lunedì 16 dicembre 2013

Il tredici dicembre (Santa Lucia)



E poiché il sottoscritto non si sentiva per nulla propenso a dialogar co' forchettoni, con le legalità manu militari e con le consuete rivendicazioni piccolo-borghesi; poiché non ci aveva proprio niente da capire in quelle masnade di gentecomennòi, che poi gli è solo gentecomellòro, lasciando volentieri l'incombenza a tutta una serie di volonterosi cui piace non dico sprecare il tempo, ma addirittura cacarci sopra, essendo giunto il tredici di dicembre (Santa Lucia, il giorno più corto che ci sia) decise di andarsene a un corteo d'antifascisti, convinto com'era che quel ch'era accaduto non più di due anni prima non appartenesse a un passato da rimuovere alla svelta, ma a un presente sempre più buio e crudelmente stupido. Vi andò quindi, in compagnia di centinaja d'altre persone che s'erano raunàte di fronte alla basilica di San Lorenzo, presso uno de' luoghi ove il lugubre fascista Casseri Gianluca, da Piteglio (Pistoja), aveva preso a sparare -come poco prima in piazza Dalmazia- su tutto un mondo; e io e anche te che mi leggi, amica o amico, ne facciamo parte anche se ci è andata bene, anche se non ci si chiama Samb o Diop, anche se non eravamo là in quegli orribili momenti. Ne facciamo parte e s'ha da sapere bene chi sono i nostri nemici, da riconoscere chi ci vuole morti. 

Fu così che, durante quel corteo, decise di infrangere l'oscuro con un'immagine passibile di far venire i bordoni; e s'appostò col suo zaino e la marmotta Maddalena, e la prese. Sfilava una goccia di maestà nella fredda sera dicembrina, tra le finte luminarie d'un finto cristo nato per segnare il crollo dell'indice dei consumi. Sfilava anche un ragazzo nell'ombra, una presenza che si percepiva in ogni cosa e non solo nel suo nome che veniva gridato tra rabbia e lacrime.


Terminato che fu quel corteo, il sottoscritto doveva aspettare oltre due ore per recarsi alla vicina stazione della ferrovia; aspettava, come ogni venerdì sera, una persona che gli è sommamente cara. Si ritrovò dunque nella necessità di far passare quel lasso di tempo.

Quanto tempo era che non girava per due ore intere per quel quartiere; lo faceva in un giorno in cui, per motivi più che banali, non aveva mangiato assolutamente niente. Saltato il pranzo. Nulla sotto i denti. Già prima del corteo, era arrivato in San Lorenzo prossimo a cascare in terra dalla fame; e chi lo conosce, sa che cosa significa la fame di R.V.

Fame che si stava esplicando, in quel momento, in un quartiere che aveva visto una bella parte della sua adolescenza; tra il mercato e girate senza meta né costrutto, puzzolente, forse innamorato e senz'altro con una quantità rimarchevole di rotelle disassate. Era un altro tempo, era un'altra città nel vedere, nel sentire, nell'annusare. Perché quel sottoscritto, con il quale oggi mi nomino in terza persona, era anch'egli un altro; ma la fame, quella sí, era la stessa. C'era, vicino alla statua, un baracchino di trippajo; ne montava un'odore di lampredotto da far venire l'appetito persino a' morti, e figuratevi a uno che era vivo.

Il panino col lampredotto è questa cosa che si vede qui accanto. È una "rosetta" riempita dal trippajo con un bollito di abòmaso bovino, ci metto l'accento perchè non si pensi che abbia qualcosa a che vedere col sadomàso. C'è chi se lo fa preparare con la salsa verde o con la salsa piccante, ma quello vero si mangia solo col sale e col pepe, e col sopra del panino un po' inzuppato nel brodo di cottura. Oltre a essere una delizia assoluta, è come mangiarsi Firenze con tre euri e cinquanta; ben più della famosa bistecca, perché il panino col lampredotto te lo puoi mangiare direttamente con San Lorenzo davanti agli occhi.  O anche con piazza dell'Isolotto, come fo sempre; ma intorno ci hai non soltanto il vedere, ma anche il sentire e l'annusare. Come dicevo prima. Così me ne sono andato a mangiare un panino e a bere un bicchiere di vino; mi aspettavo il solito trippajo vestito da trippajo, unto come un trippajo, loquente come un trippajo.

Dentro il baracchino, invece, c'era una delicatissima e bella ragazza con gli occhi leggermente a mandorla. Ho chiesto il panino, e questa s'è messo a prepararlo come un trippajo fiorentino, con gli stessi gesti. Tirare fuori il lampredotto dalla pentola col forchettone bidentato. Adagiarlo sul tagliere. Tagliarlo coi coltellacci incrociati e depositarlo, con gli stessi, nella rosetta tagliata in due e smidollata. Il lampredotto nella parte di sotto, la parte di sopra inzuppata nel brodo. Il sale e il pepe. Il bicchiere di vino rosso. Quante volte in vita mia l'avrò visto fare; il tredici dicembre, Santa Lucia, me lo stava facendo una ragazza delle isole Filippine.

