mercoledì 3 marzo 2010

Il tedesco Klöger (2)


A chiedere della coppietta era andata, scendendo alla fine dal furgone con aria contrariata, la passeggera con gli occhiali scuri; aveva come inforcato la strada cocente, ma senza un filo di sudore, per dirigersi verso dove quei due se n'erano andati. Senza neppure chiudere la portiera, si era allontanata mentre il benzinaio aveva quasi terminato il suo servizio. Il conducente del furgone, bevuta la sua aranciata, aveva richiuso con un po' di fatica il decrepito frigorifero “Philco” col pedale e si era fermato sulla porta della baracca; guardava sempre più fisso il benzinaio, che si era avvicinato alla canna dell'acqua per dare una risciacquata al furgone ricoperto dalla polvere delle strade sterrate elbane. Nemmeno una parola.

Due o tre parole sole aveva rivolto Daniel ai cinque ragazzi che erano attorno a lui, tutti gli apprendisti della giornata. Di ragazzi c'era bisogno, perché alla trafilatrice gli operai specializzati avevano bisogno di aiuto e di non mettere troppo a repentaglio mani che avevano famiglie intere sulle spalle. Daniel era un vecchio operaio; le mani le aveva perse tutte e due circa dieci anni prima, per un momento di distrazione, e il macchinario non glielo aveva perdonato. Le lamine di latta che si estrudevano a formare i contenitori circolari dalla Kratos, inventata da pochi anni, gliele aveva tranciate di netto. Lo avevano tenuto perché era il più bravo, e lo avevano quindi destinato all'istruzione degli apprendisti; della Kratos lui conosceva tutto. “Ragazzi, venite con me”. Seccamente. Accanto a Anton c'era un altro ragazzo, più o meno della stessa età, ma un po' più basso e gracile; si misero a camminare senza fiatare, credendo di fare un breve tragitto. Invece, per arrivare al capannone delle trafilatrici c'era da fare un percorso abbastanza lungo attraverso una serie di piazzali dove sorgevano altri capannoni tutti uguali, alcuni dei quali semidistrutti.

Sottovoce, i due ragazzi si erano messi a parlare, presentandosi. Il compagno di Anton disse di chiamarsi Kurt Winckel.

“Da dove vieni tu, Kettingen?”

“Dalla Sandmoor.”

“Anche io vengo dalla Sandmoor, ma non ti ho mai visto. Dove sei andato a scuola?”

“Mio padre è morto quando avevo cinque anni e mia madre mi ha portato a Amburgo. L'ho fatta là la scuola, per questo non mi hai mai visto. Siamo tornati a Cuxhaven da poco.”

Kurt fece finta di crederci, anche perché non era bene farsi sorprendere a chiacchierare da Daniel. Aveva un'aria, l'operaio istruttore monco, di non gradire troppo le chiacchiere. Alla fine arrivarono al capannone delle trafilatrici, dove i ragazzi si aspettavano di essere accolti da un rumore d'inferno; ma non era così, non era affatto così. Non era un rumore, ma uno strano sibilo intermittente, che non aveva niente di infernale ma tutto di inquietante. Non un fracasso grossolano, ma una sottile angoscia. Ai macchinari, degli operai comandavano delle manovre eseguite perlopiù da giovani di un'età poco maggiore di quella degli apprendisti, che guardavano le sedici trafilatrici con stupore mentre Daniel, ancora, non diceva una parola. Voleva, forse, che quei quindici o sedicenni provassero un ultimo momento di infantile meraviglia prima della quotidianità della fabbrica, dei turni di lavoro, dell'obbedienza, del pericolo affilato. “Le manovre sono semplici”, disse all'improvviso. “Per questo molti ci hanno rimesso le mani”; e mostrò ai ragazzi i suoi moncherini ricuciti.

Daniel. Quel giorno di due mesi e mezzo dopo, non c'era; era rimasto a casa per un malessere improvviso, forse un attacco della declinante “spagnola”, non mortale ma sufficiente a non farlo andare in fabbrica per qualche tempo. Aveva insegnato rapidamente ai ragazzi le manovre che sarebbero loro spettate; la più pericolosa era la raccolta dei contenitori tubolari grezzi, non ancora saldati, all'uscita dall'estrusore laminare. Quando aveva perso le mani, non doveva esserci lui alla raccolta; l'apprendista incaricato aveva chiesto il permesso di andare cinque minuti in bagno e lui gli aveva detto di sbrigarsi. Si era sbrigato, il ragazzo; ma quando era tornato dal bagno aveva visto il sangue, sentito le urla dei compagni di lavoro e visto Daniel a terra che tremava senza dire niente, con le mani mozzate. Le aveva appoggiate un istante al carter mentre passava un contenitore malformato che aveva fatto inceppare un finecorsa. Daniel. Se lo rivedeva.

Il benzinaio Klöger aveva riavvolto la sistola e si era avvicinato al guidatore del furgone, che ancora stava fermo sulla porta della baracca a guardarlo.

