lunedì 23 dicembre 2013
La carta d'identità
La fila cominciava poco
prima dell'angolo tra la via Georgiou e il corso Lambrakis; ed era
proprio quel Lambrakis, il deputato socialista ammazzato dai fascisti
nel '62, quello di “Z-L'orgia del potere”. A quell'ora, verso le
nove della sera del ventiquattro dicembre, la coda non solo non
accennava a diminuire, ma si era addirittura ingrossata. Del resto,
da giorni e giorni tutte le principali piazze e strade del Pireo
erano state tappezzate di manifesti con quel simbolo inconfondibile,
il Meandro di Alba Dorata, e la bandiera ellenica: Grande
distribuzione gratuita di cibo, giocattoli e farmaci di prima
necessità per i bisognosi Greci – Un Natale Greco per i Greci
cristiani – Alba Dorata aiuta la Patria in difficoltà. Nei
manifesti, in caratteri notevolmente più piccoli, era contenuta la
condizione necessaria per il Natale greco dei Greci cristiani: la
presentazione della carta d'identità. Il documento che attestasse la
cittadinanza greca e il nome greco. Fin dalle dieci del mattino, di
fronte alla chiesa dell'Evangelistria, erano stati sistemati quindici
banchi contenenti ogni bendiddìo accumulato dai militanti
albadoristi per la distribuzione natalizia; una fila enorme e
ordinata di persone, uomini e donne di tutte le età, che si svolgeva
per tutto il lunghissimo corso Lambrakis, aveva atteso pazientemente
il proprio turno per ritirare ciò di cui aveva bisogno presentando
la carta d'identità, il deltio taftòtitas;
e bisogno c'era di tutto. C'era un silenzio apparente; ma, chi si
fosse avvicinato alla fila soltanto per curiosità, avrebbe sentito
ognuno parlare sottovoce al vicino di coda, e qualcuno fra sé e sé.
Tutti avevano da dire qualcosa senza che nessuno gliela avesse
chiesta, e ognuno sembrava provare un desiderio irrefrenabile di
giustificarsi. Chi aveva sempre votato per il Pasok, chi non s'era
mai interessato di politica, chi si era visto sbattere fuori dal
posto di lavoro da un giorno all'altro; chi non aveva mai lavorato,
chi aveva quattro figli di cui due piccoli, chi aveva fame. Chi io
non sono razzista però, chi ci rubano il lavoro e il mangiare, chi
se ne tornino tutti a casa loro. Chi, infine, non li ho mai votati ma
stavolta; chi loro almeno fanno qualcosa; e chi si vergognava
semplicemente di stare in quella fila umiliante, di poveri, di vecchi
e banali benesseri fracassati, di che altro potevo fare. Ai banchi,
giovanotti muscolosi e qualche bella ragazza con indosso dei
giubbotti neri nella fredda serata dicembrina; a Atene non si creda
che faccia caldo, sotto Natale.
Era
arrivato, quell'uomo un po' strano, alle nove e trentacinque.
Intabarrato in un cappotto grigio che aveva visto tempi migliori, con
un cappello floscio che doveva essere stato nuovo cinquant'anni
prima, dei pantaloni di fustagno marrone e un paio di scarpe da
ginnastica tendenzialmente bianche, sebbene qua e là. Sotto il
cappotto aveva un maglione grigio a girocollo, sotto il quale, in
alto, si notava una specie di rigonfio; con tutta probabilità si
trattava di una sciarpa tenuta completamente sotto l'indumento. Era
un uomo parecchio anziano, dalla carnagione piuttosto scura; aveva,
però, una barba disordinata ma bianchissima. Le mani erano
screpolate, callose e grinze come quelle di chi avesse per tutta la
vita fatto un ruvido mestiere di fatica; ma erano coperte da dei
guanti di lana senza dita. Fumava una sigaretta puzzolente e mezza
rincignata, forse raccattata per terra da qualcuno che la aveva
gettata via appena accesa. Non aveva borse o altri contenitori, ma le
tasche del cappotto erano piene di roba imprecisata.
