sabato 7 dicembre 2013

Due o tre cose su Mandela



Ora lo stanno facendo passare per un „Gandhi”, Nelson Rolihlahla Mandela. Scordando magari che in galera per ventisette anni c'è stato per le sue lotte. Eppure basterebbe sfogliare un comunissimo articolo Wikipedia, non fare ricerche alla Biblioteca del Congresso; una lotta cominciata fin dagli anni '40 e radicalizzatasi nel 1952, con la campagna di resistenza dell'ANC e l'organizzazione dell'ufficio legale Mandela & Tambo per fornire assistenza a basso costo a molti neri che ne sarebbero rimasti privi. Fu arrestato per la prima volta il 5 dicembre 1956, nella stessa data che molti anni dopo sarebbe stata quella della sua morte; dopo il massacro di Sharpeville nel marzo 1960 e la successiva interdizione dell'ANC e di tutti gli altri gruppi anti-apartheid, passò ad appoggiare senza reticenze la lotta armata contro il regime razzista sudafricano. Fondò lui, Nelson Mandela, l'ala armata dell'ANC, Umkhonto We Sizwe („Lancia della Nazione” in lingua xhosa), della quale fu comandante in capo coordinando le campagne di sabotaggio e i pianidi guerriglia. Si dedicò a raccogliere fondi dall'estero e dispose addestramenti paramilitari per i combattenti. Il suo definitivo arresto nel 1962 avvenne grazie a informazioni fornite al governo sudafricano dalla CIA, e qualcuno dovrebbe dirlo una buona volta al piangente Obama. Inizialmente fu condannato a cinque anni per „viaggi illegali all'estero” e „incitamento allo sciopero”; ma il 12 giugno 1964, mentre era ancora in carcere, fu condannato all'ergastolo per „sabotaggio e tradimento”. In carcere scrisse il manifesto dell'ANC, che fu pubblicato il 15 giugno 1980; un suo famoso passo recitava testualmente: ”Unitevi! Mobilitatevi! Lottate! Tra l'incudine delle azioni di massa e il martello della lotta armata dobbiamo annientare l'apartheid!”. E' rimasto in carcere fino al 1990; è stato per qualche anno presidente del „nuovo” Sudafrica, dove ora i minatori neri in sciopero possono tranquillamente essere massacrati da poliziotti neri. Così, ora, Nelson Mandela deve, nell'ora di sua morte, beccarsi il massacro dei „cordogli planetari”, espressi da tutto un gotha di figure che definire improponibili sarebbe un eufemismo; compresi quelli di Israele e del suo primo ministro Gnagnagnàu o come accidenti si chiama. E pensare che Israele è stato l'unico stato al mondo ad aver riconosciuto i Bantustan tipo il Transkei, il Ciskei e il Bophutatswana, gli stati-fantoccio creati nel 1977 dal regime razzista come ghetti per la deportazione della popolazione nera (che fu privata della cittadinanza sudafricana). 

Ce ne sarebbero da dire parecchie altre, su Nelson Mandela. Prima di tutto andrebbe riconosciuto il suo ruolo di combattente niente affatto „pacifista” come si è voluto far passare dagli anni '90, con la sua liberazione dal carcere, e, ovviamente, in queste ore successive alla sua scomparsa. Sarà forse che quando sento nominare „Gandhi” mi viene l'immediata voglia di imbracciare un AK 47 e sparare a tutti i cialtroni che esaltano un razzista indiano il quale, proprio quando risiedeva in Sudafrica, ebbe a pronunciare più volte parole di autentico disprezzo razziale nei confronti della popolazione nera. Li chiamava Kaffir i neri sudafricani, il „Grand'Anima”, scrivendo cose del genere (rivelate da Joseph Lelyveld, ex direttore editoriale e inviato del New York Times, nel suo volume Great Soul: Mahatma Gandhi and his Struggle with India, pubblicato da Alfred Knopf): «Di regola non sono civilizzati, sono fastidiosi, sporchi e vivono quasi come animali”, oppure „«Fummo fatti marcire in una prigione riservata ai Kaffir. Potevamo capire di non essere collocati insieme ai bianchi, ma essere messi sullo stesso livello dei Kaffir ci sembrò insopportabile”. E ancora: „«Un indiano deve essere vessato perché lavora troppo, un Kaffir deve essere vessato perché non lavora abbastanza», «Gli indiani vengano trascinati al livello dei rozzi Kaffir, la cui occupazione è cacciare e la cui sola ambizione è radunare il bestiame e comprarsi una moglie, per passare la vita nell’indolenza e nudi» e, infinine, parlando degli Afrikaners bianchi: «Noi indiani crediamo nella purezza della razza quanto loro». 

