lunedì 24 febbraio 2014

Quaranta galere fa


Stasera ero uscito per due cose. La prima, l'hanno annullata. La seconda era un film che avevo visto e rivisto. Alla fine ho deciso di tornare a casa. Di film già visti, si vede che non ne avevo tutta quella voglia.

Sarà, probabilmente, anche per questo motivo che ultimamente ho poca voglia di scrivere.

Così sono passato da quel bar aperto fino a tardissimo, dove hanno i sigari che fumo. C'è entrato anche un grondino, con quei pochi soldi che avevo in tasca.

Al semaforo di via Fra' Giovanni Angelico devo girare a destra e prendere i Viali, per tornare a casa. A Firenze si prendono sempre i Viali. Tettuppigliviali.

Trenta metri prima m'è venuta a mente una cosa. M'è venuto in mente che, stasera, è il ventiquattro di febbraio.

Allora, all'improvviso, non ho girato a destra.

Ho tirato a diritto. Sono andato in via dell'Agnolo.

In fondo a via dell'Agnolo ci ha lavorato il mio babbo, per una vita. E, in cima a via dell'Agnolo, c'era il carcere delle Murate.

Quaranta galere fa.

Esserci e non esserci. Quarant'anni fa ero un bambino di poco più di dieci anni. Sicuramente, a quell'ora ero già andato a dormire, o mi ci avevano mandato. Avrò guardato Carosello. Avrò sognato qualcosa che si sogna da bambini. Non lo so.

Intanto, in quella che era la galera della mia città, c'era un ragazzo che aveva sì e no dieci anni più di me.

Dieci anni, dieci stupidi anni bastano per segnare un confine. Il sonno di un bambino e la rivolta in una galera.

Ventiquattro febbraio 1974. Esserci e non esserci. Pochi chilometri di distanza.

Sono sceso dalla macchina parcheggiata a cazzo sul marciapiede.

Dove c'era la galera, ora ci hanno fatto gli appartamenti. E i locali alla moda. Persino il “caffè letterario”. Dicevano che in via delle Murate, così si chiamava non mi ricordo se via dell'Agnolo o via Ghibellina, c'era uno scalino; e chi non lo aveva salito, non era fiorentino.

Gioventù moderna e ben vestita, persino un qualsiasi lunedì sera.

E le piazzette. Nel cortile della galera.

Ma quel ragazzo di quaranta galere fa, no, non lo hanno voluto ricordare.

Abbattuto come un cane su un tetto, da un poliziotto, con una raffica di mitra.

Ragazzo,
senti il rumore del tuono?
forse da qualche parte un uomo sta lottando.
Lotta per te, per me, per tutti,
ma pochi sanno dirgli grazie......

Ragazzo,
senti lo stillicidio della pioggia?
forse da qualche parte
una vita si sta spegnendo
e questa pioggia è l'eco di un lontano dolore....

Ragazzo,
senti il peso di questo improvviso silenzio?
forse da qualche parte un uomo è stato vinto,
fucili di venduti fratelli
gli hanno impedito di gridare "Libertà!".

Ragazzo,
il dolore di uno
dovrebbe essere il dolore di tutti
e non è giusto che
mentre tu piangi
altri ridono
e mentre tu ridi
altrove altri si disperano.

Ragazzo,
al prossimo tuono
non spaventarti,
alla prossima pioggia
non chiudere la tua finestra,
al prossimo silenzio
mettiti a gridare con rabbia!

Questa cosa la scrisse, pochi giorni dopo, da un'altra galera, Horst Fantazzini. Parlava di lui. Di Giancarlo del Padrone.


Fu scritta anche una canzone, da un collettivo che prendeva nome da un cantante assassinato in uno stadio lontano.

Per questo non ho girato a destra. Non ho preso i Viali, stasera.

C'ero e non c'ero. Oppure, non c'ero e c'ero.

Sono ripartito e ho dovuto attraversare il centro. Prima di ripartire, gli sguardi di quattro o cinque ragazzotti tutti bellini, che mi guardavano esterrefatti la macchina.

Mi è venuto di pensare a che cosa ci sia, ora, sotto quel tetto.

Qualcosa, forse, dove si nasce o si muore. Dove si ama o si odia. Dove si partecipa o si è indifferenti. La galera è stata spostata altrove. Anche lei espulsa dal centro. Delocalizzata.

Ho chiuso gli occhi per un attimo, prima di rimettere in moto. Risentire quel che non ho mai sentito. “Mi hanno preso”, avrà detto; poi, il buio.

