lunedì 3 febbraio 2014

Canzone del padre: La famiglia borghese come esplicazione e strumento di galera, oppressione e guerra.



La “Canzone del padre” è il resoconto della dissoluzione della famiglia borghese; addirittura della sua esplosione. Non è neppure necessario ricordare come Storia di un impiegato sia un album pienamente esplosivo; di bombe è disseminato dall'inizio alla fine. Forse anche per questo De André ebbe a dichiarare a più riprese di “non amarlo”; a mio parere, ne ebbe semplicemente paura. Non è certo il primo caso di un autore che abbia avuto paura di qualcosa da lui stesso scritta, e tuttora sono convinto che si tratti di un album assolutamente spaventoso perché mette in scena una vicenda umana e politica che, pur ovviamente calata nel contesto dell'epoca non cessa affatto di essere attuale. In particolare questa canzone che affronta la costituzione e la funzione della famiglia borghese.

“Storia di un impiegato”, è, in definitiva, la storia dell'interruzione di un continuum immutabile. Posso capire come essa faccia paura: è una canzone spietata nella sua descrizione della vera natura della “famiglia-caposaldo”. Dei suoi meccanismi intimi, e della sua fine. In questa canzone è possibile riconoscersi; ed è proprio questa identificazione profonda che costituisce la sua dirompenza, ancora oggi. Dice cose che nessuno vorrebbe sentirsi dire; descrive situazioni comunissime, e proprio per questo oggetto di rifiuto. Pone le basi per una ribellione, individuale e collettiva, e proprio per questo viene rimossa. “Canzone del padre” obbliga a guardare dentro le nostre mura; dentro alle nostre prigioni.

Sono perfettamente cosciente di dire delle cose parecchio dure da ingoiare; mi viene naturale, del resto, dato che si tratta di un modo di pensare che non ho sviluppato certo da ieri. Non è da poco tempo che considero la “famiglia” come uno dei principali strumenti di oppressione e repressione che l'umanità abbia escogitato, “pilastro” inamovibile di ogni concezione autoritaria della convivenza e della società. Non a caso, assieme al “lavoro”, mette d'accordo progetti umani diversissimi tra di loro: il cattolicesimo e il socialismo, ad esempio. Ma non è raro che tale “pilastro” sia penetrato tranquillamente e agevolmente anche nell'anarchismo: il “nucleo fondamentale” espande la sua borghesia universale anche tra parecchi libertari.

Ai tempi in cui questa canzone è nata, nel 1973, tale “pilastro” cominciava ad essere messo seriamente in discussione, e con chiare parole. Circolava, ad esempio, un famoso opuscolo intitolato proprio ”Contro la famiglia” (riedito nel 1995) che è probabilmente tra i testi più radicali e importanti di quegli anni (e per questo motivo, naturalmente, ripetutamente sequestrato). Mettere in discussione la famiglia significava, e significherebbe tuttora, piazzare una bomba nelle fondamenta dell'edificio che si dice di voler distruggere; si dice, appunto. Perché, in realtà, la distruzione spaventa a morte, in primo luogo, i cosiddetti distruttori. Ne ho conosciuti, di “distruttori” più o meno solforosi e “coerenti”, che di fronte all'istituzione della famiglia erano decisamente titubanti, per non dire proprio sordi. Disposti a “distruggere” ogni cosa, dallo “stato” all' “economia”, ma guai a toccar loro la famigliuola, i figli, la compagna, i genitori che avevano insegnato tanto. Prima di procedere oltre, però, è necessario mettere in chiaro che cosa significhi realmente, mettere in discussione l'istituzione fondamentale della famiglia.

