Torno a leggere dall'articolo Wikipedia. Gianfranco Bertoli è morto il diciassette dicembre del 2000 a Livorno; a Livorno c'era perché stava in galera alle Sughere, nient'altro. Era tornato, come leggo, a farsi d'eroina. Credo che comunque, se mai fossi tornato in quel posto, me lo sarei rivisto davanti anche da morto. Rivisto chiedendomi delle cose; se fosse un lurido pezzo di merda di fascista, o se fosse doppio. E, se fosse stato doppio, o addirittura multiplo, di che genere fosse quella sua doppiezza, quella sua molteplicità. Se fosse stata dettata dal calcolo e dall'infamia, o se fosse qualcosa di diverso e di inconfessabile. Se l'infiltrarsi a comando gli avesse infiltrato dentro anche l'incrocio infinito dei contrari che attraggono e avvolgono. Se fosse entrato dentro dei recessi dai quali, poi, non è più possibile uscire. O se fosse nient'altro che un topo di fogna vestito da cameriere in uno strano posto, a Livorno, in una sera d'autunno, non molto prima del suo appuntamento con il Nero che lo avrebbe inghiottito via.
mercoledì 17 aprile 2013
La Botteghina
Non che ci andassi
spesso, in quel posto; anzi, proprio poco. Era lontanissimo da dove
abitavo, come lontanissimi cominciano ad essere quegli anni. Livorno,
gli ultimi frammenti di un millennio intero; non c'è più niente,
forse nemmeno quel posto. O non lo so; ci capitavo una volta ogni
tanto, alla “Botteghina”.
Era un posto strano,
particolare. La mattina era, grosso modo, una latteria; la sera
diventava una tavola calda e un'osteria. Perlomeno me la ricordo
così; pochi tavoli di legno, seggiolacce, ancora non c'era il
divieto di fumo nei locali e il posto era pieno di libri, riviste e
gente strana. Una volta ci trovai, del tutto straniti, tre orientali
che poi si rivelarono essere funzionari del Partito Comunista del
Vietnam in visita a Livorno; un'altra ci capitai durante i miei
ultimi mesi a Livorno, quando ero di fuori come una balconata e quasi
costantemente briaco. Credo di essermi puntigliosamente e
coscienziosamente preparato l'infarto di anni dopo, in quel periodo;
a forza d'ogni sorta di troiaio che mangiavo, di tre o quattro
pacchetti di sigarette al giorno, e di litri di vino e altri
alcolici. Litri, questi sono i termini esatti. Capace di sortire di
casa alle dieci la sera e di tornare alle due del pomeriggio del
giorno dopo senza essere cercato, tanto non c'era nessuno cui
gliene fregasse. Quando ci capitai quella volta, alla “Botteghina”, non
c'era assolutamente nessuno e me ne stetti da solo tutta la
mattinata. Era morto anche il commesso, o cameriere; ma non lo
sapevo. Me lo disse il padrone. Non mi ricordo se, inconsciamente o
meno, c'ero andato proprio perché volevo scambiarci due parole, con
quella persona. Non me ne ricordo.
Il padrone, non ho mai
saputo bene come si scrivesse il suo cognome. A Livorno si diceva
“Franco Abrans”, ma poteva essere “Abrams” o “Abrahams”,
o qualcosa del genere. Ebreo per forza, quindi livornese dei più
antichi; non saprei dire altro. Nelle poche volte che sono stato alla
“Botteghina”, o non c'era, o ci avrò scambiato due parole in
croce. Non ero certamente un habitué del posto; eppure, sentendone
parlare in giro (e in quegli anni non facevo praticamente altro che
due cose: girare senza meta per Livorno, e scrivere), mi ero fatto
persuaso che si dovesse trattare d'un posto quasi mitologico.
Fiorivano leggende; la più diffusa, quasi una “vox populi”, era
che “Franco Abrans” la tenesse aperta quando cazzo gli pareva, e
che fosse comune andarci in orari normali per tornarsene subito
indietro perché la porta era sprangata; oppure che uno ci si
ritrovasse davanti alle tre e mezzo di notte di gennaio e trovasse
tutto aperto, spalancato. Le volte che ci sono andato, a dire il
vero, l'ho sempre trovata aperta; ma sono solito rispettare le
mitologie.