Quando
era arrivato, l'ultima della fila, che avrebbe dovuto aspettare
ancora ore per ricevere gli aiuti di Alba Dorata presentando la carta
d'identità greca, era una donna sui cinquant'anni, piuttosto alta e
bella dritta su se stessa; si chiamava Samaritha Kalitsounaki, e era
arrivata a Atene nel '71, ancora bambina, da Porto Heli nell'Argolide
assieme alla sua famiglia. Era stata per qualche tempo commessa in un
negozio di articoli sportivi, poi aveva lavorato in una tabaccheria
ben fornita nella via Kanellopoulou, sempre al Pireo ma dall'altra
parte del Porto. Nel '79, quando aveva sedici anni, era stata
violentata dal suo primo grande amore, un ragazzo di diciannove anni
di Drapetsona, di nome Mihalis; ma non lo aveva mai saputo nessuno.
Del resto, fortunatamente, non era rimasta incinta e questo era già
tanto; pensare che lo aveva fregato alla sua migliore amica, la
Diamandina Pesmazoglou, che gli sbavava dietro. Nell'86 si era
sposata con un trentaduenne dell'Akti, tale Vassilis Ventouris, che
le aveva promesso la classica vita tranquilla e senza problemi; e lei
si era lasciata sposare nonostante il marito fosse decisamente brutto
come la fame. Dopo due anni di gelosia ossessiva e di botte,
Samaritha se n'era andata via di casa con un marmocchio di otto mesi,
di nome Efstathios, ché così si chiamava il nonno paterno.
Efstathios era ora un giovanotto di ventisei anni, che non aveva mai
lavorato e che, all'insaputa della madre, era diventato una specie di
picchiatore in un partito di estrema destra che è stato già
nominato qui, di assoluta sfuggita. Quanto a Samaritha, di lavori ne
aveva fatti parecchi prima che la ditta di import-export nella quale
lavorava ultimamente fosse stata, più che costretta a chiudere,
spazzata via. Una mattina era andata a lavorare e non aveva trovato
più nemmeno la targa sul portone; da cinque mesi, del resto, non
vedeva un soldo e aveva campato di espedienti.
“Niente
incertezze. Niente incertezze. Niente incertezze.” Pensava questo
il vecchio, prima di decidersi a aprire bocca. Poteva, naturalmente,
stare zitto; ma era meglio esercitarsi a parlare. Nessuno lo avrebbe
mai detto, ma nella sua vita aveva parlato molte lingue diverse da
quella materna; aveva viaggiato per tutto il Mediterraneo, e in
Grecia non si ricordava nemmeno come c'era arrivato. Per un lavoro,
forse; un giorno era passato di casa e aveva detto alla giovane
moglie, che sarà stata la sua sesta o settima, di fare i bagagli e
di partire con lui. Sì che era per un lavoro; si era portato dietro
un po' di attrezzi, che gli altri occorrenti li avrebbe trovati lì.
Era andata a finire che, lavorando come un mulo, il greco lo aveva
imparato alla svelta, e molto bene; ma un greco di merda, da
bassifondi, con qualche preziosismo della “lingua pura” usato a
sproposito e quintali scomposti di laikì, di kaliardà e di altri
gerghi della strada. Ultimamente, da quando gli avevano detto che al
Pireo si parla già diverso che nel resto di Atene, si era sforzato
di prendere l'accento per diventare davvero uno della zona; e la zona
dove si era sistemato con la moglie era un bel cumulo di rovine, ma
che non avevano nulla a che vedere con l'Acropoli. Stava in una
stradaccia con un nome qualsiasi dietro l'Akti Koundouriotou, che
dopo qualche anno di crisi pareva
fosse stata bombardata; avevano trovato un fondo vuoto, che doveva
essere stato di un qualche negozio di qualche cosa inutile, e ci si
erano infilati dentro. Il bandone non c'era più; con dei pezzi di
legno e altri rottami trovati in una discarica, visto che il suo
mestiere lo sapeva fare, aveva messo su una specie di porta-finestra
e poi aveva cominciato a fare il falegname ambulante per pochi soldi.
Il lavoro per il quale era arrivato in Grecia? Due giorni dopo
l'arrivo si era presentato all'indirizzo che gli avevano dato e ci
aveva trovato la Polizia che stava sgomberando a forza della gente,
mentre dalle finestre sopra la gente stava buttando sotto di tutto.
Un poliziotto, a un certo punto, era stato centrato in pieno da un
bidé; un altro, per non essere da meno, aveva ricevuto sul casco una
pesante riproduzione in acciaio temperato della Coppa Europa di
calcio vinta dalla Grecia nel 2004, finale Grecia-Portogallo 1-0,
goal di Charisteas al 12' del secondo tempo. Aveva capito subito che
aria tirava.
