mercoledì 25 settembre 2013
Cinquanta
Vi siete mai rintanati, voialtri? Non lo so, e non sono nemmeno affari miei. Io, ogni tanto, mi rintano. Scappo via dal mondo, ma non sento il bisogno di paesi lontani o di rifugi solitari su alte montagne; mi basta una città, la mia. Conosco certi posti fuori mano dove non mi scovereste mai neppure se mi cercaste facendovi aiutare da Sherlock Holmes o, tanto per restare sul locale, dal commissario Bordelli. Ora, ad esempio, sto rintanato su una panchina in un giardinetto di un minuscolo e antichissimo borgo di periferia che si è ritrovato incastrato tra una caserma e una ferrovia; soffia un vento che si sta portando via l'estate, nonostante il tardo pomeriggio di fine settembre sia bellissimo, scrivo con una penna blu sul quadernetto a righe con la copertina rossa che mi porto sempre dietro, e domani avrò cinquant'anni.
Dal 29 luglio scorso non ho scritto più niente su questo "blog", e nemmeno l'ho mai aperto per vedere come stava. Il 4 agosto scorso, una macchina ha schiacciato il gatto Redelnoir davanti a casa mia, e la finestra rimane aperta come se dovesse rientrare da un momento all'altro. Da quel momento non mi è più venuto da scrivere nulla; il gatto nero non è nero a caso. Con la sua vita che se ne va, consegna il nero che impedisce anche le vuote parole scritte e lascia l'assenza finché, un dato giorno, comanda all'arco azzurro che si estende da uno sguardo all'altro di considerare tutto come una parte della vita. Che sia un gatto o una pietra, un alito d'aria o una persona, un libro, un'astrusità impercettibile, un ricordo. Non si domanda di capire, ma di inserire tra i passi di un cammino; e sono queste, anche queste, le traiettorie dei gatti.
Cinquanta può essere espresso in mille modi, tutti quanti frutti della convenzione. Filtra il sole dai rami di un albero mentre dalla strada, trafficata, sovrastante si sente il rumore dei bassi provenire dall'impianto stereo di una macchina che passa. È un giorno come un altro, e non lo è; è il giorno in cui viene fatto di pensare che non verrà mai raddoppiato. A venti, a venticinque, a trentacinque o quaranta lo si può raddoppiare; a cinquanta appare difficilissimo, impossibile. Eppure la vita sembra tutt'altro che finita; un appuntamento è stato dato, ci siamo salutati con gelido rispetto e abbiamo tirato per la nostra strada. Tanto ci s'icontrerà di nuovo in rue Froidevaux, o qualcosa del genere. Oggi ho passato quasi tutta la giornata da una vecchia signora un po' malata, che ha la figlia lontanissima, in un altro continente. Ci siamo tenuti compagnia a vicenda, le ho preparato da mangiare e, a parte, mi sono fatto una mia micidiale salsina tritando con la mezzaluna sei peperoncini grossi con tutti i semi, quattro spicchi d'aglio e due cucchiaini d'aceto di vino rosso. A cinquant'anni, detesto l'aceto balsamico quasi quanto tutti quei gran dialoghi fra atei e papi che vanno di gran moda ultimamente.
All'improvviso, per uno dei miei soliti capricci del destino, mi sono ritrovato tra le mani una vecchissima e enorme Mercedes bianca ultratrentenne. Usciva di fabbrica che avevo diciassett'anni; cinque metri e dieci di lunghezza, una specie di Kunsthistorisches Museum delle sbollature e della ruggine, impianto a gas, quasi duecentomila chilometri e, nella targa, sia la Paura che il Morto che Parla. Sembra o la macchina degli zingari, o del Conte Mascetti. Ai semafori, a volte, colgo sguardi perplessi o addirittura meravigliati; mi ha portato, una volta uscito dalla casa della vecchia signora, a questo giardino là dove una strada lunghissima termina addosso a un muro. Alla vigilia dei cinquant'anni, quella vigilia dove vado a gas, risparmio e non inquino.