Si tratta innanzitutto di analizzare il modo in cui essa si è venuta connaturando in ambito borghese, a partire dalla rivoluzione industriale. La famiglia borghese è diventata il punto di riferimento, la pietra di paragone anche per le classi subalterne. In essa predominano le relazioni di possesso e obbedienza naturale: la donna obbedisce all'uomo, i figli obbediscono ai genitori, le sorelle ai fratelli e così via; ogni “deviazione” è, appunto, uno stacco dalla “normalità”. La famiglia borghese, strettamente dipendente dal “lavoro”, è strutturata gerarchicamente come una caserma o una galera; si basa su un insieme di “obblighi contratti” (con il matrimonio o comunque con l'impegno di convivenza) sanciti sia dall'uso che dalla legge. Va da sé che la famiglia presuppone tutto un sistema di relazioni di minorità: i “figli”, anche se cresciuti “amorevolmente”, sono comunque sottoposti a continue misure di coercizione “educativa” più o meno arbitrarie e violente. La “correzione” viene effettuata in nome di modelli indiscutibili: in caso di mancata uniformazione, la colpa viene immancabilmente attribuita alla famiglia stessa, alle carenze educative, alla “famiglia di un tempo che non c'è più”, a tutto un insieme di mancate ottemperanze ai ruoli prestabiliti. Perché la famiglia è esattamente questo: la prima attribuzione di ruoli che verranno, poi, perpetuati all'infinito senza che sia possibile spezzarli. Lo dice Dio, lo dice la legge, lo dice Marx. Da qui, esattamente, la sua intima natura di prigione, anche senza tener conto degli innumerevoli casi in cui essa è una galera autentica, con tanto di sbarre e di celle. Se ne esce soltanto formandosi un'altra famiglia, soltanto passando da una galera all'altra; ed il bello è che, in non pochi casi, se ne ha la piena coscienza. Ma lo si fa lo stesso; così dev'essere, così è deciso. E basta.

Questo sistema di ruoli fondato dalla (e sulla) famiglia interagisce, come detto, con tutti gli altri sistemi: la scuola, il lavoro, l'economia. Poiché questa è la “società” (non solo “capitalista”), ne consegue che l'opposizione ad essa costituisce l'Asocialità. Il termine “asociale” viene identificato generalmente con il rifiuto e con la solitudine: quanto di più sbagliato. Si può essere asociali amando senza riserve lo stare in mezzo agli altri, anche a chi è più diverso e lontano. Anche essendo sempre pronti a confrontarsi e mettersi a propria volta in discussione. Ma senza perdere mai di vista che cosa vada veramente attaccato e distrutto affinché un reale cambiamento sia ottenuto. Non potrà mai essere raggiunto, questo cambiamento, procedendo a macchia di leopardo ed escludendo ciò che fa comodo, o che non si ha il coraggio di mettere a repentaglio.

Naturalmente, bisogna individuare in che cosa debba consistere tale “distruzione”. L'utopia è, per definizione, quanto di più realista possa esistere. Magari, che so io, alcuni si immaginano che “distruggere la famiglia” significhi far fuori le famigliuole; cosa che, tra l'altro, sarebbe assolutamente non necessaria in quanto le famigliuole hanno, da sempre, la decisa tendenza a distruggersi da sole. Non parlo soltanto delle frequenti “stragi familiari” attuate da questo o quel capofamiglia, dal “figlio delinquente” o dalla “figlia traviata” (chissà se qualcuno si ricorda il caso, ad esempio, di Doretta Graneris) per una congerie di motivi che, comunque, in linea di massima hanno tutti a che fare con il rapporto basilare: quello del possesso. Parlo anche, e soprattutto, dell'autodistruzione che viene generata dalla stessa coscienza (a volte vaga, a volte precisa) del non poter uscirne fuori se non con atti violenti. La “Storia di un impiegato” di De André è per l'appunto questo: la storia di un'evasione violenta dalla Società. Un'evasione che, peraltro, porta diritto ad un'altra galera, a quella vera coi secondini, le mura e le sbarre. Ora, trovo quantomeno curioso che parecchi che dicono di voler “abbattere le galere” non pensino minimamente ad abbattere la famiglia, che rappresenta la prima galera di tutte. Si sposano, procreano, fanno resoconti di pance e di parti, tutto assolutamente naturale. I distruttori figlianti, babbini e mammine con i quali, poi, le Questure hanno buon gioco.

Certo, se si parla di “realismo” insito nell'utopia non bisogna certo pensare alla distruzione fisica (alla quale, come detto, le brave famiglie pensano da sole). Bisogna invece pensare ad un mutamento totale di prospettiva, ed al far sì che tale mutamento venga presentato come fattibile e reale. De André, nel 1973, si era spinto esattamente oltre questa soglia; lui che, in fondo, la sua brava famiglia (alto)borghese la aveva, che se l'era a sua volta fatta e che non ha esitato a rifarsene un'altra. Se ne dev'essere reso conto, e gli è presa un po' di fifa. Come non averla, di fronte alla “Canzone del padre”?

