sabato 27 aprile 2013

Venticinqu'aprile




Veramente, non sto a farmi tante filosofie del cazzo. Debbo dirlo. C'è da occupare una casa sfitta da dieci anni e rotti? Vo, piglio e do una mano. Ci resto a dormire la notte su un materassaccio lurido, con una scala a pioli appoggiata a una finestra al secondo piano, pronto a scappare via se quelli del borgomastro arrivano a sgomberare. Roba del genere; così il venticinqu'aprile che lascio parecchio volentieri a chi si diletta delle bloggate da giorno dopo dopo essersi stato a grattare i coglioni o la pòtta. Non lo so se il venticinqu'aprile sia morto, se sia o meno "liberazione", se lo si debba anarcare o snobbare, cantare o rilanciare, festeggiare o chissà cos'altro; solo che, il ventiquattro, m'è capitato di vedere su parecchi muri di Firenze scritte di dieci metri che inneggiavano ai "caduti" della Repubblica Sociale Italiana, altresì detta Repubblica di Salò, e a me, che sarò fatto a modo mio ma è mio e me lo tengo senza tanti proclami di "essere me stesso", tanto basta. 

Tanto basta, ad esempio, a farmi pigliare un treno la mattina del venticinqu'aprile per andare in un dato posto più o meno sul cocuzzolo di una montagna, in un posto dove della gente è riuscita a morire anche la mattina di un venticinqu'aprile lontanissimo. Senza aspettare nemmeno qualche ora. E' vero, certo, le retoriche le conosco bene, e so bene che dovunque vada, in una piazza o in cima a un monte, me le beccherò; mi beccherò qualche immancabile congrega di stronzi, la mammina cui ho sfanculato la figlia e che arriva imperterrita a farsi sfanculare pure lei (si chiama democrazia!) e quant'altro; ma mi beccherò anche qualcosa che non è facile definire oggigiorno, e che non pretendo nemmeno di raccontare o spiegare. Ognuno, se vorrà, ne riporterà le sue impressioni; o anche no. Però quella mattina, lontanissima, avrei voluto esserci. Avrei voluto avere delle illusioni, per poi vedermele naturalmente triturare. Per questo, forse, le ho ancora; non si sa mai, prima o poi il tritatutto si potrebbe anche guastare.

E tanto basta per farmi, appunto, montare su quel treno. Che, poco dopo la stazione di Rifredi, si è fermato. Guastato. Ed è stato soppresso, così, tante scuse. Tutti giù, dirottati su un povero treno per Pisa e Livorno che era già strapieno di turisti giapponesi e americani che andavano a Pàisa. E, così, vorrei farvi vedere il venticinqu'aprile in Italia, duemilatredici; su una specie di carro bestiame, o di treno dei deportati, ultima fermata Auschwitz. Tra le giovanissime "girl scouts" che si divertono come matte in mezzo al pigia-pigia, i finestrini che non si aprono, quella puzza mista di sudore, patatine Pai e ferraglia, il controllore che viene massacrato di insulti, i borsoni ammassati e la campagna che scorre verso chissà cosa.