La
strada era formata da qualche palazzo molto alto che cadeva a pezzi;
tra i palazzi, però, erano rimaste delle case più basse, alcune
delle quali solo col pianterreno. C'erano parecchi terreni incolti,
quelli che i francesi chiamano terrains vagues,
dove presto erano venute su delle baracche insolite. Quanto alla
fauna che ci viveva, era la crema, l'élite del lastrico di questi
anni: poveracci, straccioni, emarginati, accattoni che facevano a
gara di tare e di storie schifose. Avanzi di galera, buoni a nulla e,
chiaramente, immigrati da paesi che potevano stare anche su Marte
tanto erano fuori dal mondo. Il nome della strada proprio non me lo
ricordo; tanto è inutile. Nel quartiere, comunque, nessuno la
chiamava col suo nome ufficiale, ché tanto la targa stradale era
stata divelta chissà quando; la chiamavano tutti Pachni,
che in greco vuol dire “Mangiatoia”. E così la chiameremo pure
noi; inutile dire che nella zona dell'Akti Koundouriotou, che pure
non scoppiava di ricchezza, dire di venire dalla Mangiatoia era
sinonimo di miseria nera. In uno dei terreni incolti qualcuno aveva
sistemato persino due o tre pecore smagrite; in un altro, peraltro
vicino al fondo dove abitavano il falegname straniero e la moglie,
c'erano invece un asino e un bue, che tutti si domandavano come mai
ancora qualcuno non se li fosse mangiati. Ma anche loro erano pelle e
ossa.
La
vigilia di Natale, girando per le strade, il vecchio aveva letto i
manifesti di Alba Dorata. Il fatto è che, qualche mese prima, aveva
combinato un bel casino con la moglie; vecchio sì, ma ancora bello
in gamba in certe cosine, la aveva messa incinta. Di figlioli, a dire
il vero, ancora non ne avevano avuti sebbene al suo paese ne avesse
una masnada dalle mogli precedenti, e anche un paio da legittime
spose altrui. Un figliolo alla sua età, si era detto, era una
benedizione dal Cielo; però non aveva scelto né il momento e né il
posto più adatto. Ora la moglie stava per sgravare, e in casa non
c'era nulla; certo, quelli là oramai li conosceva bene e sapeva
anche cosa avevano fatto al suo amico pakistano e a decine di altri
come lui. Però doveva tentare. Senza dire nulla alla moglie, era
tornato a casa e aveva detto alla moglie che sarebbe tornato molto
tardi; assieme a lei c'era una vicina di casa greca, una ex
prostituta di settant'anni di nome Elettra, che le stava preparando
una zuppa di non si sa cosa -ed è meglio non saperlo.
I
manifesti parlavano estremamente chiaro: greci e con carta d'identità
greca. E greco non era proprio, il vecchio, nonostante un po' di
greco lo avesse imparato già da ragazzo al suo paese. Il greco era
lingua diffusa e di gran prestigio. Si chiamava Yosef ben Eliyahu e
veniva dalla Palestina, da un paese con un nome strano che, mi
sembra, comincia per “N”; la moglie, invece, si chiamava Maryam.
Correvano strane voci su quella ragazza; alcuni dicevano persino che
l'avesse vinta a una specie di lotteria, dato che non si capiva come
mai una ragazza così giovane e bella si fosse impuntata per sposare
un uomo di quell'età. Tant'è; si erano sposati, e siccome durante
la cerimonia aveva giurato dinanzi a Dio (non uno qualsiasi) di
seguire il marito nella cattiva e nella cattiva sorte, e dovunque, da
quel paese palestinese che comincia per “N” si erano ritrovati
nella Mangiatoia al Pireo, mentre la Grecia affondava e Dio c'era sì,
ma parlava soltanto il greco e si era visto rilasciare anche lui una
regolare carta d'identità ad usum Albae Auratae. Yosef, invece, se
la doveva procurare; e ci doveva pensare alla svelta.
La
cosa era stata risolta grazie a quel delinquente di Christos.
