mercoledì 17 aprile 2013

La Botteghina



Non che ci andassi spesso, in quel posto; anzi, proprio poco. Era lontanissimo da dove abitavo, come lontanissimi cominciano ad essere quegli anni. Livorno, gli ultimi frammenti di un millennio intero; non c'è più niente, forse nemmeno quel posto. O non lo so; ci capitavo una volta ogni tanto, alla “Botteghina”.

Era un posto strano, particolare. La mattina era, grosso modo, una latteria; la sera diventava una tavola calda e un'osteria. Perlomeno me la ricordo così; pochi tavoli di legno, seggiolacce, ancora non c'era il divieto di fumo nei locali e il posto era pieno di libri, riviste e gente strana. Una volta ci trovai, del tutto straniti, tre orientali che poi si rivelarono essere funzionari del Partito Comunista del Vietnam in visita a Livorno; un'altra ci capitai durante i miei ultimi mesi a Livorno, quando ero di fuori come una balconata e quasi costantemente briaco. Credo di essermi puntigliosamente e coscienziosamente preparato l'infarto di anni dopo, in quel periodo; a forza d'ogni sorta di troiaio che mangiavo, di tre o quattro pacchetti di sigarette al giorno, e di litri di vino e altri alcolici. Litri, questi sono i termini esatti. Capace di sortire di casa alle dieci la sera e di tornare alle due del pomeriggio del giorno dopo senza essere cercato, tanto non c'era nessuno cui gliene fregasse. Quando ci capitai quella volta, alla “Botteghina”, non c'era assolutamente nessuno e me ne stetti da solo tutta la mattinata. Era morto anche il commesso, o cameriere; ma non lo sapevo. Me lo disse il padrone. Non mi ricordo se, inconsciamente o meno, c'ero andato proprio perché volevo scambiarci due parole, con quella persona. Non me ne ricordo.

Il padrone, non ho mai saputo bene come si scrivesse il suo cognome. A Livorno si diceva “Franco Abrans”, ma poteva essere “Abrams” o “Abrahams”, o qualcosa del genere. Ebreo per forza, quindi livornese dei più antichi; non saprei dire altro. Nelle poche volte che sono stato alla “Botteghina”, o non c'era, o ci avrò scambiato due parole in croce. Non ero certamente un habitué del posto; eppure, sentendone parlare in giro (e in quegli anni non facevo praticamente altro che due cose: girare senza meta per Livorno, e scrivere), mi ero fatto persuaso che si dovesse trattare d'un posto quasi mitologico. Fiorivano leggende; la più diffusa, quasi una “vox populi”, era che “Franco Abrans” la tenesse aperta quando cazzo gli pareva, e che fosse comune andarci in orari normali per tornarsene subito indietro perché la porta era sprangata; oppure che uno ci si ritrovasse davanti alle tre e mezzo di notte di gennaio e trovasse tutto aperto, spalancato. Le volte che ci sono andato, a dire il vero, l'ho sempre trovata aperta; ma sono solito rispettare le mitologie.

Quanto a questo Franco Abrans (Abrams, Abrahams), i livornesi ne parlavano generalmente come una persona talmente famosa da non dover specificare nient'altro; così non ne ho mai saputo nulla e mi son dovuto immaginare. A giudicare dal posto, dai libri e dalle riviste che ci si trovavano, ci doveva avere avuto qualcosa a che fare col “sessantotto”, o comunque con “quegli anni”; quelle volte che torno a Livorno, tra una federazione anarchica e qualcosa del genere, mi riprometto sempre di fare qualche domanda a Pardo Fornaciari o a qualcun altro che per forza lo deve conoscere (o avere conosciuto, non so nemmeno se è ancora vivo); ma, poi, o me ne scordo, o mi trattengo. Come se avessi deciso che Franco Abrans deve restare così, una specie di ombra che la mia sconosciutezza ha attraversato. Una volta ci entrai dentro a un'ora quasi normale, di sera, per farmi un litro di vino in santa disperazione senza forse rendermi più nemmeno conto che, in una tasca dello spigato che portavo sempre (e che poi ho perso, era stato di mio nonno), ci avevo un'altra bottiglia quasi piena. E non pensiate che stia facendo folklore; le mie condizioni di allora erano quelle, e lo sa bene Filippo Thiery di Roma che, una notte, mi ha visto rotolare tutte le scale del sottopassaggio della stazione. Era un sei di marzo, e il sei di marzo...

Non era un sei di marzo. Era un tardo pomeriggio d'autunno del mille e novecentonovantaqualcosa. Il litro di vino me lo portò un tipo magrissimo, alto, già parecchio anziano mi sembrava. Scavato in viso era dir poco; sembrava che su quella faccia avessero tirato una bomba. Per motivi che non sto a spiegare, le mie condizioni di allora mi avevano donato una voglia e una capacità di osservare gli altri che non credo di avere più, sebbene rimanga una delle mie attività preferite; insomma, capii immediatamente che quella persona doveva averne passate parecchie. Inoltre, mi hanno sempre colpito i posti dove ci sono dei camerieri anziani e silenziosi; oltre alla “Botteghina”, mi è successo soltanto un'altra volta di vederne uno, in una trattoria di quart'ordine nel sestiere di Castello a Venezia. Ci scendevo di nascosto per andare in Calle Catapan, là vicino; ma anche questa è un'altra storia, come il sei di marzo.