Un proletario di vent'anni in carcere ammazzato come una bestia.

Ecco cosa c'era negli occhi chiusi, quaranta galere dopo.

E se qualcosa dev'essere, questo sia un fiore per Giancarlo. Puzza del mefitico scarico della mia macchina, ferma là sotto, con le musichette alla moda in una sera che ha un ancor lontano odore di primavera.

lunedì 3 febbraio 2014

Canzone del padre: La famiglia borghese come esplicazione e strumento di galera, oppressione e guerra.



La “Canzone del padre” è il resoconto della dissoluzione della famiglia borghese; addirittura della sua esplosione. Non è neppure necessario ricordare come Storia di un impiegato sia un album pienamente esplosivo; di bombe è disseminato dall'inizio alla fine. Forse anche per questo De André ebbe a dichiarare a più riprese di “non amarlo”; a mio parere, ne ebbe semplicemente paura. Non è certo il primo caso di un autore che abbia avuto paura di qualcosa da lui stesso scritta, e tuttora sono convinto che si tratti di un album assolutamente spaventoso perché mette in scena una vicenda umana e politica che, pur ovviamente calata nel contesto dell'epoca non cessa affatto di essere attuale. In particolare questa canzone che affronta la costituzione e la funzione della famiglia borghese.

“Storia di un impiegato”, è, in definitiva, la storia dell'interruzione di un continuum immutabile. Posso capire come essa faccia paura: è una canzone spietata nella sua descrizione della vera natura della “famiglia-caposaldo”. Dei suoi meccanismi intimi, e della sua fine. In questa canzone è possibile riconoscersi; ed è proprio questa identificazione profonda che costituisce la sua dirompenza, ancora oggi. Dice cose che nessuno vorrebbe sentirsi dire; descrive situazioni comunissime, e proprio per questo oggetto di rifiuto. Pone le basi per una ribellione, individuale e collettiva, e proprio per questo viene rimossa. “Canzone del padre” obbliga a guardare dentro le nostre mura; dentro alle nostre prigioni.

Sono perfettamente cosciente di dire delle cose parecchio dure da ingoiare; mi viene naturale, del resto, dato che si tratta di un modo di pensare che non ho sviluppato certo da ieri. Non è da poco tempo che considero la “famiglia” come uno dei principali strumenti di oppressione e repressione che l'umanità abbia escogitato, “pilastro” inamovibile di ogni concezione autoritaria della convivenza e della società. Non a caso, assieme al “lavoro”, mette d'accordo progetti umani diversissimi tra di loro: il cattolicesimo e il socialismo, ad esempio. Ma non è raro che tale “pilastro” sia penetrato tranquillamente e agevolmente anche nell'anarchismo: il “nucleo fondamentale” espande la sua borghesia universale anche tra parecchi libertari.

Ai tempi in cui questa canzone è nata, nel 1973, tale “pilastro” cominciava ad essere messo seriamente in discussione, e con chiare parole. Circolava, ad esempio, un famoso opuscolo intitolato proprio ”Contro la famiglia” (riedito nel 1995) che è probabilmente tra i testi più radicali e importanti di quegli anni (e per questo motivo, naturalmente, ripetutamente sequestrato). Mettere in discussione la famiglia significava, e significherebbe tuttora, piazzare una bomba nelle fondamenta dell'edificio che si dice di voler distruggere; si dice, appunto. Perché, in realtà, la distruzione spaventa a morte, in primo luogo, i cosiddetti distruttori. Ne ho conosciuti, di “distruttori” più o meno solforosi e “coerenti”, che di fronte all'istituzione della famiglia erano decisamente titubanti, per non dire proprio sordi. Disposti a “distruggere” ogni cosa, dallo “stato” all' “economia”, ma guai a toccar loro la famigliuola, i figli, la compagna, i genitori che avevano insegnato tanto. Prima di procedere oltre, però, è necessario mettere in chiaro che cosa significhi realmente, mettere in discussione l'istituzione fondamentale della famiglia.