Christos era un altro della Mangiatoia, un ex tipografo che aveva
stabilito un record difficilmente battibile. La Crisi era cominciata
da due ore circa, che lui era stato uno dei primi ad essere
licenziato dal posto dove lavorava; in realtà era stata tutta una
scusa, dato che Christos, in tipografia, rubava da secoli tutto quel
che c'era da rubare: carta, inchiostri, toner, detersivi dal bagno,
birre dal frigorifero. Ricevuta la comunicazione dal direttore, che
lo aveva mandato in culo dandogli del ladro fottuto e augurandogli di
crepare di fame, Christos era tornato nottetempo con un paio di amici
e aveva svuotato la tipografia di tutti i macchinari, trasportandoli
in un posticino che conosceva lui e basta; si era messo quindi a
realizzare il sogno della sua vita, quello di falsificare il
falsificabile e di metterlo a gentile disposizione di chi ne avesse
bisogno. Facendosi pagare un occhio della testa, naturalmente; però,
a modo suo, si mostrava anche generoso. Una carta d'identità falsa,
fatta a regola d'arte, costava duecento euro; ma se gli stavi
simpatico, si poteva ovviare con due o tre serque di uova, con un
lavoro a gratis, con una trombatina alla moglie. Non si sa bene cosa
gli avesse promesso Yosef, posto che di uova non ne aveva. Christos
aveva detto a Yosef di portare una fototessera, e di tornare alle due
del pomeriggio; e alle due gli aveva consegnato una perfetta carta
d'identità ellenica a nome di Iosifos Iliopoulos, nato a Rethymnon
(Creta) il 17 novembre 1928 e residente al Pireo, via Qualcosa n°
92, statura m 1,73, peso kg 64, segni particolari nessuno, di
religione ortodossa e di professione artigiano. Come cazzo avesse
fatto a mettere tutti i timbri e le marche da bollo con la dea greca,
non si sa. Yosef era esterrefatto.
"Senti,
ma perché sarei nato a Creta...?"
"Demente,
ma ti sei visto? Hai la faccia di un palestinese, e più che altro
sei scuro come un palestinese. Ti dovevo scrivere che eri nato a
Stoccolma...?
"E
Creta che c'entra?"
"A
Creta sono parecchio più scuri che qui, gamotò. Ho conosciuto uno
di Rethymnon che era scuro come te, magari era tuo nonno..."
Christos
si mise a ridere sguaiatamente, poi continuò:
"Ascolta,
con questa qui, dammi retta, sei un cretese perfetto oltre che un
cretino, perché solo un cretino ingravida la moglie sotto questi
bei chiardiluna. Alla tua età poi ne potevi anche fare a meno,
anche se ti capisco con quel bel pezzo di....lasciamo perdere, vah.
Però una cosa te la consiglio: se vuoi andare a prendere la roba da
quei pezzi di merda, comunque, vacci a buio, stasera. Tanto sai che
te ne frega del Natale a te, te lo dice uno che si chiama Christos;
ma a proposito, te di che religione sei per davvero?.."
"Boh,
me ne sono dimenticato. Però ci ho il cazzo conciato strano, ho un
certo sospetto..."
"Allora
vacci a buio il doppio, a quelli piacciono poco i monsummani
o come si chiamano, ma mi sa che non gli vadano a genio tanto
nemmeno gli ebrei. Col buio la tua carnagione si nota di meno.
Menomale che parli il greco come se tu fossi nato qui, questo è un
bel vantaggio. Tanti auguri, vecchiaccio, ma stai attento; se ti
riconoscono e si accorgono che hai fatto il furbo, sono cazzi tuoi."
"Lo
so, lo so. E li protegge anche la polizia."
"Io
quel che potevo fare l'ho fatto. Ma tua moglie a che punto è con la
pancia?"
"Ha
finito il tempo il venti, potrebbe scodellarlo da un momento
all'altro..."
"E'
un maschio?"
"Secondo
te ci ho i soldi per andare all'ospedale privatizzato e farle fare
la morfologica? Sarà quel che sarà..."
"Se
è maschio come lo chiamate?"
"Mah,
a me sarebbe piaciuto chiamarlo come te, sai. Te lo giuro. Il tuo
nome mi piace parecchio, ma lei vuole chiamarlo diverso. Un cavolo
di nome che a me piace zero..."
"Sarebbe?.."
"Iesous."
"Iecosa?... E
che minchia di nome è...??"
"Si
chiamava così un suo zio materno che la faceva giocare da bimba. A
dire il vero nella lingua nostra suona un po' differente, ma qui mi
sono impuntato. Voglio la forma greca, ora come ora qui non è bene
chiamarsi da immigrato..."