Gli è toccato poi, a Mandela, gestire la cosiddetta „riconciliazione nazionale” in Sudafrica; in pratica, tenere a bada la voglia di vendetta e di rivalsa dei neri sudafricani. Si potrebbe anche dire che, nel „nuovo” Sudafrica era abbastanza facile, dato che le leve del potere e le risorse economiche sono rimaste in massima parte nelle mani dei bianchi, e sta casomai emergendo (a fatica) una media borghesia nera che ancora ha però scarsa incidenza sull'economia che conta. In pratica, l'apartheid è stato eliminato nelle sue componenti più visibili e eclatanti (e nella rappresentanza politica di sistema) ma persiste nella vita reale del paese, con una separazione di fatto nonostante gli esempi di „buona volontà” istigati in primis proprio da Mandela. Nelson Mandela, una volta inserito come „figura carismatica” nella gestione diretta del potere, non ha minimamente messo in discussione il sistema capitalista in Sudafrica; chi lo ha fatto, come Steve Biko o Chris Hani, ha pagato con la tortura e con la vita. Il „nuovo Sudafrica” di Mandela è esattamente quello vecchio con qualche ghetto nero in più (l'intera downtown di Johannesburg, ad esempio), con tante manifestazioni esteriori pronte per gli applausi internazionali e con le stesse miniere di diamanti, con la stessa De Beers, con le stesse townships e le stesse disuguaglianze. Mandela non ha avuto né il coraggio e né la forza di spingersi oltre, mettendo in discussione quello stesso sistema capitalista che è stato alla base dell'apartheid; se è giusto ricordarlo per la sua lotta, è giusto anche riconoscere dove questa lotta si è fermata e si è arenata. Fosse proseguita, non avrebbe del resto avuto così tanti „cordogli” planetari, e neppure il „premio Nobel per la pace” e il film di Clint Eastwood. Non avrebbe avuto il „Palamandela” a Firenze intitolatogli da vivo. Il vecchio combattente incarcerato dal potere, a un certo punto, si è convertito alle „riconciliazioni”, e si sa bene dove menino generalmente, codeste riconciliazioni. Menano al mantenimento pieno del potere economico da parte di chi già lo aveva, e a qualche contentino di imborghesimento per una ristretta fascia della massa esclusa. Per il resto, c'è sempre bisogno di scendere a cavare „diamanti per sempre”, c'è sempre bisogno della forza lavoro a buon mercato che è sempre esistita, e c'è sempre bisogno degli immancabili e simbolici „panem et circenses” (il rugby, i mondiali di calcio con le vuvuzelas), cui viene attribuito un valore buono sia per illudere gli allocchi, sia per gli „abbracci” che piacciono tanto ai futuri cordoglianti. 

Giusto quindi, a mio parere, ricordare Nelson Mandela per quello che è stato, stando lontani anni luce dai cori unanimi. Dicono che il nome „Rolihlahla”, che sarebbe stato quello vero di Mandela se, alle scuole elementari, non gli avessero imposto anche quello dell'ammiraglio di Trafalgar, significhi „colui che combina guai” (secondo altre interpretazioni vorrebbe dire invece „rompiscatole”); e per un certo tempo di guai ne ha combinati parecchi, oppure ha rotto parecchie scatole. Non ne ha combinati però quanti ancora ce ne volevano, di guai, rovesciando il Sudafrica come andava rovesciato. Non ne ha rotte abbastanza di scatole, preferendo „riconciliarsi” con chi ancora emargina, sfrutta, uccide a livello locale e planetario. Si è messo a fare il „piacione”, Nelson Mandela, e infatti alla sua morte è piaciuto a tutti nel consueto festival dell'ipocrisia a base di Gandhi e altro. Io ho ritenuto degno ricordarlo, ma con queste due o tre cose. 

Nella foto sopra: Chris Hani e Peter Mokaba a un comizio del Partito Comunista Sudafricano agli inizi degli anni '90; Nelson Mandela è seduto a sinistra. Chris Hani è stato ucciso il 10 aprile 1993.