Quanto a questo Franco
Abrans (Abrams, Abrahams), i livornesi ne parlavano generalmente come
una persona talmente famosa da non dover specificare nient'altro;
così non ne ho mai saputo nulla e mi son dovuto immaginare. A
giudicare dal posto, dai libri e dalle riviste che ci si trovavano,
ci doveva avere avuto qualcosa a che fare col “sessantotto”, o
comunque con “quegli anni”; quelle volte che torno a Livorno, tra
una federazione anarchica e qualcosa del genere, mi riprometto sempre
di fare qualche domanda a Pardo Fornaciari o a qualcun altro che per
forza lo deve conoscere (o avere conosciuto, non so nemmeno se è
ancora vivo); ma, poi, o me ne scordo, o mi trattengo. Come se avessi
deciso che Franco Abrans deve restare così, una specie di ombra che
la mia sconosciutezza ha attraversato. Una volta ci entrai dentro a
un'ora quasi normale, di sera, per farmi un litro di vino in santa
disperazione senza forse rendermi più nemmeno conto che, in una
tasca dello spigato che portavo sempre (e che poi ho perso, era stato
di mio nonno), ci avevo un'altra bottiglia quasi piena. E non
pensiate che stia facendo folklore; le mie condizioni di allora erano
quelle, e lo sa bene Filippo Thiery di Roma che, una notte, mi ha
visto rotolare tutte le scale del sottopassaggio della stazione. Era
un sei di marzo, e il sei di marzo...
Non era un sei di marzo.
Era un tardo pomeriggio d'autunno del mille e
novecentonovantaqualcosa. Il litro di vino me lo portò un tipo
magrissimo, alto, già parecchio anziano mi sembrava. Scavato in viso
era dir poco; sembrava che su quella faccia avessero tirato una
bomba. Per motivi che non sto a spiegare, le mie condizioni di allora
mi avevano donato una voglia e una capacità di osservare gli altri
che non credo di avere più, sebbene rimanga una delle mie attività
preferite; insomma, capii immediatamente che quella persona doveva
averne passate parecchie. Inoltre, mi hanno sempre colpito i posti
dove ci sono dei camerieri anziani e silenziosi; oltre alla
“Botteghina”, mi è successo soltanto un'altra volta di vederne
uno, in una trattoria di quart'ordine nel sestiere di Castello a
Venezia. Ci scendevo di nascosto per andare in Calle Catapan, là
vicino; ma anche questa è un'altra storia, come il sei di marzo.
Mi piacerebbe quindi
poter dire d'aver perlomeno scambiato qualche parola con quell'uomo,
anche banale. Che so io, un commento sul tempo che faceva. O sul
vino. O su non so cosa; ma quella persona non aveva la benché minima
voglia di parlare e, in fondo, nemmeno io. C'era soltanto una cosa,
in mezzo ai miei pensieri; mi parve, a un certo punto, d'averlo già
visto da qualche parte. Non nel locale, perché le altre volte che
c'ero stato, non c'era; lì dentro era la prima volta che lo vedevo.
Portava una semplice camicia abbottonata e un paio di pantaloni
scuri; non so se rivedrò mai una persona più tremendamente magra.
Prima che il litro fosse finito, mi ero quasi deciso a chiedergli
come si chiamasse; ma se ne stava da una parte a leggere non so cosa.
Entrarono altre due persone chiedendo di Franco; fu risposto loro, me
ne ricordo come fosse due ore fa, che in quei giorni non ci sarebbe
stato. Si misero a sedere e ordinarono qualcosa da mangiare, un
piatto d'affettato e di formaggio. Dopo un po' pagai, salutai e me ne
andai; un litro, duemila lire.
Una bomba sul viso,
sembrava gli fosse passata; invece la bomba l'aveva tirata lui. Era
dal parrucchiere all'angolo tra via Palestro e via Garibaldi, dove
andavo sempre a farmi i capelli quando ancora me li tagliavo. Una
copia del “Tirreno” in cui si parlava di uno che era uscito di
galera, sia pure in semilibertà; e c'era la foto. Era stato preso a lavorare come cameriere
della “Botteghina” e si chiamava Gianfranco Bertoli. E il
parrucchiere mi vide tirare il giornale sulla sedia accanto e
starmene lì, senza dire nulla.
Gianfranco Bertoli, nato
a Venezia nel 1933. Il diciassette di maggio del 1973 avevo quasi
dieci anni d'età, e a dieci anni i fatti si ricordano anche fin
troppo bene senza nessun bisogno d'essere “precoci”. Era il primo
anniversario dell'uccisione del commissario Calabresi, e nel cortile
della Questura di Milano si stava scoprendo un busto in sua memoria;
scoppiò una bomba. C'era il ministro Rumor presente, che rimase
illeso; morirono quattro persone e quarantacinque rimasero ferite. La
bomba la aveva tirata Gianfranco Bertoli, dichiaratosi anarchico
individualista. Rileggo queste parole dall'articolo Wikipedia, ma mi
ricordo che all'epoca, alla televisione e sui giornali, l'
“individualista” non c'era. C'era soltanto “anarchico”, come
Valpreda. Qui bisognerebbe che cominciassi un discorso su che cosa
potessero significare quelle parole per un bambino; mio fratello era
un avidissimo lettore di gialli, in casa c'erano caterve di “Gialli
Mondadori” e, fra questi, quasi tutti quelli dell' “87°
Distretto” di Ed McBain. Uno di questi gialli mi ricordo benissimo
come cominciava: “L'inverno arrivò con l'irruenza di un
attentatore anarchico”. Doveva essere la prima volta che leggevo
quella parola e imparai che gli anarchici sono attentatori.