Mi sono accorto allora che i rumori e le voci di quel panino non erano più quelle di quand'ero ragazzo. Erano voci dove il parlare fiorentino era confuso e armonizzato in mezzo a diecimila altre lingue. L'odore del lampredotto era frammisto a quello d'altre cose una volta lontanissime, persino immaginarie. Mi guardavo intorno magari pensando a quale antico nome spagnolo avrà avuto quella provetta trippaja fiorentina di Mindanao o di Luzón, Encarnación, Corazón o María Inmaculada. Ché fiorentina era, come me e come quegli altri; ché lampredotto era, e meraviglioso, cotto al punto giusto e ben sistemato nel panino, come quello preparato dal Pinzauti Mario o dal Degl'Innocenti Rigoletto. E allora, dopo essere andato al corteo con un po' di fame in meno, e dopo aver gridato i nomi di due fiorentini di Dakar o della Casamance ammazzati da un cadavere fascista di nessun luogo, sono tornato in San Lorenzo a quell'ora dove il mercato chiude, e i barrocciai sbaraccano riportando a mano i barrocci e le merci nei magazzini sotto i portici di via dell'Ariento o di via Panicale. E mi sono messo a camminare, da solo, mentre mi era tornata una fame da diluvio.

Il mercato che smobilitava alla fine della giornata mi ha accolto con un rap in rumeno. Un rap in rumeno non lo avevo mai sentito; veniva da un barroccio dove si vendevano cinturoni con gli strasse, borse coi peneri, piattini con Padre Pio, torri di Pisa fabbricate a Taiwan, bandane e qualche keffiah palestinese. Questo rap ci aveva qualcosa a che fare col sole; din soare, din soare, coglievo nel ritornello, che vuol dire: "dal sole, dal sole". A quel punto, la mia personale iconografia avrebbe dovuto ricordarsi di quando, quattordicenne, avevo cominciato a imparare il rumeno; ci sarebbe stata bene, con gli ascolti notturni di Radio Bucarest per sentire un po' come suonava per davvero la lingua che mi compariva per la prima volta su una grammatichetta Hoepli del 1918 sottratta alla biblioteca della scuola. Di rumeni in Italia, in quel 1977, ci saranno stati soltanto i funzionari dell'ambasciata e qualche antico residente capitato per un matrimonio o chissà per quale altro sbalzo dell'esistenza; ora, bastava passare per il mercato di San Lorenzo all'ora dello sbaracco de' barrocci, e si sentivano i rap din soare. Perfetto esempio di una delle principali regole della lingua rumena, che rimane un po' strana a noialtri; in rumeno l'articolo determinato si appiccica in fondo al nome ("il sole" si dice soarele), ma se il nome è in compagnia di una preposizione l'articolo non si deve mettere e si dice, appunto, din soare. Nulla di tutto questo. All'improvviso mi ero accorto che stavo prolungando la manifestazione, ma da solo. Dimostravo, senza dire mezza parola, col "collo" di maglia calato in testa e con sulle spalle lo zaino con la marmotta Maddalena, nota anche come la Marmotta di pelouche più fotografata dalla Questura. Dimostravo scrivendomi, in testa, queste cose. Dimostravo guardando. Dimostravo riacchiappando quelle strade con le loro voci cambiate, con un nuovo amalgama, con tutto quel che continuava a sfuggirmi tranne una cosa, una sola.

Non era a caso che proprio quelle strade, dopo piazza Dalmazia, fossero state scelte dal nazista della montagna Pistoiese per il suo raid; e io li odio i nazisti della montagna Pistoiese, non ho l'Illinois a disposizione ma  due anni fa, nella mia città, ho visto in azione l'oscuro e la paura propagandati come prassi armata esercitata per creare un consenso. I mercati. Due mercati. Camminavo per quelle strade comprendendo definitivamente il perché delle campagne di pulizia etnica della Nazione, che non sono dissimili nella loro sostanza dagli spari del Casseri. Tutti quanti al servizio del padrone, e il padrone vuole centri "storici" dove la storia smetta di esistere col suo fluire e coi suoi intrecci, con le sue ondate e con il suo lampredotto filippino. Il padrone vuole salotti buoni, vuole il decoro piccoloborghese sempre e comunque anche se lo traveste, a volte, da lusso; ma è un lusso che sa di piccole cose di pessimo gusto, quello del padrone. Non ha nessun odore. Sa di nouvelle cuisine del cazzo, non di trippa e centopelle. Per questo mette in azione, il padrone, il suo Casseri o il suo giornale massone. O il suo sindaco, o il suo pretonzolo antidegrado. Dal barroccio accanto, già mezzo smontato, veniva altra musica in una lingua a me ignota; e forse diceva le stesse cose mentre mi accendevo un sigaro antifame. Mi era tornata, la fame, in grande stile. Una cisterna vuota al posto dello stomaco.