"Capisco,
capisco. Certo che è un nome bello strano, io non l'ho mai sentito
in Grecia. Vabbè, bando alle ciance. Stai in campana, Yosef, anzi
Iosifos. Iosifos Iliopoulos, ricorda."
"Me
ne ricordo, tranquillo. Ci vado verso le nove di stasera."
"Bravo.
E vacci vestito ammodino, ché Dio ti vede!"
Christos
si mise di nuovo a sghignazzare sguaiatamente, mentre Yosif, anzi
Iosifos, si allontanava. Ora stava in coda tra la Georgiou e il corso
Lambrakis; faceva un freddo da pelare e continuava a ripetersi fra
sé: “Niente incertezze. Niente incertezze”. Fu la donna che lo
precedeva a attaccare bottone, all'improvviso; sembrava averci una
gran voglia di parlare, a bassa voce.
“Freddo
eh.”
Iosifos
alzò leggermente la testa; prima di rispondere, sempre a bassa voce,
si controllò automaticamente la tasca sinistra del cappotto. La
carta d'identità era lì, e quel demonio di Christos la aveva pure
plastificata a dovere. Un gioiellino; era diventato greco cristiano
in due ore, e senza pagare in uova. Ogni tanto, per la strada, si
vedeva qualche giovanotto di Alba Dorata che controllava la coda
interminabile; qua e là passavano anche dei tipi in motocicletta,
con dei caschi che non promettevano nulla di buono.
“Fa
freddo sì, signora. Siamo il ventiquattro di dicembre.”
“Già.
Buon Natale.”
A
questo Iosifos non si era preparato. Di natali ne aveva già passati
qualcuno in Grecia; solo che, alla Mangiatoia, non andava
particolarmente farsi gli auguri. Non si facevano né l'albero e né
i regali. Il ventiquattro c'era la stessa miseria del venticinque, e
il ventisei ce n'era ancora di più. Si trovò subito a biascicare:
“B...buon
Natale a lei signora. Kalà Christoùyena.”
Non
poté fare a meno di pensare che Christoùyena significa
“nascita di Christos” e si ritoccò la tasca sinistra.
“Anche
lei in fila, eh.”
“Già.”
“E
non si vede la fine...”
“La
fine è alla chiesa dell'Evangelistria, credo.”
“Lo
sa quanto c'è alla chiesa?”
“No...”
“Due
chilometri. 'Sto cazzo di corso non finisce più.”
“Prima
o poi ci toccherà, signora...”
“Speriamo.
Lei vota per loro?”
Iosifos
deglutì. Doveva scegliere alla svelta se fare il poveraccio che
aveva votato per il Pasok, o addirittura per i comunisti, se
proclamarsi apolitico o se essere diventato nel giro di poche ore
prima greco e poi fascista. Optò per la terza ipotesi.
“Signora,
voto per loro. Non mi vergogno a dirlo. Anzi!”
Aveva,
senza essersene accorto, alzato un po' la voce. Qualcuno più avanti
nella fila si voltò senza dire nulla; altri fecero finta di non
avere sentito. Iosifos continuò:
“Voto
per loro ma votavo per Nuova Democrazia quando stavo a Creta...”
“Ah,
viene da Creta”, disse la signora. “Nemmeno io sono di qui. Vengo
dall'Argolide.”
“Bel
posto, l'Argolide”, rispose Iosifos che non sapeva nemmeno dov'era,
l'Argolide. La signora Kalitsounaki sorrise.
“Io
non ho mai votato per loro, ma lei non si deve vergognare. Non è
detto che non lo faccia anch'io alle prossime elezioni, perdiana.
Certo che a Creta siete tutti belli scuri di pelle...ci picchia forte
laggiù, eh!”
Si
intromise un giovane magrissimo, che li precedeva di tre posti nella
fila; anche lui sottovoce, ma tutto sembrava come amplificato.
“Io
invece mi vergogno eccome, cari miei. Come un ladro. Ma non c'è più
nulla in casa mia, accidenti alla puttana dell'eva. Tutti sulla
stessa barca, se la roba la dava Pol Pot ero in fila lo stesso.”
