano come due gocce d'acqua; senonché si stavano baciando appassionatamente, scientificamente, senza spiccicarsi nemmeno per un secondo. Il guidatore scese, parlando in un italiano stentato e chiedendo tremila lire di benzina, una sistolata al furgone impolverato e se per caso c'era qualcosa da bere di fresco. Il vecchio Toni, nell'aprire il tappo del serbatoio, disse che nel frigo aveva una bottiglia d'acqua e un'altra di Fanta già ammezzata e mezza svampita; l'altro, di tutto questo, capì soltanto “Fanta” e sorrise ringraziando, guardandolo in viso. Entrò nella baracca dirigendosi verso il frigorifero, mentre un pensiero lontano cominciava a prendere la rincorsa nella sua testa.

L'inverno del 1920, a Cuxhaven, era stato qualcosa di più che terrificante; a paragone di quei mesi, persino negli anni disastrosi del secondo dopoguerra c'era ancora chi diceva che non era nulla “di fronte al Venti”. Nel suo palazzotto Jugendstil della Böllkindstrasse, a due passi dall'estuario dell'Elba e da dove si vedeva l'isola di Neuwerk, la famiglia von Ritzebüttel und Hadelheim era costretta, come tutti, a mangiare una volta al giorno patate lesse condite con poco sale, o poco più. Il palazzotto stava cominciando a cadere a pezzi, e il quindicenne Anton aveva appena comunicato al padre di avere trovato un lavoro come operaio apprendista in una fabbrica di contenitori di latta, la Pögg und Söhne Blechhälter GmbH. Era una delle poche attività industriali rimaste in piedi, e un posto là, per un ragazzo, significava avere uno stipendio sufficiente per dar da qualcosa mangiare a una famiglia; non aveva chiesto niente a nessuno, si era presentato con dei vestiti mezzi laceri e con un nome inventato “Anton Kettingen”, e aveva domandato se c'era da lavorare. Era alto e ben fatto, e probabilmente uno sguardo meno disattento avrebbe rivelato che, sotto gli abiti lisi da proletario, c'era un giovane che aveva passato ben altra infanzia. Ma l'addetto, un uomo tarchiato che teneva sempre in bocca una cicca spenta per accendersela ogni tanto, fare due tiri e rispegnerla, non ci aveva fatto caso. Gli aveva solo chiesto se sperava davvero di trovare lavoro lì, dato che mezza città andava non a chiederlo, ma a implorarlo. A supplicarlo. Gli chiese anche se conosceva qualcuno, in fabbrica.

Il tipo del furgone arancione si era versato mezzo bicchiere di aranciata svanita; continuava a guardare il vecchio che faceva benzina sotto il sole, senza berretto, e la rincorsa di pensieri che aveva in testa era diventata una corsa. Nel furgone, la coppietta sul sedile posteriore aveva smesso di baciarsi e dava qualche segno di impazienza; la donna sul sedile anteriore, invece, rimaneva impassibile, cupa, imperscrutabile dietro i suoi occhiali scuri. Passò una seicento tirando dritto; a bordo c'era il postino di Rio nell'Elba, Gianfranco Schezzini, che si sorprese di vedere qualcuno a far benzina dal tedesco e sorrise pensando che almeno si sarebbe guadagnato due o tre bottiglie di Fanta con l'incasso.