In questa canzone viene messo in scena tutto il teatro della quotidiana (auto)distruzione della famiglia, con una precisione formidabile. La famiglia come istituto giuridico, regolato da un giudice in persona. La fissità dell'istituzione: l'artificio del “sogno” è in realtà l'ineluttabilità delle “generazioni” che si va a spezzare in un periodo in cui, per l'appunto, una generazione si ribellava a tutto, desiderando tutto e non esitando a rivendicarlo con violenza. I rapporti familiari presentati nella sua agghiacciante natura tribunalizia: “assoluzione” e “delitto” (si pensi soltanto a quante volte, fin da bambini, ci siamo sentiti “sotto processo” a tavola, davanti al desco fumante). Una volta iniziata la ribellione e la distruzione, la madre, l'angelo del focolare e la riproduzione della Santa Madonna, viene seppellita in un cimitero a base di elettrodomestici (una delle “conquiste familiari” più significative). La famiglia come luogo di investimento, assimilata pienamente ad una banca (e, al giorno d'oggi, si sbraita tanto contro le “banche” in nome della “famiglia”: una contraddizione in termini!) e fonte di “rendite”. Il possesso sessuale messo in discussione e visto come arrendersi, come resa; la resa di una prostituta, in quanto viene pagata (il prezzo della “sicurezza familiare”, insomma). Lo stesso trattamento che viene corrisposto al “commissario”, vale a dire al funzionario dell'istituzione repressiva e di controllo, affinché tale possesso sia protetto e assicurato dalle pericolose intrusioni asociali. Irrompe poi la definitiva distruzione, impersonata dall' “ultimo figlio, il meno voluto” (quello che non si è potuto abortire, verrebbe da dire): una ribellione espletata con la rinuncia a vivere, con l'autodistruzione personale che segna la distruzione violenta della famiglia e di ciò che rappresenta. Sarà bene fissarsi in testa queste cose, espresse in una canzonetta: si tratta di cose reali, di tutti i giorni, di ogni luogo. Si tratta di cose reali nel 1973 come nel 2014.

Galera, oppressione e guerra. La “famiglia” è sempre stata, e sempre sarà, uno strumento privilegiato per tutte queste cose. So bene che tutti ce l'abbiamo, una “famiglia”. Io compreso, quella da cui provengo e di cui, non di rado, racconto le storie. Sono stato persino sposato per un certo numero di anni e, pur non avendo avuto figli, una “famiglia” me la ero comunque formata; in un certo senso, la cosa mi è comunque servita per rendermi meglio conto della cosa, soprattutto dell'estraneità totale di due persone che ad un certo punto hanno scelto di “convivere”. Insisterei particolarmente sulla questione della “guerra”: non soltanto la “famiglia” è luogo di conflitto, ma lo genera a sua volta (si pensi soltanto alle tante “famiglie normali” o “famiglie felici” che esplodono in modo sanguinoso). Non esiste la “famiglia buona” da contrapporre a quella “cattiva”: esiste solo la famiglia come istituzione e sistema di rapporti sociali ed economici dove il cosiddetto “amore” copre la violenza insita nelle necessarie catene. Senza catene nulla si reggerebbe, la famiglia meno che mai. Anche per questo, questi tempi orrendi hanno visto il massiccio ricorso al “familismo”: una consistentissima parte dell'oppressione che viene messa in atto, e non sarebbe difficile notarlo, è condotta proprio in nome della “famiglia” che assolve quindi alla sua funzione non soltanto politica, ma anche poliziesca. Quando non è poliziesca, la sua funzione è quella di termoregolatrice degli inganni “economici”, dei “consumi”, degli andamenti che il padrone intende dare alla galera globale mediante le piccole e servizievoli galere “nucleari”. Senza il tassello della “famiglia”, l'intero edificio crollerebbe.

In alcune discussioni che ho avuto , c'è stato chi si è domandato che cosa essa avesse a che fare con la “guerra”. Oggi ho cercato di spiegare di che cosa si tratti in realtà. Con tutto questo, bisognerà ringraziare Fabrizio De André per aver aiutato a gettare uno sguardo oltre. Anche se, poi, gli occhi sono stati richiusi. Assumendomene le resposabilità, mi occupo un po' di riaprirli e di cercare di ridare a questa canzone il risalto che merita in quanto contro, pienamente contro, l'intoccabile violenza che promana dalle basi di un edificio putrefatto.