La
fila avanzava lentissima; erano quasi le dieci, quando riuscirono
finalmente a passare l'angolo della Georgiou e a svoltare sul
marciapiede del corso Lambrakis. La coda era impressionante; si
cominciava a sentire qualche campana, forse per fare le prove per la
messa. A Iosifos prese la voglia di piantare tutto quanto e di
tornarsene a casa; Maryam, del resto, poteva partorire da un momento
all'altro. Maledizione. Sarebbe tornato a casa in tempo, magari, per
vedere nascere suo figlio; ma in casa non c'era più nemmeno una
briciola di pane. Non poteva andarsene. Tanto, la carta d'identità
la aveva; era tutto al sicuro. Lui era Iosifos Iliopoulos, fascista
cretese. Uno dei loro.
“Io
manco per il cazzo ero in fila da Pol Pot”, disse Iosifos al
giovane. “Io sto coi miei, con la Patria greca in difficoltà.
Contro quei musi neri che ci rubano il pane e il lavoro...ma loro
sanno come trattarli!”
“Nonno,
non mi sembri particolarmente chiaro, tu!”
Aveva
parlato un altro ragazzo, coi capelli cortissimi; Iosifos si sentì
raggelare.
“Certo
che voi cretesi ci credo che ce l'avevate coi turchi nel '21! Siete
uguali!”
Dalla
fila partì una salva di risate, mentre la fila avanzava lenta ma
costante; Iosifos cominciò a sentirsi come ubriaco, e pensare che
non toccava un goccio da giorni.
“Bella
battuta, bravo! Ma noi cretesi siamo l'anima della Grecia, voi qui a
Atene eravate un branco di selvaggi, allora! Ma siamo tutti greci,
fratelli, la Patria è nostra e sappiamo cosa fare!”
Successe
a quel punto una cosa parecchio inattesa. Proprio in quel momento la
coda cominciò a avanzare molto più rapidamente, senza nessun motivo
apparente; la signora Samaritha disse al vecchio: “O stai a vedere
che hanno finito la roba e succede casino”. Tutti sembravano
camminare a passo normale ora, come in una processione di spettri sul
marciapiede d'una grande città; avevano smesso di parlare. Erano i
poveri, gli sfrattati, i diseredati, i buttati fuori, i piccoli
borghesi morti dentro, i nipoti del partigiano, i tifosi
dell'Olympiakos, le studentesse senza mangiare ma col telefonino, gli
impiegati della televisione ammazzata, quelli che il ventuno aprile
si erano girati dall'altra parte, quelli che il ventuno aprile li
avevano rinchiusi nell'ippodromo di Nea Faliro che è pure lì
vicino, quelli che il ventuno aprile non erano manco nati, i precari
mangiaerbe, i pensionati senza pensione, un paio di anarchici e forse
anche tre, i vergognosi, gli orgogliosi, gli ex volontari delle
Olimpiadi, sedici fannulloni inveterati, un cantante fallito, Mikis
Theodorakis, diversi insegnanti che avevano insegnato i valori della
democrazia, diversi insegnanti che non insegnavano un bel nulla,
un'intera squadra amatoriale di pallacanestro, otto preti poco
ortodossi, un numero imprecisato di bambini e bambine e la signora
Samaritha che sembrava sostenere il vecchio Iosifos che la seguiva.
Tutti con la loro carta d'identità ellenica. Non si vedeva neanche
un negro, nel corso Lambrakis. Neanche un indiano. Nulla. Era una
strada greca nel Natale greco.
“Tranquilli!
E' arrivata ancora roba!”
Aveva
parlato un giovanotto gigantesco, vestito col giubbotto nero, da un
motorino scassato che era passato di lì.
“Tu,
vecchio, vieni qui, ché ti voglio abbracciare!”
Iosifos
non si era reso conto che il giovanotto stava parlando proprio a lui;
quest'ultimo, allora, scese dal motorino proprio mentre la fila era
arrivata, velocemente, quasi al capolinea. Vicinissimi si vedevano i
banchi coi militanti, davanti alla chiesa dell'Evangelistria, mentre
le campane cominciavano a suonare a distesa e un'altra fila di
persone, vestite da festa, entrava dentro per la messa. I banchi
erano davvero pieni di ogni cosa; militanti albadoristi
indaffaratissimi confezionavano sacchetti e li davano alla gente che
passava davanti esibendo la carta d'identità sfilando poi via chi a
testa bassa, chi a testa alta e chi senza testa. Degli altoparlanti
diffondevano ora canzoni patriottiche, ora inni sacri della
tradizione.
“Dico
a te, vecchio. Ti ho sentito prima, sai. Ti voglio abbracciare per
questo, camerata!”