Anton Erwin Klöger von Ritzebüttel und Hadelheim conosceva qualcuno, in quella fabbrica. Conosceva il padrone in persona, il signor Pögg, che ancora negli anni della guerra veniva spesso a cena al palazzotto della Böllkindstrasse; addirittura, qualche volta gli aveva portato dei regali, e non mancava mai di fare omaggi floreali alla padrona di casa. Si fermò in tempo prima di dirglielo; conoscere il padrone in persona avrebbe significato il lavoro certo, ma anche l'odio di tutti gli altri, la vita impossibile in fabbrica. Disse di non conoscere assolutamente nessuno e di sapere bene che non c'erano speranze di essere preso, e che era solo un tentativo perché la sua famiglia faceva la fame. Gli rispose l'addetto che a Cuxhaven, in quel frangente, le uniche famiglie che non facevano la fame erano quelle dov'erano tutti morti, e che avevano così risolto il problema; e, nel dire questo, tirò una risata sguaiata, volgare, battendo un pugno sul tavolo. Si interruppe all'improvviso, accendendosi per l'ennesima volta la cicca che teneva fissa in bocca. “Non conosci nessuno”, gli disse; e lo squadrava da cima in fondo, come volesse soppesarlo. Anton non si muoveva, cercando al contempo di non assumere l'espressione fiera inculcatagli dalla sua educazione nobiliare. Non si doveva vedere né la fierezza, né la vergogna.

“Senti, ragazzo, come hai detto che ti chiami?”

“Anton Kettingen, signore.”

“E da dove vieni?”

“Dalla Sandmoor, signore”

“Brutta zona. Ce li hai i genitori?”

“Soltanto mia madre. E due sorelle piccole.”

“E tuo padre?”

“È morto in guerra, signore. Sul fronte francese.”

“Dei documenti ce li hai?”

“No, signore. Non ce li ho.”

“E chi mi dice allora che sei Anton Källingen?...”

“Kettingen, signore.”

“Lo sai fare questo lavoro? Lo sai che è pericoloso?”

“Non lo so fare. Però imparo alla svelta.”

“Senza documenti come farei a prenderti?”

“Non lo so, signore. Ce li hanno tutti quanti gli operai che lavorano qui, i documenti?”

L'addetto, che si faceva chiamare Martin Eckerberg, si chiamava in realtà Lars Bengtström ed era svedese di nascita. Nascita che aveva dovuto dimenticare alla svelta nel 1905, quando era sbarcato a Cuxhaven di nascosto dopo aver provocato di proposito una frana che aveva seppellito la casa del vecchio Jasper Gresenius, il padrone della miniera di Ormsväg, vicino a Skellefteå. Nella frana era morta tutta la famiglia del vecchio, che si era però salvato. Sui motivi della sua azione si era scritto molto, in Svezia, attorno a quegli anni; non ce ne dovremmo occupare qui, ma in quella miniera succedevano cose piuttosto strane e dolorose, e a farne le spese erano costantemente i minatori. Giù nella fossa non si poteva fumare, ed era per questo, forse, che l'addetto fumava di continuo; nessuno lo aveva mai visto senza la cicca in bocca. Di documenti non ne aveva, e se li era fatti fabbricare; sarebbe stato curioso chiederli ad un ragazzo che, sicuramente, non aveva né mai fatto il minatore, né aveva seppellito una famiglia intera sotto una frana fatta staccare ad arte.

Aveva cominciato a guardare anche il vecchio, mentre continuava lentamente a fare benzina. Il distributore era malandato ed erogava quasi col contagocce, e il serbatoio del furgone Volkswagen sembrava essere senza fondo; il caldo si era fatto insopportabile e, ora, anche l'impassibile passeggera sul sedile anteriore stava dando qualche segno di mala tolleranza; la coppietta di innamorati era invece scesa dicendo qualcosa, e si era allontanata sulla strada verso Portolongone. Il vecchio parve non curarsene, e guardò di nuovo verso la sua baracca, dove il guidatore si era versato un altro mezzo bicchiere di Fanta.

“Va bene, ragazzo, va bene. Cerca quando puoi di portarmi un po' di scartoffie. Intanto vai là in fondo e chiedi di Daniel. Sarà il tuo caposquadra, quello che ti insegnerà a lavorare alla trafilatrice. Ci saranno altri ragazzi con te. Guarda che alla fine soltanto meno della metà saranno tenuti. In bocca al lupo. C'è da rimetterci le mani, e anche qualcosa di più. Stai sempre attento.”

“Cercherò di fare del mio meglio, signore.” E se n'era andato, là in fondo, a chiedere di Daniel.

(continua mercoledì 3 marzo)