Si tratta innanzitutto di analizzare il modo in cui essa si è venuta connaturando in ambito borghese, a partire dalla rivoluzione industriale. La famiglia borghese è diventata il punto di riferimento, la pietra di paragone anche per le classi subalterne. In essa predominano le relazioni di possesso e obbedienza naturale: la donna obbedisce all'uomo, i figli obbediscono ai genitori, le sorelle ai fratelli e così via; ogni “deviazione” è, appunto, uno stacco dalla “normalità”. La famiglia borghese, strettamente dipendente dal “lavoro”, è strutturata gerarchicamente come una caserma o una galera; si basa su un insieme di “obblighi contratti” (con il matrimonio o comunque con l'impegno di convivenza) sanciti sia dall'uso che dalla legge. Va da sé che la famiglia presuppone tutto un sistema di relazioni di minorità: i “figli”, anche se cresciuti “amorevolmente”, sono comunque sottoposti a continue misure di coercizione “educativa” più o meno arbitrarie e violente. La “correzione” viene effettuata in nome di modelli indiscutibili: in caso di mancata uniformazione, la colpa viene immancabilmente attribuita alla famiglia stessa, alle carenze educative, alla “famiglia di un tempo che non c'è più”, a tutto un insieme di mancate ottemperanze ai ruoli prestabiliti. Perché la famiglia è esattamente questo: la prima attribuzione di ruoli che verranno, poi, perpetuati all'infinito senza che sia possibile spezzarli. Lo dice Dio, lo dice la legge, lo dice Marx. Da qui, esattamente, la sua intima natura di prigione, anche senza tener conto degli innumerevoli casi in cui essa è una galera autentica, con tanto di sbarre e di celle. Se ne esce soltanto formandosi un'altra famiglia, soltanto passando da una galera all'altra; ed il bello è che, in non pochi casi, se ne ha la piena coscienza. Ma lo si fa lo stesso; così dev'essere, così è deciso. E basta.

Questo sistema di ruoli fondato dalla (e sulla) famiglia interagisce, come detto, con tutti gli altri sistemi: la scuola, il lavoro, l'economia. Poiché questa è la “società” (non solo “capitalista”), ne consegue che l'opposizione ad essa costituisce l'Asocialità. Il termine “asociale” viene identificato generalmente con il rifiuto e con la solitudine: quanto di più sbagliato. Si può essere asociali amando senza riserve lo stare in mezzo agli altri, anche a chi è più diverso e lontano. Anche essendo sempre pronti a confrontarsi e mettersi a propria volta in discussione. Ma senza perdere mai di vista che cosa vada veramente attaccato e distrutto affinché un reale cambiamento sia ottenuto. Non potrà mai essere raggiunto, questo cambiamento, procedendo a macchia di leopardo ed escludendo ciò che fa comodo, o che non si ha il coraggio di mettere a repentaglio.

Naturalmente, bisogna individuare in che cosa debba consistere tale “distruzione”. L'utopia è, per definizione, quanto di più realista possa esistere. Magari, che so io, alcuni si immaginano che “distruggere la famiglia” significhi far fuori le famigliuole; cosa che, tra l'altro, sarebbe assolutamente non necessaria in quanto le famigliuole hanno, da sempre, la decisa tendenza a distruggersi da sole. Non parlo soltanto delle frequenti “stragi familiari” attuate da questo o quel capofamiglia, dal “figlio delinquente” o dalla “figlia traviata” (chissà se qualcuno si ricorda il caso, ad esempio, di Doretta Graneris) per una congerie di motivi che, comunque, in linea di massima hanno tutti a che fare con il rapporto basilare: quello del possesso. Parlo anche, e soprattutto, dell'autodistruzione che viene generata dalla stessa coscienza (a volte vaga, a volte precisa) del non poter uscirne fuori se non con atti violenti. La “Storia di un impiegato” di De André è per l'appunto questo: la storia di un'evasione violenta dalla Società. Un'evasione che, peraltro, porta diritto ad un'altra galera, a quella vera coi secondini, le mura e le sbarre. Ora, trovo quantomeno curioso che parecchi che dicono di voler “abbattere le galere” non pensino minimamente ad abbattere la famiglia, che rappresenta la prima galera di tutte. Si sposano, procreano, fanno resoconti di pance e di parti, tutto assolutamente naturale. I distruttori figlianti, babbini e mammine con i quali, poi, le Questure hanno buon gioco.

Certo, se si parla di “realismo” insito nell'utopia non bisogna certo pensare alla distruzione fisica (alla quale, come detto, le brave famiglie pensano da sole). Bisogna invece pensare ad un mutamento totale di prospettiva, ed al far sì che tale mutamento venga presentato come fattibile e reale. De André, nel 1973, si era spinto esattamente oltre questa soglia; lui che, in fondo, la sua brava famiglia (alto)borghese la aveva, che se l'era a sua volta fatta e che non ha esitato a rifarsene un'altra. Se ne dev'essere reso conto, e gli è presa un po' di fifa. Come non averla, di fronte alla “Canzone del padre”?

