mercoledì 4 dicembre 2013
Internazionalismo
Era piuttosto semplice
essere internazionalisti.
A
casa propria, naturalmente. A parte un pugno di quelli veri, che
prendevano armi e bagagli e andavano a combattere realmente dove si
combatteva, e ci morivano. Talmente pochi, che oggi ci scrivono dei
libri sopra; quei pochi che andavano incontro alle cose.
Mi
dicono, e mi ripetono, che allora tutti si sentivano coinvolti da
tutto ciò che accadeva nel mondo, perché quel che accadeva nel
mondo riguardava tutti. Se una data situazione era relativamente
vicina, arrivavano magari gli studenti come quelli greci negli anni
della dittatura dei Colonnelli; ma si mostrava solidarietà
attiva anche nei confronti di
avvenimenti lontanissimi, come quelli del Cile o dell'Angola. Ogni
tanto si vedeva qualche esiliato.
E
così, in questi giorni, mi sento fare spesso un discorso. Mi dicono
che, di fronte a quel che è successo a Prato pochi giorni fa, la
mobilitazione sarebbe
stata immediata. Senza dubbio; il problema è che, allora, i sette
lavoratori cinesi bruciati nel capannone non c'erano. Non c'erano né
le Chinatown a due
passi da casa, né le immigrazioni di massa. Lampedusa era una
meravigliosa isoletta più vicina all'Africa che all'Italia, dove
faceva sempre caldo. E c'era tanta solidarietà quotidiana, tanto
coinvolgimento senza
avere quei cazzo di coinvolti
tra i coglioni nelle città, nelle fabbriche, nei campi di pomodori,
nei mercatini, nelle case occupate.
E
così, oggi, sette lavoratori cinesi morti bruciati mentre dormivano
dentro una fabbrica non coinvolgono più
nessuno; la cosa passa e va, col solito balletto istituzionale, i
lutti cittadini, i
“non ce la facciamo più” e, in realtà, la più gelida
indifferenza. E chi se ne frega, so' cinesi. Niente più sventolii
del Libretto Rosso, ora si sventola il libretto di lavoro.
Chissenefrega se solo due anni fa un nazista armato si è presentato
in piazza Dalmazia sparando addosso ai negri. I cinesi? Ce ne stanno
duemila in due metri quadri, chissà come hanno fatto a bruciare solo
in sette.
Quando
il coinvolgimento ce
lo abbiamo avuto sotto il naso, nella quotidianità; quando si
trattava di manifestare solidarietà per quel che succedeva a
Rosarno, e non in qualche Mozambico; quando si trattava di
mobilitarsi ogni giorno perché quel che accade a chiunque, qua
accanto a noi, riguarda davvero tutti e non certamente nelle fulgide
idealità; quando non ci si accorge nemmeno che i lavoratori del
settore della logistica stanno lottando da mesi tutti assieme,
italiani e stranieri, senza differenze; quando sarebbe necessario e
anche più facile mettere in pratica questa cosa elementare, dato che
le situazioni sono arrivate qui da noi in tutta la loro crudezza, e
non più attraverso i racconti e le testimonianze di qualche
esiliato; allora la solidarietà è scomparsa.
E'
scomparsa la mobilitazione. E' scomparso il coinvolgimento. Bruciano
i cinesi; nemmeno un misero presidio. Eppure sono sette lavoratori,
sette schiavi, sette come quelli della Thyssen. Eppure si sa
benissimo perché sono morti, e anche chi li ha ammazzati. Eppure si
sa bene che il Casseri ha sparato ai senegalesi come altri pari a lui
sparerebbero agli italiani; si dice sempre che “potrebbe toccare a
chiunque” ma, nella realtà, se tocca a dei cinesi l'indifferenza
si nutre proprio di questo. Sono separati.
Sono misteriosi.
Rispuntano le battute idiote sul fatto che “sono tutti uguali”.
L'attenzione viene immediatamente spostata sul fatto che sono
“clandestini” e “irregolari”, in un frangente in cui ci hanno
spinto tutti quanti nella clandestinità di fatto e
nell'invisibilità. E così un fatto come quello di Prato, oltre a
scomparire dopo due giorni dalle cronache (nelle coscienze, comunque,
non è mai nemmeno entrato), assolve esclusivamente alla funzione di
passerella per gli assassini. Loro sì che sono coinvolti,
e sanno di esserlo; logico che facciano di tutto per spostare
l'attenzione sui terreni che fanno più comodo. Mica si parla di
capitalismo globale, si parla delle condizioni di lavoro
mentre gli stessi agiscono
quotidianamente per smantellare ogni conquista. Parlano addirittura
di “Auschwitz” nella fabbrica dei cinesi, senza essere mai
entrati in un call center. Parlano di “offesa alla dignità dei
lavoratori”, loro.
Di
fronte a tutto ciò non sarebbe occorsa una semplice “mobilitazione”.
Sarebbe occorso prenderli tutti quanti a mazzate, stiamoci poco a
girare intorno. D'accordo la “solidarietà”, ma essa ha bisogno
di parlare ogni volta un linguaggio adeguato per essere veramente
capita ed avere, quindi, una reale efficacia. Nulla di tutto questo,
naturalmente.
Com'era
bello, sì, l'internazionalismo
quando era bello lontano. Così rassicurante. Quando si espletava in
un mondo ancora dilatato, e dove le distanze ancora esistevano. Si
scendeva in piazza a migliaia e migliaia per l'aggressione
all'Angola, e succedeva anche, a volte, che la polizia caricasse e
sparasse; succedeva persino, in qualche caso, di rimetterci la pelle
suscitando l'agghiacciante sarcasmo della stampa di regime (“Morire
a vent'anni per l'Angola”, come titolò la “Nazione” dopo
l'assassinio di Piero Bruno il 22 novembre 1975). Ora, invece, i
cinesi possono pure bruciare nei loculi in cartongesso, finendo
triturati nel chissenefrega più sovrano. Passati dal “ci riguarda
tutti” al “cazzi loro” nel giro di una generazione, e in un
momento in cui il coinvolgimento generale ce lo abbiamo, tutti i
giorni, davanti al naso. In cui l'internazionalismo è
venuto a farci una visita di massa. E così si rimuove. Anzi, che
brucino tutti, così Prato tornerà ai pratesi; magari torneranno
pure “di sinistra” con le case del popolo e l'Arcicaccia; e
noialtri torneremo, invece, a manifestare per la vile aggressione
imperalista al valoroso popolo senegalese mentre qualche fascista di
Pistoia scorrazza per i mercatini armato fino ai denti.
Nessuno
che dica che in quella fabbrica di Prato siamo morti anche noi,
perché quelle persone erano come noi. Come noi stritolate negli
ingranaggi. Come noi costrette a vivere una vita da schiavi. Come noi
ammazzate dai padroni. Come noi obbligate a sottostare ai ricatti del
sistema, perché qui non si tratta mai di stupide “filosofie” e
di bizantinismi verbali. Si tratta della cruda realtà quotidiana,
tanto visibile quanto ignorata. Invece no; sono cinesi di cui non si
sa nemmeno il nome. Sono carne da macello come lo siamo noi, però a
noialtri piace forse considerarci carne di prima scelta, bistecche
sulla tavola del padrone.