sabato 30 agosto 2014
Risposte cristiane: Un blog imperdibile!
Raramente faccio una pubblicità così smaccata a altri blog; ma nel caso di Risposte Cristiane faccio più che volentieri un'eccezione. Un amico me lo ha segnalato qualche giorno fa, facendo riferimento particolare a questo post; ma ogni post è, a mio parere, un autentico capolavoro anche se lo dovrò prendere a piccole dosi per non rischiare di schiattare dalle risate. Chi ha concepito e realizza un blog del genere è, IMAO, un genio. Non avrei altro da dire, oltre naturalmente raccomandare a tutt* di leggerlo e diffonderlo con santo zelo; soltanto due piccole cose in ultimo. La prima: se leggendo i post si rischia seriamente la dipartita da questo mondo in preda al riso incontrollabile e convulso, ancor più pericolosi sono i commenti, specialmente quelli di coloro che, seriamente o per finta, condividono le curiose teorie del blogger. La seconda: da oggi, Risposte Cristiane finisce -ovviamente- nel blogroll dell'Asocial Network alla voce "Imperdibili". Assolutamente doveroso, miei cari fratelli e mie care sorelle!
giovedì 28 agosto 2014
All'ombra del penultimo sole
Trattandosi di un racconto abbastanza lungo, suggerisco come sempre di stamparlo e di leggerlo con comodo a chi lo desiderasse.
Verso la fine
dell'estate, siccome era diventato troppo vecchio per andare assieme
ai figli in mare aperto, aveva deciso di pigliare la barchetta
piccola, quella che serviva ai nipoti per andare sottocosta alla
ricerca di una caletta dove stare con qualche ragazzina del paese, e
di andare a pescare a bolentino. Nulla a che fare con la pesca sul
serio, quella con le reti che un tempo aveva insegnato ai figlioli
portandoli con sé fin da quando avevano compiuto i quindici anni;
ora, secondo le stagioni della vita, toccava a loro. A loro fare
stare in pena le mogli e le famiglie, a loro partire e ritornare, a
loro sgobbare come negri, a loro gioire per una buona pesca e
disperarsi per una magra. A lui, invece, ora toccava la barchetta di
legno sulla quale era salito fin da bambino; suo padre gli diceva
sempre di non sapere nemmeno lui da quanto tempo fosse della
famiglia, era stata riparata, impiallacciata e ricatramata chissà
quante volte, eppure era ancora buona a condizione, naturalmente, di
non provare nemmeno a allontanarsi troppo dalla costa. Altrettanto
naturalmente, però, il vecchio F. era testardo come una gita sociale
di muli e non se ne preoccupava troppo. Cosa aveva fatto per tutta la
vita? Pescare. Non poteva andare più coi figli a far pesca d'altura?
Si capisce, quando arriva il momento di essere dichiarato non più
buono, arriva; aveva, il vecchio F., settantotto anni compiuti il
ventiquattro di febbraio. E a star lontano dal mare non ce la faceva
proprio; fino a quattro anni prima non ne aveva voluto sapere, e
continuava a andare assieme ai figli e ai loro compagni di lavoro, ma
una volta, oltre la Capraia, si erano beccati una burrasca da levare
il pelo, di quelle col prete sul molo, le mogli in ginocchio a
salmodiare, il maresciallo dei carabinieri e la Campagnola della
Pubblica Assistenza (modello 1967) con su scritto “Protezione
Cibile” col pennarello. Proprio così: “cibile”. Che cosa
intendesse proteggere, lo sapevano solo loro.
Il vecchio F. non era,
come dire, un modello di cristiane virtù. Il mondo dei pescatori, a
qualsiasi latitudine, indulge comprensibilmente alla religiosità; ci
son dei frangenti, in mezzo al mare, in cui un bell'iddìo, una
madonna o un santo fanno parecchio comodo. Lui, però, proprio non ne
voleva sapere, e aveva attaccato ai due figli, R. e T., un palese
spregio di ogni forma di credenza soprannaturale. Avendone viste di
cotte e di crude in mare, si era accorto ben presto che, nonostante
preghiere e invocazioni a questo o a quell'abitatore de' cieli,
quand'era ora di andare a far da pasto ai pesci ci si andava e basta.
Questione di due cose: il culo e la forza. Il culo di averci una via
di scampo, un punto riparato a poca distanza, una barca messa bene o
una barca più grossa nelle vicinanze; e la forza che ci vuole per
governare un'imbarcazione in circostanze del genere. E ce ne vuole
parecchia, di quella che s'ha a trentacinque o quarant'anni.
Nonostante tutto questo, spesso e volentieri non bastava neppure
quello, e allora -diceva il vecchio- si ristabiliva un po' di
giustizia; visto che i pesci gli avevano dato da mangiare per tutta
la vita, arrivava un momento quando bisognava far mangiare un po'
loro.