In questa canzone viene messo in scena tutto il teatro della quotidiana (auto)distruzione della famiglia, con una precisione formidabile. La famiglia come istituto giuridico, regolato da un giudice in persona. La fissità dell'istituzione: l'artificio del “sogno” è in realtà l'ineluttabilità delle “generazioni” che si va a spezzare in un periodo in cui, per l'appunto, una generazione si ribellava a tutto, desiderando tutto e non esitando a rivendicarlo con violenza. I rapporti familiari presentati nella sua agghiacciante natura tribunalizia: “assoluzione” e “delitto” (si pensi soltanto a quante volte, fin da bambini, ci siamo sentiti “sotto processo” a tavola, davanti al desco fumante). Una volta iniziata la ribellione e la distruzione, la madre, l'angelo del focolare e la riproduzione della Santa Madonna, viene seppellita in un cimitero a base di elettrodomestici (una delle “conquiste familiari” più significative). La famiglia come luogo di investimento, assimilata pienamente ad una banca (e, al giorno d'oggi, si sbraita tanto contro le “banche” in nome della “famiglia”: una contraddizione in termini!) e fonte di “rendite”. Il possesso sessuale messo in discussione e visto come arrendersi, come resa; la resa di una prostituta, in quanto viene pagata (il prezzo della “sicurezza familiare”, insomma). Lo stesso trattamento che viene corrisposto al “commissario”, vale a dire al funzionario dell'istituzione repressiva e di controllo, affinché tale possesso sia protetto e assicurato dalle pericolose intrusioni asociali. Irrompe poi la definitiva distruzione, impersonata dall' “ultimo figlio, il meno voluto” (quello che non si è potuto abortire, verrebbe da dire): una ribellione espletata con la rinuncia a vivere, con l'autodistruzione personale che segna la distruzione violenta della famiglia e di ciò che rappresenta. Sarà bene fissarsi in testa queste cose, espresse in una canzonetta: si tratta di cose reali, di tutti i giorni, di ogni luogo. Si tratta di cose reali nel 1973 come nel 2014.

Galera, oppressione e guerra. La “famiglia” è sempre stata, e sempre sarà, uno strumento privilegiato per tutte queste cose. So bene che tutti ce l'abbiamo, una “famiglia”. Io compreso, quella da cui provengo e di cui, non di rado, racconto le storie. Sono stato persino sposato per un certo numero di anni e, pur non avendo avuto figli, una “famiglia” me la ero comunque formata; in un certo senso, la cosa mi è comunque servita per rendermi meglio conto della cosa, soprattutto dell'estraneità totale di due persone che ad un certo punto hanno scelto di “convivere”. Insisterei particolarmente sulla questione della “guerra”: non soltanto la “famiglia” è luogo di conflitto, ma lo genera a sua volta (si pensi soltanto alle tante “famiglie normali” o “famiglie felici” che esplodono in modo sanguinoso). Non esiste la “famiglia buona” da contrapporre a quella “cattiva”: esiste solo la famiglia come istituzione e sistema di rapporti sociali ed economici dove il cosiddetto “amore” copre la violenza insita nelle necessarie catene. Senza catene nulla si reggerebbe, la famiglia meno che mai. Anche per questo, questi tempi orrendi hanno visto il massiccio ricorso al “familismo”: una consistentissima parte dell'oppressione che viene messa in atto, e non sarebbe difficile notarlo, è condotta proprio in nome della “famiglia” che assolve quindi alla sua funzione non soltanto politica, ma anche poliziesca. Quando non è poliziesca, la sua funzione è quella di termoregolatrice degli inganni “economici”, dei “consumi”, degli andamenti che il padrone intende dare alla galera globale mediante le piccole e servizievoli galere “nucleari”. Senza il tassello della “famiglia”, l'intero edificio crollerebbe.

In alcune discussioni che ho avuto , c'è stato chi si è domandato che cosa essa avesse a che fare con la “guerra”. Oggi ho cercato di spiegare di che cosa si tratti in realtà. Con tutto questo, bisognerà ringraziare Fabrizio De André per aver aiutato a gettare uno sguardo oltre. Anche se, poi, gli occhi sono stati richiusi. Assumendomene le resposabilità, mi occupo un po' di riaprirli e di cercare di ridare a questa canzone il risalto che merita in quanto contro, pienamente contro, l'intoccabile violenza che promana dalle basi di un edificio putrefatto.


domenica 2 febbraio 2014

Ecco, bravo, vai da Renzi!