Avevano fatto amicizia senza chiedersi più niente sulle loro provenienze, Anton e Kurt. Di quelle amicizie da adolescenti che si ritrovano non sui banchi di una scuola, ma in una fabbrica a lavorare duro in anni schifosi. Non era Berlino, Cuxhaven. Non era la febbrile, malata e folle repubblica di Weimar. Era una cittadina di cinquantamila abitanti dov'era rimasta in piedi una fabbrica. Quando Anton, dopo il primo giorno di lavoro, era tornato a casa, suo padre, il Freiherr Woldemar Christian von Ritzebüttel und Hadelheim, gli aveva chiesto dov'era stato tutto il giorno.

“Sono stato a chiedere lavoro alla Pögg, babbo.”

“Che cosa!?!”

“Alla Pögg. Come apprendista operaio.”

Al vecchio Freiherr era quasi venuto un colpo: “Ma sei matto? Un Ritzebüttel und Hadelheim a lavorare in fabbrica? Ci vado a parlare io con Hermann...”

“Babbo, Hermann non ti rivolge più nemmeno la parola. Lui è rimasto ricco, noi siamo poveri in canna. La casa casca a pezzi. Alla Sandmoor i lavoratori mangiano due volte al giorno, noi non mangiamo nulla. Che c'è in dispensa, babbo? Stasera cosa mettiamo sotto i denti? Me lo sai dire tu, babbo?”

Woldemar Christian von Ritzebüttel und Hadelheim si era lasciato andare su una poltrona polverosa, prendendosi la testa fra le mani e cominciando a piangere; Anton aveva rispettato il suo dolore, la coscienza della sua rovina, e anche lo stupido orgoglio secolare di chi era abituato a campare del lavoro degli altri, ripagato con uno sprezzante senso di superiorità. Lo aveva lasciato piangere; quando era parso calmarsi, aveva detto pacatamente al padre:

“Mi hanno preso. Non sono voluto andare dal signor Pögg e ho dato un nome falso.”

Il padre aveva aspettato qualche secondo: “Un nome falso? E non te li hanno chiesti dei documenti, qualcosa?...”

“Credevo che lo facessero, e che non mi avrebbero preso. Evidentemente non fanno così tante storie, specialmente con degli apprendisti.”

“E dove ti avrebbero messo a lavorare?”

“Alla trafilatrice Kratos, babbo.”

“Che diavolo è?”

“Un macchinario da dove escono i barattoli di latta non saldati. Se non si sta attenti, ci si rimettono le mani. L'istruttore è un vecchio operaio monco.”

“L'ho visto qualche volta in giro, si chiama Daniel Markwald. Stai attento, figliolo. Alle tue mani e anche a quello lì.”

“Perché, babbo?”

“Perché non mi piace quel tipo. Non ti devo nessun'altra spiegazione, sono sempre tuo padre anche se non ho più nulla. Venderemo anche questo palazzo, non ha più senso tenerlo oramai. Qualcuno lo comprerà. Rischia di caderci addosso.”

“Se diventerò operaio effettivo qualche soldo ce lo avremo. E...”

“Cosa vuoi dirmi?”

“Niente, babbo. Niente.”

Voleva dirgli che, a quarantotto anni non ancora compiuti, poteva trovarsi anche lui qualcosa da fare. Nel 1909 il Freiherr aveva preso la patente di guida, e in tutta Cuxhaven saranno stati sì e no un centinaio ad averla. Ma sarebbe dovuto andare a fare da chauffeur a qualcuno che aveva denaro, che avrebbe così avuto un nobiluomo ridotto alla fame come autista; e Anton capì che era chiedere troppo a suo padre. Lo salutò dicendo che andava a dormire, perché il turno di lavoro cominciava alle sei del mattino; e alle cinque e mezzo, come fu uscito di casa, trovò a aspettarlo il suo amico Kurt. I due ragazzi rimasero immobili a guardarsi.

Immobili a guardarsi ancora, senza sentire nemmeno più il caldo, mentre da lontano si sentiva confabulare in lingua tedesca. “Siete una vergogna, tutti e due, senza nessun pudore. Siete fratelli gemelli, e non vi contentate nemmeno di scopare. Dovete fare anche i fidanzatini innamorati davanti a tutti, mentre si viaggia, al mare, dovunque. Tornate subito indietro.”

“Ascolta, Waldtraut”, fece la ragazza. “Tu non ne sai nulla di noi, né di chi siamo, né di come siamo, né di cosa vuol dire quel che c'è fra noi. Non sai niente e non sei niente. Torna tu indietro, noi ci siamo stufati di te, della tua faccia, dei tuoi occhiali. Nostro padre lo sa e non dice niente, ed è quello che ci ha messi al mondo. Se ci fosse ancora nostra madre quei tuoi occhiali te li avrebbe già fatti ingoiare con tutte le lenti, o cacciati nel culo. Le tue morali valle a fare da un'altra parte, hai capito? Noi non ti facciamo niente di male, e se commettiamo incesto, come ti piace dire, sono affari nostri. Siamo venuti a goderci una vacanza, non a sentire i tuoi ordini.”

Impietrita, la donna tornò verso il furgone, con un improvviso desiderio di vomitare. Alla pompa di benzina, i due uomini si guardavano ancora, senza dire una parola. Il nome della Fanta deriva dal termine tedesco per "immaginazione", Fantasie o Phantasie, perché l'inventore riteneva che occorresse immaginazione per sentire il gusto di arancia in quello strano miscuglio.

(continua venerdì 5 marzo)