Piglio una strada laterale, andando verso la stazione della ferrovia. Così a caso, tanto si va comunque in quella direzione; oltre alla fame, ho addosso un freddo cane. Passo davanti a un kebabbaro, ormai ce ne sono a decine; e mi colpisce il nome. Newroz Kebab. Il Newroz è il capodanno persiano, curdo, caucasico, centrasiatico; è un nome scritto in decine di modi diversi. È un'antichissima parola persiana ove new significa "nuovo", tanto a sottolineare che il persiano è lingua indoeuropea, e roz vuol dire "giorno"; ma il vero significato sarebbe "nuova luce". Roz, con un bel rotacismo iniziale e la "z" delle lingue satem, viene dalla stessa radice *leuk della "luce" (lux, light, Licht) e della "luna" (*leuksna). Dopo il sole rumeno, la luna e la luce; e il kebab. Entro nel Newroz con passo militaresco, deciso a combattere la mia battaglia; dentro, due ragazzi giovanissimi guardano avidamente la tv sintonizzata sul satellite, mentre passa una sit-com intitolata "Ciran Ciran". Il canale televisivo è turco, ma passano in sovraimpressione scritte pubblicitarie con indirizzi di Diyarbakir, e niente affatto in turco. Sono in lingua curda. E sono in via Panicale, Firenze, il tredici dicembre (Santa Lucia).

La lingua curda di distingue bene dal turco, perché è piena di "w" e di "q" (lettere del tutto assenti dall'alfabeto turco). Come il persiano, è una lingua indoeuropea. Nella sit-com si vedono uomini rigorosamente incravattati, ma qualcuno ha cravatte sgargianti (un tizio coi baffi la ha addirittura rosa). Le donne più attempate hanno il foulard in testa, quelle più giovani esibiscono chiome fluenti e trucchi esagerati; si sentono le finte risate di sottofondo, e i due ragazzi ridono pure loro. Dev'essere una cosa buffa. Prima di mettermi a sedere a un tavolo, prendo una decisione storica; ordino il Superchebabbone Special. E mentre me lo prepara uno dei ragazzi, decido di non prendere né bibite, né birra e né vino; vo al frigo e piglio un barattolo di ayran, yogurt con acqua ghiacciata. Dal lampredotto filippino all'ayran curdo naturfrisch, dato che è prodotto in Germania.

Mi viene portata una piattata spaventosa, contenente deliziose fettine di rinoceronte adagiate su uno sfizioso letto di verdurine vulcaniane e patatine fritte del mesozoico, il tutto condito con una delicata salsina al molibdeno; sotto lo sguardo interrogativo del ragazzo curdo (che peraltro continua anche a guardare la televisione), inizio l'opera di distruzione del Superchebabbone Special. Non lo mangio: lo rado al suolo. Nel locale c'è un calduccio da far meraviglia, e terminata vittoriosamente la battaglia chiedo urbanamente al ragazzo curdo se posso aspettare un po' al tavolo, dato che all'arrivo della persona che aspetto manca ancora un'ora e passa. Lo pago per sicurezza, e mi risiedo al tavolo dopo che il ragazzo m'ha fatto cenno di fare come se fossi a casa mia; e, infatti, come se fossi a casa mia comincio prima a pencolare con la testa e poi mi stendo con la testa sulle braccia incrociate, e mi addormento per una bellissima pennica. Ronf. Tra la piattata vuota, il barattolo vuoto dello yogurt naturfrisch, due telefonini e il libro di Ferracuti che racconta la strage dei picchettini dell'Elisabetta Montanari. Ravenna, tredici marzo millenovecentoottantasette. E non fate finta di ricordarvene, perché tanto non è vero.

Quando mi sveglio, dopo una mezz'ora di sonno vero, la trasmissione al Newroz Kebab è cambiata. Ora c'è un telegiornale in turco, ma entro poco diventa una partita di calcio. Mi rivedo per un attimo all'Allah Snackbar di Friburgo; poi esco e mi riaccendo un sigaro. E' ora di andare alla stazione dopo essermi sgranchito le gambe, tirato un rutto in mezzo alla strada e risistematomi il "collo" sul capo. Non vinceranno. No pasarán. Non prevarranno le loro città finte e agghiaccianti. Potranno mandare altri Casseri, potranno fare un articolo al giorno inventandosi paure e terrori, potranno sfrattare, potranno espellere; la città mette in campo la sua vita, e la vita vince sempre e comunque. Mette in campo il suo disordine armonico e il suo puzzo che ha un profumo bellissimo. Mette in azione quel miscuglio di nuovo e di storia che è nemico di chi la storia fa di tutto per farcela dimenticare. Mette in azione la lingua curda a due metri dalla lapide di Carlo Lorenzini, papà di Pinocchio; e non c'è dubbio che il Pinocchio sia stato tradotto anche in curdo. Mette in azione barricate impalpabili, ma proprio per questo insuperabili. Ed è per questo che, camminando verso la stazione, continuo la mia personale e durissima manifestazione senza parole. Sono tutte già scritte, e sono qui.