Naturalmente, sembra che Matteino non abbia perso tempo: come annuncia quasi sbrodolando su "Facebook", il Cristicchio è stato invitato a Firenze di persona dal sindaco a presentare il suo spettacolino che piace tanto non solo alla fascisteria (come dubitarne?), ma anche ai tanti "sinceri democratici" oramai pienamente assimilabili a detta fascisteria (come dubitarne lo stesso?). Più che si va avanti, più si conferma di avere colpito nel segno; la coppia Cristicchi-Renzi sembra del resto fatta per stare assieme, e chissà che non ci ritroviamo tra un po' il "chioma fluente" a far da colonna sonora a certe campagne elettorali. C'est l'argent....! Da notare comunque l'estrema prontezza con cui Renzi ha aderito alla proposta fatta, nell'immediatezza degli eventi, da "Fratelli d'Italia" e dai fascistelli di Casaggì; è non v'è alcun dubbio che costoro siano veramente "fratelli" della loro "Italia" di merda. Direi addirittura gemelli! Dai, su, Simone: ora ci aspettiamo una tua grande performance da zio Bruno Vespa, il 10 febbraio prossimo; poi, magari, ripresentati pure a Casa Cervi per il 25 aprile, dove disgraziatamente ho avuto modo di vederti di persona una volta. Eh, uno come te ce lo avrei -in effetti- visto parecchio bene a casa Cervi, ma quando Alcide e i suoi sette figli erano ancora vivi. Come cantano due fratelli parecchio differenti da te, i fratelli Severini: "Avevano mani grandi da contadini", i fratelli Cervi.

Nella foto: Simone Cristicchi e il Coro dei Piccoli Infoibati di Basovizza. O dei piccoli matti di San Salvi, chissà. Oppure, ancora, dei Nipotini de' Minatori.


sabato 1 febbraio 2014

Scarpe rotte



Adieu les godasses!

E così se se sono andati, ieri sera. Li ho sempre chiamati scarponcelli; scarponi veri e propri, tipo quelli da montagna o militari, non erano. Neanche scarpe da trekking vere e proprie; e, allora, ecco gli "scarponcelli", tenendo naturalmente conto che in quegli "elli"ci dovevano star dentro i miei piedini n° 48. Li avevo comprati circa dieci anni fa, in Svizzera, pagandoli un occhio della testa: duecentoventicinque franchi. Ben spesi, devo dire; col loro gore-tex, non c'entrava assolutamente nulla. Ci ho fatto di tutto e di più: dalle salite e discese al "Paradiso delle marmotte" dei Rochers de Naye a decine e decine di manifestazioni (compresa quella "Dal Molin" di Vicenza, 17 febbraio 2007, diciassette chilometri), da anni di lavoro a portar giù gente dai quarti piani alla "nevicatona" del 17 dicembre 2010, dalle giornate di pioggia qualsiasi a ogni possibile merdajo. Mi sono sentito al sicuro in questi anni: c'erano gli scarponcelli di Friburgo. Ora non ci sono più. Hanno ceduto ieri sera, alle undici e mezzo, mentre tornavo a casa a piedi sotto un diluvio. Ieri avevo la macchina, la "Plog", dal meccanico per un problema alle puntine; così, zampata (per andare dove lo dirò fra un po'). Già all'andata avevo visto che la suola si stava staccando; ma loro, imperterriti, passo dopo passo. Fino all'ultimo. Al ritorno, sceso alla fermata Talenti della tranvia (quella dove c'è il famoso sottopasso che si sta sbriciolando, ennesimo capolavoro di "Italia '90", di cui non si trovano più nemmeno i progetti), è cominciato il calvario. Dalla fermata a casa mia ci sono circa due chilometri; in via Cecioni si sono aperte del tutto le suole, in via Maccari è partito il supporto in plastica della scarpa sinistra, e in via Ciseri le suole si sono staccate completamente. Finis scarponcellorum. Da Friburgo a via Ciseri, dieci anni di passi. Le stringhe originali hanno resistito fino all'ultimo. Dieci anni anche, non di rado, di mal di piedi; il "passo da maniffa" sarebbe capace di stroncare un maratoneta, senza contare qualche improvviso scatto (come quello di Bologna, terminato in una stratosferica manganellata da parte degli sbirri, in lividi e contusioni dappertutto e, debbo dirlo, in alcuni amorevoli consigli ricevuti su un autobus da Oreste Scalzone - "ci vuole il manganese"). Per questo, stamani, sempre sotto la pioggia, ho preso gli scarponcelli, li ho sistemati sulla seggiola che serviva al gatto Redelnoir per saltare dentro in casa (e, spesso, per crogiolarsi al sole) e li ho fotografati al termine della loro battaglia, da "scarpe rotte eppur bisogna andare". Naturalmente non avrò il coraggio di buttarli nel cassonetto; non è che non getto via mai nulla, però ci sono delle cose che proprio non ce la fo. Ora, però, devo dire in quale occasione gli scarponcelli siano giunti alla fine del loro cammino; per farlo, dovrò prima riandare a qualcosa di un po' personale, e della quale cercherò di parlare con obiettività e moderazione.