I "post dei compleanni" non mi sono mai stati a genio, dico sottovoce alla "Tratto Clip" blu mentre le riservo la versione sciatta della mia calligrafia. Sogghigno, ché tanto non mi vede nessuno; sto scrivendo una cosa assolutamente, graniticamente autoreferenziale. Mi prende pure l'idea delle fotografie; ma bisogna pur avere un po' una specie di coraggio, a volte, di parlare alla propria penna. Le dico ancora, mentre il sole sta declinando, che non ho la minima intenzione di proclamarmi "me stesso", e respingo tale tipica rivendicazione proprio nel suo momento più deputato. Non saprei nemmeno da dove si comincia, del resto. Sono stati, questi, cinquant'anni in cui di "me stessi" ne ho visti sfilare più che alla parata di apertura di un'Olimpiade. E hanno gareggiato, naturalmente; sono arrivati quasi sempre ultimi. Hanno sgomitato, questi me stessi, si sono azzuffati, sono inciampati insieme all'ultimo ostacolo, hanno fatto un capitombolo spaventoso nella buca piena d'acqua dei tremila siepi. Sono arrivati in fondo ansimanti e dopo la musica; ma lo spirito Decoubertiniano non è mai venuto meno. La sconfitta non è mai stata nemmeno contemplata, e almeno su una cosa i me stessi sono sempre stati d'accordo: la sentita pietà per i vincitori. Quando sento o leggo qualcuno dichiarare di "essere sempre stato se stesso", cerco di assumere l'espressione più sorridentemente ebete che mi riesce; poveraccio. Anche perché mente sapendo di mentire; in questo giardinetto ci sono altre quattro panchine. E su ognuna di esse c'è un me stesso che sta scrivendo la sua versione dei suoi cinquant'anni.
Ce n'è uno che mi guarda un po' stranito mentre picchia come un forsennato sui tasti del suo PC; un altro ci ha addirittura il tablet. Un altro ancora scrive con una matita su dei fogli a protocollo a righe perché deve consegnare il tema prima del suono della campanella. Si affacciano vecchie figure, vecchi amori, vecchi odi, lotte incatramate, incertezze, diavoli con la coda, la scalinata Uz Posat, un paio di figli che hanno fatto marcia indietro, il Calimero che ruota su se stesso in mezzo al canale di Piombino, gli addii e le indifferenze, la grammatica turca a Capo Poro, la stazione di Como San Giovanni, il pub di Livorno e la sua cucciola di pitbull che beveva le mezze pinte di birra, le mutevoli idee, una corsa nell'antico stadio e un gatto nero che va da una panchina all'altra, mostrando cerimoniosamente di comprendere.
Passa un treno.
Tra cinquant'anni, in questo giardinetto ci sarà, forse, qualcun altro. Ci saranno, forse, altri se stessi di qualcuno che, in questo momento, sta nascendo; e io sarò invece in quel vastissimo Nulla, dove non mi toccheranno né l'Adesso, né il Qui. Però un'ultima traccia di sole illumina un lembo di prato, e il vento carezza l'erba. Ho aspettato cinquant'anni per vedere tutto questo, solo, fumando un sigaro a sedere su una panchina; e, per un momento, ci mettiamo tutti quanti assieme, a farci la foto di gruppo. Felici come pischelli, io e i miei non so quanti me stessi; ci si fanno le corna con le dita, di nascosto; ci si tirano pizzicotti; ci si manda affanculo come si manda affanculo chi si conosce da parecchio tempo, mettiamo cinquant'anni. Ci siamo fatti questo regalo; e ci è stato regalato anche un libro per imparare a riconoscere perfino quell'erba che continua ad essere accarezzata dal vento.
E ci alziamo tutti assieme per andare a fare i cretini in mezzo alla strada deserta, mostrando il culo alle macchine che passano sul viadotto, urlando sconcezze alla curiosa che sbircia dalla persiana, scrivendo "LAVALA" su una macchina impolverata, declamando qualche verso di Aristofane superstite chissà come nella memoria e terminando con un abbraccio prima di incamminarci, ognuno, verso la propria mestessa imponderatezza.
Accidenti, ci stavamo dimenticando lo zaino sulla panchina. E il quadernetto dove c'è scritta questa cosa.
S. Andrea a Rovezzano
24 settembre 2013, ore 18.40