Iosifos
si toccò per l'ennesima volta la tasca sinistra. Il giovanotto si
avvicinò, e lo abbracciò convinto. Un vero greco che non si
vergognava, finalmente. Magari un povero lavoratore cui quei
maledetti immigrati aveva rubato il lavoro o la pensione, costretto a
far la fila la notte di Natale per avere qualcosa da mangiare. Ma
tutti oramai sapevano quale fine avrebbero fatto, con l'Alba Dorata
al potere. Nell'abbraccio di quel marcantonio al povero vecchio, dal
collo del maglione spuntò fuori qualcosa. La sciarpa. Aveva degli
strani peneri. Giusto giusto quando la signora Samaritha era stata
servita e si era allontanata con la sua carta d'identità di greca
cristiana, e com'è bello essere cristiani quando Cristo sta nascendo
e suonano le campane a distesa. Magari avrebbe fatto pure un salto
alla messa, e domani ci sarebbe stato qualcosa da mettere sotto i
denti per lei e anche per quello di Pol Pot.
“Ma
cos'è questo?”
“La
mia sciarpa...”
Il
ragazzo cominciò a tirargliela fuori, la sciarpa, al vecchio; a
grandi manciate. Ne venne fuori una bella keffiah palestinese, bianca
e rossa, da combattimento. Yosef se l'era fatta fare a N. da un suo
amico arabo, un bravissimo tessitore che in quel momento stava pure
lui in coda, da diciotto ore, a un valico tra Israele e i territori,
aspettando di poter passare per tornare a casa. Naturalmente Yosef
non lo sapeva.
Una
ragazza al banco della roba, anche lei col giubbotto e biondissima,
disse a Yosef mentre il ragazzo suo camerata guardava la keffiah:
“Me
la fai vedere la carta d'identità, tu?”
Yosef
tirò fuori dalla tasca sinistra la carta d'identità di Iosifos
Iliopoulos, nato a Rethymnon (Creta) eccetera.
“Ma
guarda tu!”, disse la ragazza. “Sono anch'io di Rethymnon, lo
sai?”
“Incredibile!”,
rispose Yosef con una specie di sorriso mentre gli era venuta la
pelle d'oca.
“Già,
incredibile. Dove stavi a Rethymnon?”
“Ci
manco da anni oramai...”
“Sì,
Iosifos caro, ma ti ricorderai dove abitavi, no?”
“In
via....in via Agiou Nikolaou.”
“Via
Agiou Nikolaou a Rethymnon non c'è.”
“Mi
sarò sbagliato...forse era Agiou Mihali...”
“Non
c'è nemmeno Agiou Mihali, bello. E 'sta carta d'identità è falsa.”
“Come
falsa...? Ma che cazzo dici, tu...?”
“E'
falsa perché è firmata col nome del sindaco di Salonicco. La hai
mai vista una carta d'identità di un comune firmata dal sindaco di
un altro comune? Io no.”
Attorno
si era fatto il silenzio e il gelo.
Fanculo
a Christos. Doveva averci uno stock di firme di sindaci e si era
sbagliato. E lui era fregato. Era finita. Telos. Il ragazzo che lo
aveva abbracciato con tanto entusiasmo stava calpestando la keffiah
sotto gli anfibi, mentre si sentivano provenire dalla chiesa i cori
da dietro l'iconostasi: “Brutto arabo di merda, schifoso, lurido
verme! Ci volevi fregare, eh! Di Creta, eh!?! Ecco perché ci hai
quel muso scuro da latrina! Ora te lo diamo noi un bel po' da
mangiare!”
Yosef
fu circondato in due secondi da dieci energumeni, mentre alla sua
keffiah veniva dato fuoco. La sua carta d'identità era stata gettata
pure nelle fiamme; aveva cessato di essere greco, di essere cristiano
e anche di essere vivo.
Alla
Mangiatoia, la Elettra aveva prima cominciato a sentire Maryam
lamentarsi e non sapeva cosa fare; di tutto aveva fatto nella sua
vita, fuorché la levatrice. Nonostante il suo mestiere, di figli non
ne aveva avuti anche perché s'era fatta chiudere le tube da ragazza;
ma tutto s'impara alla svelta, quando occorre. Bisognava, forse,
chiamare un'ambulanza; e con cosa la si pagava, poi? Di ambulanze
pubbliche dell'ospedale manco a parlarne, anche perché l'ospedale
vicino, a ripensarci, non era più pubblico. Quelle private costavano
carissime. Nel fondo alla Mangiatoia faceva un freddo boia mentre
Maryam aveva rotto le acque; si sentì un raglio dal terreno vicino.