L'ex fidanzata e il cantautore impegnato

Lo scorso otto di maggio, verso le due del pomeriggio, stavo a tavola e guardavo le notizie di "Rai News 24" appena finito di mangiare. Stavo fumandomi il sigaro postprandiale, quando squilla il cellulare con un "numero privato". Di solito non rispondo mai alle chiamate anonimizzate: chissà per quale motivo, quel giorno, ho deciso invece di rispondere.

Riconosco subito la voce, anche perché è rimasta inconfondibile e uguale a com'era in tempi remoti Volendo, un po' più nasale del solito; ma questo, probabilmente, per l'imbarazzo che la persona all'altro capo del telefono doveva provare. Si sentiva una voce piuttosto sforzata di apparire "neutra", o qualcosa del genere; per farla breve, era una mia ex fidanzata "storica", quella dell'adolescenza tirata avanti fino alle soglie dei trent'anni. Le piaceva molto una vecchia canzone di Lucio Dalla dal "Q-Disc", Telefonami tra vent'anni; così, è andata a finire che lo ha fatto per davvero. Mi ha telefonato dopo vent'anni, insomma.



La signora, perché ormai signora è -con tanto di bella professione, famiglia, casa che non ho nessun motivo di dubitare sia di prestigio in una bella zona di una grande città italiana- aveva, sembra, scoperto il mio blogghino. Ignoro che cosa stesse cercando di preciso; se la foto di qualcosa, una poesia o delle notizie sul suo viejo amor que no está (in tal caso, come tutti, si sarà beccate gran paginate sul famoso fotografo romano e sul carabiniere dei RIS della fiction televisiva). Ad ogni modo, il blogghino se lo deve essere letto con discreta attenzione, dato che si è accorta di alcuni post in cui avevo parlato -ovviamente senza far nomi- di lei e anche di "noi", mettiamola così; così le era presa la voglia di telefonarmi, dopo vent'anni, per chiedermi alcune cose. Il fatto è che, dopo gli oramai celebri vent'anni, ho avuto tutto il tempo per elaborarmi dentro tutti gli eventi; e ne ho concluso, in linea di massima, che i ricordi sono ricordi ma che, per il resto, il passar del tempo ha fatto pienamente il suo dovere, che è quello di ricondurre alla realtà. Pur essendo quella lunga storia finita traumaticamente assai, credo di essere stato un "ex" esemplare: non ho mai dato noia, non mi sono appostato sotto finestre, non ho mai fatto chiamate telefoniche a vuoto, mai una cosa fuori posto; ognuno ha fatto la sua vita, e amen. Il fatto è che la signora, la quale ha un carattere fondamentalmente prepotente o "totalizzante", per dirla così, dai miei accenni in questo blog deve avere desunto (giustamente) che non ho più nessunissima voglia, e né necessità, di elaborare ulteriormente; così, mentre le parlavo normalissimamente e gentilmente, mi sono sentito dire -persino con finto accento romanesco!- che io avrei dovuto desiderare di far vedere qualcosa (= di "emergere", credo), o roba del genere. Chissà, forse la signora aveva timore di avere "sprecato" anni preziosi della sua vita; tant'è che, visti gli accenni nel blog alla mia casa in un vecchio garage e ad altri episodi più o meno pittoreschi della mia vita, nonché ai miei modi di fare e di pensare, mi ha domandato -con voce quasi disperata- perché mi fosse impossibile avere una "vita normale".