Mi piacerebbe quindi poter dire d'aver perlomeno scambiato qualche parola con quell'uomo, anche banale. Che so io, un commento sul tempo che faceva. O sul vino. O su non so cosa; ma quella persona non aveva la benché minima voglia di parlare e, in fondo, nemmeno io. C'era soltanto una cosa, in mezzo ai miei pensieri; mi parve, a un certo punto, d'averlo già visto da qualche parte. Non nel locale, perché le altre volte che c'ero stato, non c'era; lì dentro era la prima volta che lo vedevo. Portava una semplice camicia abbottonata e un paio di pantaloni scuri; non so se rivedrò mai una persona più tremendamente magra. Prima che il litro fosse finito, mi ero quasi deciso a chiedergli come si chiamasse; ma se ne stava da una parte a leggere non so cosa. Entrarono altre due persone chiedendo di Franco; fu risposto loro, me ne ricordo come fosse due ore fa, che in quei giorni non ci sarebbe stato. Si misero a sedere e ordinarono qualcosa da mangiare, un piatto d'affettato e di formaggio. Dopo un po' pagai, salutai e me ne andai; un litro, duemila lire.

Una bomba sul viso, sembrava gli fosse passata; invece la bomba l'aveva tirata lui. Era dal parrucchiere all'angolo tra via Palestro e via Garibaldi, dove andavo sempre a farmi i capelli quando ancora me li tagliavo. Una copia del “Tirreno” in cui si parlava di uno che era uscito di galera, sia pure in semilibertà; e c'era la foto. Era stato preso a lavorare come cameriere della “Botteghina” e si chiamava Gianfranco Bertoli. E il parrucchiere mi vide tirare il giornale sulla sedia accanto e starmene lì, senza dire nulla.

Gianfranco Bertoli, nato a Venezia nel 1933. Il diciassette di maggio del 1973 avevo quasi dieci anni d'età, e a dieci anni i fatti si ricordano anche fin troppo bene senza nessun bisogno d'essere “precoci”. Era il primo anniversario dell'uccisione del commissario Calabresi, e nel cortile della Questura di Milano si stava scoprendo un busto in sua memoria; scoppiò una bomba. C'era il ministro Rumor presente, che rimase illeso; morirono quattro persone e quarantacinque rimasero ferite. La bomba la aveva tirata Gianfranco Bertoli, dichiaratosi anarchico individualista. Rileggo queste parole dall'articolo Wikipedia, ma mi ricordo che all'epoca, alla televisione e sui giornali, l' “individualista” non c'era. C'era soltanto “anarchico”, come Valpreda. Qui bisognerebbe che cominciassi un discorso su che cosa potessero significare quelle parole per un bambino; mio fratello era un avidissimo lettore di gialli, in casa c'erano caterve di “Gialli Mondadori” e, fra questi, quasi tutti quelli dell' “87° Distretto” di Ed McBain. Uno di questi gialli mi ricordo benissimo come cominciava: “L'inverno arrivò con l'irruenza di un attentatore anarchico”. Doveva essere la prima volta che leggevo quella parola e imparai che gli anarchici sono attentatori.

Venne fuori dopo un po' che Gianfranco Bertoli non era affatto anarchico, anche se era senz'altro un attentatore. Si scoprì una poltiglia puzzolente fatta di servizi segreti, neofascisti, SID, SIFAR, informatori, soggiorni in Israele. Poi venne fuori anche Gladio, ma anni dopo. Drogato marcio lo era già, Gianfranco Bertoli; fu messo all'ergastolo. In galera tentò di ammazzarsi; intanto scriveva su riviste anarchiche, particolarmente della situazione nelle carceri. Dei suoi articoli furono raccolti in un volume pubblicato dalle edizioni “Senzapatria”, che pure anarchiche dovevano essere; sto continuando a leggere e a trascrivere dall'articolo Wikipedia, nessuna intenzione di barare con ricordi e conoscenze che non ho. Agente del SIFAR, nome in codice “Negro”; infiltrato nel PCI; poi, ancora, agente del SID. Fascista? Anarchico? Un infame? Un disgraziato? Forse tutte queste cose; o, forse, nessuna. Me lo rivedevo nella “Botteghina” dove gli era stato dato lavoro; da una parte, o, forse, nessuna. Come le sue cose. Come la sua vita. L'unica cosa che capivo bene, era il suo scarso desiderio di parlare con un estraneo; pensai con orrore a che cosa, magari, gli avrei detto o chiesto senza sapere chi fosse. Dopo quella volta là, sono tornato ancora alla “Botteghina” soltanto una volta, quella mattina in cui il padrone mi disse che il cameriere era morto. Poi, più niente; e, del resto, mi mancava poco a dovermene andare via da Livorno, anche se non lo sapevo ancora. Lontana da casa, certo; ma c'era un moto di ripulsa, anche. O di paura.

Torno a leggere dall'articolo Wikipedia. Gianfranco Bertoli è morto il diciassette dicembre del 2000 a Livorno; a Livorno c'era perché stava in galera alle Sughere, nient'altro. Era tornato, come leggo, a farsi d'eroina. Credo che comunque, se mai fossi tornato in quel posto, me lo sarei rivisto davanti anche da morto. Rivisto chiedendomi delle cose; se fosse un lurido pezzo di merda di fascista, o se fosse doppio. E, se fosse stato doppio, o addirittura multiplo, di che genere fosse quella sua doppiezza, quella sua molteplicità. Se fosse stata dettata dal calcolo e dall'infamia, o se fosse qualcosa di diverso e di inconfessabile. Se l'infiltrarsi a comando gli avesse infiltrato dentro anche l'incrocio infinito dei contrari che attraggono e avvolgono. Se fosse entrato dentro dei recessi dai quali, poi, non è più possibile uscire. O se fosse nient'altro che un topo di fogna vestito da cameriere in uno strano posto, a Livorno, in una sera d'autunno, non molto prima del suo appuntamento con il Nero che lo avrebbe inghiottito via.