“Cazzo,
l'asino...e il bue! Porca troia, magari se li porto dentro, con il
fiato e con la merda fanno un po' di caldo...”, pensò l'Elettra; e
corse fuori a prendere i due animali, spalancando la porta-finestra e
facendoli entrare dentro. Maryam era stranamente tranquilla; era
sicura che Yosef sarebbe tornato da un momento all'altro per vedere
nascere suo figlio, magari rimediando anche qualcosa da mangiare e
una coperta. Da un momento all'altro. Spuntò un testolina.
Il
primo cazzotto prese Yosef spezzandogli una costola, mentre
proseguiva la distribuzione del cibo ai greci; lui non era più
greco, era un morto. Al secondo cazzotto partì un'altra costola,
mentre sentì arrivarsi qualcosa sulla testa. Al terzo colpo caddè
per terra fra gli sputi; al quarto sentì un calcio nei coglioni, ché
tanto suo figlio ormai era nato di sicuro e avevano assolto al loro
compito naturale. Al quinto colpo sentì due raffiche di mitra e vide
cascare a terra in una pozza di sangue il ragazzo di Alba Dorata che
lo aveva scoperto, e anche la ragazza pura cretese di Rethymnon. I
colpi erano tutt'altro che cessati, e si vedevano due automobili ferme con tre
persone che continuavano a sparare mentre la gente scappava da tutte
le parti, chi abbandonando sacchettate di roba, chi arraffandone a
più non posso. A terra c'erano otto fascisti, mentre gli altri erano
scappati in chiesa; si sentivano urla dappertutto e, più in là,
altri cadaveri col giubbotto nero. Le due automobili erano ripartite,
nel frattempo, a velocità folle. Yosef si rialzò sanguinante; era
mezzanotte in punto. Nella confusione, raccolse tre sacchetti di
roba; uno era pieno di latte in polvere multinazionale. Correre.
Anche se non ce la faceva. Correre. Correre a casa, mentre nel cielo
splendeva una luce.
Arrivò
alla Mangiatoia trafelato e ridotto a un ecce homo. Coi suoi
sacchetti ridotti a ecce sacchetti, ma la roba ancora era là dentro.
Erano quasi le una di notte.
Maryam
era distesa sul pagliericcio, vicino alla cucina economica e alla
bombola del gas dalla quale il gas mancava da dodici giorni.
Sorrideva, con un marmocchio sulla pancia; l'Elettra era seduta,
sporca come una fogna; per terra, liquidi, pezzi di placenta, ogni
cosa. Il bambino era bellissimo e dava lievissimi vagiti; ci aveva
pure un bel pisellino. Maryam non parlava.
“Ce
l'hai fatta a tornare a casa, tu”, disse l'Elettra leggermente
incazzata. “E ti sei anche perso la nascita di tuo figlio,
stronzo.”
“Sì,
però ho portato a casa tre sacchettate di roba...”
“E
dove le hai prese?”
“Non
te lo dico.”
“Non
sarai mica...?”
“Andato
a rubarle, dici?”
“Se
tu le avessi rubate avresti fatto benissimo. Io dicevo...non sarai
mica andato da quei merdosi...?”
“Dici
quelli di Alba Dorata? Ma sei ammattita? Secondo te danno la roba a
un ebreo palestinese?...”
“Appunto...”
“Ma
com'è che ti sei conciato così? Sei ferito!”
“Sono
stato preso da una macchina qui vicino...”
Non
disse più niente, Yosef. Corse dalla moglie e dal bambino. Da
Iesous, con quel nome un po' a bischero, di sicuro; ma così era
stato deciso. Maryam non parlava, e quel suo non dir nulla era un
misto di felicità e di pugni al cielo. Un po' più in là stavano
portando via dodici cadaveri di militanti di Alba Dorata ammazzati,
secondo il referto che qualcuno avrebbe stilato sicuramente, da
svariate raffiche di tre diversi mitra. La roba sui banchi era
scomparsa, così come quella abbandonata a terra nel fuggi-fuggi
generale; le prime agenzie internazionali stavano passando con la
notizia della strage di Natale al Pireo. Nel cielo brillava,
inesorabile, il raggio laser proveniente dalla discoteca “Comet”,
da poco aperta vicino allo stadio Karaiskaki.