Non le ho risposto. A che pro? Non so nemmeno che cosa sia, la cosiddetta "vita normale"; per me, la vita è sempre stata qualcosa di anormale, di straordinario. Anche e soprattutto nelle cose piccolissime, minuscole. Non sono però un "minimalista": le cose più insignificanti, per me, rivelano mondi interi e starebbe ad ognuno di noi osservarli e trarne insegnamenti. Per questo amo vaccamente (trasposizione di vachement) la mia vita un po' sotterranea, defilata, senza apparire. Poi arrivano certe occasioni in cui mi diletto di scriverla, ora qua dentro e in precedenza in altri posti; ho di che vivere, in certi periodi meglio e in certi altri peggio. Disprezzo ferocemente le "realizzazioni", che siano nel "lavoro", nella "famiglia" o in altri capisaldi della società; questo è senz'altro vero. Cerco, imperfettamente, di battermi perché il convivere umano si basi su cose molto differenti da queste. A differenza di molti che hanno esaurito tutto questo nella famosa "gioventù", per poi approdare alle sane certezze borghesi (le quali, sovente, generano le altrettanto famose "insoddisfazioni" e via discorrendo), io ci sono arrivato in età parecchio più matura. E non soltanto mi tengo come sono, ma rivendico tutto questo come fonte del mio incrollabile ottimismo ed anche della mia capacità di barcamenarmi in situazioni non facili. Ho seminato, certo, la mia dose di male; è normale che i propri atti possano generare disistima, disprezzo, persino odio. Ma chi ha avuto a che fare con me, in generale, si è visto un po' spostare il proprio asse; magari non ne avrà fatto di nulla, ma qualche pensiero lo avrà pur fatto.

Cristicchi e le foibe

Chiaramente sto divagando. Basta così. Ho deciso di non rispondere mai più alle chiamate anonime, che sia un call-center o l'ex fidanzata. La quale, fra le altre cose, ha scoperto pure (sempre nel blog) che ce l'ho con Simone Cristicchi. Su questa storia di Simone Cristicchi (sul quale avevo scritto poche righe in occasione del suo spettacolo sulle foibe e sugli esuli istro-giuliani, "Magazzino 18") la signora sembra esseri particolarmente "fissata", per così dire. Mi ha rimproverato aspramente, nella sua telefonata dopo vent'anni, di "occuparmi di cazzate": Ma chettefrèga de Cristicchi? Parrà impossibile, ma da questa cosa ho constatato definitivamente di vivere su un pianeta lontano centinaia e centinaia di anni luce da quello della signora. Non solo "materialmente" o roba del genere (anche perché, in fondo, della sua "materialità" non ne so assolutamente niente e, soprattutto, non me ne importa niente), ma idealmente. Il distacco è maturato, si è sviluppato ed è avvenuto: non c'è nulla che più mi leghi a questa persona, a parte qualche ricordo (bello o brutto che sia). Mi frega anche di Simone Cristicchi, anzichenò. Mi frega dell'ambiguità revisionista del personaggio e del suo prestarsi a operazioni fasciste come quella di "Magazzino 18", poiché sono parte di un progetto che è semplicemente agghiacciante e che ha ripercussioni sulla vita di tutti. Anche di quella della signora di cui ho parlato finora. Anche su quella dei cosiddetti "sinceri democratici", delle signore e dei signori che ieri sera affollavano il Cinema Teatro Aurora di Scandicci (Firenze), dove Simone Cristicchi si esibiva nel suo "lungimirante spettacolo" (così lo ha definito un'articolista della "Nazione"). Ieri sera, a Simone Cristicchi è stato giocato un bello scherzetto: gli è stato invaso il teatrino, prima dell'inizio della rappresentazione, con volantini, megafoni e uno striscione. S'era una cinquantina e più; il resoconto dettagliato, con foto e video, si trova sul Militant Blog.