Venne fuori dopo un po'
che Gianfranco Bertoli non era affatto anarchico, anche se era
senz'altro un attentatore. Si scoprì una poltiglia puzzolente fatta
di servizi segreti, neofascisti, SID, SIFAR, informatori, soggiorni
in Israele. Poi venne fuori anche Gladio, ma anni dopo. Drogato
marcio lo era già, Gianfranco Bertoli; fu messo all'ergastolo. In
galera tentò di ammazzarsi; intanto scriveva su riviste anarchiche,
particolarmente della situazione nelle carceri. Dei suoi articoli
furono raccolti in un volume pubblicato dalle edizioni “Senzapatria”,
che pure anarchiche dovevano essere; sto continuando a leggere e a
trascrivere dall'articolo Wikipedia, nessuna intenzione di barare con
ricordi e conoscenze che non ho. Agente del SIFAR, nome in codice
“Negro”; infiltrato nel PCI; poi, ancora, agente del SID.
Fascista? Anarchico? Un infame? Un disgraziato? Forse tutte queste
cose; o, forse, nessuna. Me lo rivedevo nella “Botteghina” dove
gli era stato dato lavoro; da una parte, o, forse, nessuna. Come le
sue cose. Come la sua vita. L'unica cosa che capivo bene, era il suo
scarso desiderio di parlare con un estraneo; pensai con orrore a che
cosa, magari, gli avrei detto o chiesto senza sapere chi fosse. Dopo quella volta là,
sono tornato ancora alla “Botteghina” soltanto una volta, quella mattina in cui il padrone mi disse che il cameriere era morto. Poi, più niente; e, del resto, mi mancava poco a dovermene andare via da Livorno, anche se non lo sapevo ancora. Lontana
da casa, certo; ma c'era un moto di ripulsa, anche. O di paura.
Torno a leggere dall'articolo Wikipedia. Gianfranco Bertoli è morto il diciassette dicembre del 2000 a Livorno; a Livorno c'era perché stava in galera alle Sughere, nient'altro. Era tornato, come leggo, a farsi d'eroina. Credo che comunque, se mai fossi tornato in quel posto, me lo sarei rivisto davanti anche da morto. Rivisto chiedendomi delle cose; se fosse un lurido pezzo di merda di fascista, o se fosse doppio. E, se fosse stato doppio, o addirittura multiplo, di che genere fosse quella sua doppiezza, quella sua molteplicità. Se fosse stata dettata dal calcolo e dall'infamia, o se fosse qualcosa di diverso e di inconfessabile. Se l'infiltrarsi a comando gli avesse infiltrato dentro anche l'incrocio infinito dei contrari che attraggono e avvolgono. Se fosse entrato dentro dei recessi dai quali, poi, non è più possibile uscire. O se fosse nient'altro che un topo di fogna vestito da cameriere in uno strano posto, a Livorno, in una sera d'autunno, non molto prima del suo appuntamento con il Nero che lo avrebbe inghiottito via.
Torno a leggere dall'articolo Wikipedia. Gianfranco Bertoli è morto il diciassette dicembre del 2000 a Livorno; a Livorno c'era perché stava in galera alle Sughere, nient'altro. Era tornato, come leggo, a farsi d'eroina. Credo che comunque, se mai fossi tornato in quel posto, me lo sarei rivisto davanti anche da morto. Rivisto chiedendomi delle cose; se fosse un lurido pezzo di merda di fascista, o se fosse doppio. E, se fosse stato doppio, o addirittura multiplo, di che genere fosse quella sua doppiezza, quella sua molteplicità. Se fosse stata dettata dal calcolo e dall'infamia, o se fosse qualcosa di diverso e di inconfessabile. Se l'infiltrarsi a comando gli avesse infiltrato dentro anche l'incrocio infinito dei contrari che attraggono e avvolgono. Se fosse entrato dentro dei recessi dai quali, poi, non è più possibile uscire. O se fosse nient'altro che un topo di fogna vestito da cameriere in uno strano posto, a Livorno, in una sera d'autunno, non molto prima del suo appuntamento con il Nero che lo avrebbe inghiottito via.