Il diluvio di fine gennaio

E, infatti, proprio là ero andato, sotto il diluvio di fine gennaio, con gli inseparabili scarponcelli, E anche con l'altrettanto inseparabile zaino (acquistato anch'esso in Svizzera dieci anni fa; indistruttibile!) con attaccata Maddalena Venaus, la marmotta di pelouche regalatami durante una marcia in Valsusa. Quella che, amorevolmente, chiamo la "Marmotta più fotografata dalle Questure d'Italia": senz'altro è assai più famosa di me. E da lì tornavo a piedi, da solo, quando gli scarponcelli suum cursum perficierunt. Sono morti alla battaglia, dopo aver visto, anche loro, che cosa sia diventato questo paese. Hanno visto anche loro, prima di morire, l'ignoranza e l'incultura di tanti poveri zombies che facevano i coretti "fuo-ri! fuo-ri!" urlandoci di "studiare la storia" quando la storia che hanno "studiato" loro è interamente a base di fiction imbecilli e dei giornaletti di regime letti la mattina al bar. Hanno visto, gli scarponcelli moribondi, che cosa significa manipolare non soltanto la Storia, ma i cervelli della gente; la quale, va detto, se li fa manipolare oltremodo volentieri. Indimenticabili alcune scenette, come l'anziano signore che urlava "Io vengo dalle foibe!", quasi le Foibe -come ha osservato giustamente la Militant- facessero provincia assieme a Trieste e Udine. Di tutto questo Simone Cristicchi, quello che si esibisce assieme ai "Minatori di Santafiora" (ci scendesse per davvero, in miniera, sarebbe un bene per tutti), si è fatto coscientemente portatore; ed è totalmente inutile che invochi, adesso, la "visione dello spettacolo prima di giudicare". Di "spettacoli" come il suo ne vediamo quotidianamente. Gli spettacoli della distorsione storica, gli spettacoli del tacere, gli spettacoli del fascismo che si manifesta, oramai, ben più nelle "anime democratiche" che nei fascisti veri e propri.

Per questo, sotto il diluvio di fine gennaio, me ne è importato parecchio di partecipare a un'azione del genere. Certo, è inutile negarlo: nel mio caso particolare avevo ancora negli orecchi la signora ex-fidanzata. Ma chettefrega de Cristicchi. Di Cristicchi in sé, niente. Del fascismo che tocca tutti, me ne frega eccome. Non disposto a lasciarne passare una, in qualunque modo si manifesti e si espleti; per me, queste, sono questioni semplicemente fondamentali. E per questo non mi rimane altro che constatare, serenamente, la distanza siderale che mi separa non soltanto dalla signora di cui ho parlato sovente in questo post, ma anche da tutti coloro che si fanno tirare i fili come delle squallide marionette. Una volta il puparo può essere il politicante di turno, una volta er cantautore più falso dell'oro di Bologna. Mi spiace solo che il protagonista del suo spettacolino porti lo stesso cognome, Persichetti, di qualcuno che mi evoca tutt'altro.

L' "operazione Foibe", va detto, è pienamente riuscita. Un insignificante cavallo di battaglia creato da un manipolo di fascisti in dispregio di ogni realtà storica e sulla base di un nazionalismo che ha ignorato e continua a ignorare tutti i crimini atroci commessi dal fascismo in quelle plaghe, è diventato, con la piena complicità della "sinistra democratica", un cosiddetto "valore condiviso" obbligatorio. Un dogma la cui non osservanza comporta oramai la scomunica immediata. Di un paese in cui accade una cosa del genere, non me ne dovrebbe fregà gnente? Me ne frega invece talmente tanto da sacrificare anche gli scarponcelli sotto un nubifragio. Tornare a casa con un ghigno. Mettersi a leggere, il giorno dopo, tutte le bave dei pennaioli. Tutti che dicono le stesse cose. Nessun dubbio al riguardo, ma rimane uno spasso. Gli scarponcelli hanno fatto una fine più che degna, e magari il destino ci ha messo pure il suo zampino privandomi della macchina proprio in quella serata.

Envoi

Gli scarponcelli sono ancora lì, rotti e sfondati sulla sedia del gatto. Sta di nuovo piovendo. Non la smette mai in questi giorni. Non so, tu che magari ti sei sciroppato tutta questa bizzarra cosa, che cosa tu ne abbia tratto; ma mi pongo raramente tale questione. Stavolta, però, ti darei volentieri una dritta consistente in tre sole parole: eppur bisogna andare. E ci vogliono, inutile che te lo dica, le scarpe rotte. Con le tue belle scarpine sane dentro alle quali prendono comodo tutte le tue borghesie, vere o finte che siano, reali o immaginarie; con le tue belle scarpine linde che prendono ogni forma e ogni declinazione del fascismo lardellato di stupidità feroce, non si cammina affatto. Ci si fa camminare sopra. Per questo sei complice. Per questo io non sarò mai tuo complice. E ti saluto anch'io con una canzone. Ascoltala bene, anche tu o gentile signora ex fidanzata e telefonatrice dopo vent'anni; marca bene l'abisso e prendine atto assieme alla tua classe odiosa e vuota.