I compagni pescatori di
Marina di Campo inorridivano. Provenivano in gran parte da un'altra
isola nel mare, situata un po' più in giù, che si chiama Ponza; e
non ce n'era manco uno, come da loro tradizione e convinzione, che
non santificasse e madonnasse come si deve, al pari del resto dei non
molti pescatori nativi del posto. Il fatto è che gli elbani non sono
pescatori, ma montanari in mezzo al mare; preferiscono salì su pe'
le cóte e lasciar pescare i ponzesi. Anche F., del resto, sarebbe
stato un montanaro, e un cavatore di granito come tutti quelli di San
Piero e Sant'Ilario; e come tutti costoro, era sempre stato animato
da un acuto spirito di contraddizione. Cavatore il padre, anche se la
barchetta ce l'aveva; cavatori gli zii e cavatori i fratelli; così,
arrivato a quattordici anni, aveva comunicato che andava a imparare a
fare il pescatore giù in paese. Nel contempo, poiché eran tempi
strani, s'era pure messo certe idee in testa, e invece d'andare in
chiesina imparava le canzoni di Pietro Gori, e altre belle pensate di
questo genere che non starò a raccontarvi perché, qualora le
vogliate proprio sapere, non avete che far le opportune richieste
presso una discreta quantità di questure. Disperando così la
moglie, una brava donna parecchio devota alla quale voleva molto bene
(e glielo aveva dimostrato mettendole in pancia solo due figlioli e
non i soliti sette o otto), aveva tirato su benissimo i ragazzi:
pescatori pure loro, e convinti adepti di una particolare dottrina
politica che prevede, come tutti sanno, cappellacci, gatti neri,
tabarri e bombe in tasca con la miccia accesa.
Le barche di Marina di
Campo parevano un martirologio galleggiante intero. C'erano una Santa
Lucia e un San Gaetano, che era proprio pochino visto che il santo in
questione è il patrono del paese; in compenso c'erano due San Rocco
e due Padre Pio, che per distinguerle le avevano chiamate, pensate un
po', Padre Pio I e Padre Pio II. C'erano sei San Silverio; un
forestiero si sarebbe chiesto come mai Silverio fosse tanto
gettonato, per scoprire poi che era il patrono di Ponza. Si passava
poi a Santa Rita, mentre un originalone aveva chiamato la sua barca
“Madonna di Megiugorio”; una mattina, trovò che qualcuno,
approfittando delle tenebre dicembrine, aveva raschiato il “Megiu”
e, con la vernice, aveva cambiato il nome in “Pietrogorio”.
S'arrabbiò parecchio, ma non aveva fatto nulla perché il vecchio
F., quand'era meno vecchio, era un marcantonio di un metro e novanta
con due braccia che sembravano paranchi; a settantott'anni si era
tenuto la statura, ma le braccia funzionavano un po' peggio. Sempre
meglio non averci a che fare, né con lui e né coi figlioli che
erano cresciuti a sua immagine e somiglianza; ma per cavarsela tra la
Capraia e la Corsica, in mezzo a una burrasca per la quale i pesci
s'eran già messi il bavaglino e studiavano il ricettario, ci voleva
ben altro. La barca da pesca di famiglia si chiamava “Sacco e
Vanzetti”.
Gli interventi divini
sono parecchio strani. In quella burrasca di cui si parlava, due
pescherecci, il “Sacro Cuore di Gesù” e il “Mamma Maria
Bambina”, erano colati a picco con tutti gli equipaggi, facendo
perire in tutto quattordici pescatori. Il “Sacco e Vanzetti”,
oltre che a forza di braccia e di fortuna sfacciata, s'era salvato a
forza di moccoli, equamente ripartiti tra dèi di vario genere e il
vecchio F. che non ce la faceva più a far nulla; e, in frangenti
come quelli, quando non ce la si fa più a fare nulla, si è soltanto
dei pesi inutili a bordo. Saltò il rispetto familiare; il vecchio
padre, che s'incaponiva ancora a pescare, era stato sottoposto a una
tempesta di parole in confronto alla quale quella atmosferica
sembrava un'aura gentil del primo vere. Ad ogni modo, quel giorno i
celìcoli si dovevano esser rotti i coglioni di orazioni e salmi, e
s'eran concessi invece un po' di risate ascoltando le fantasiose
bestemmie di quei pescatori un po' strani; e così i sacri cuori e le
marie bambine erano colate a picco, mentre Sacco e Vanzetti erano
tornati a casa sani e salvi. Meglio essere in mare tra la Capraia e
la Corsica, pensarono quelli veri da lassù o laggiù, che sulla
sedia elettrica. Una volta a casa, i figli decisero che il loro
padre, d'ora in poi, se ne sarebbe stato a godersi la vecchiaia; e
che, se voleva pescare un po', si prendesse la vecchia barchetta, la
canna, la lenza e si mettesse calmo una buona volta. Per la prima
volta in vita sua, il vecchio F. decise di chinare il capo; forse.
Il fatto gli è che, per
andare a pescare a bolentino, un po' al largo bisogna andarci per
forza. Ci siete mai stati, voialtri? Magari anche sì, chiamandola
“pesca a volantino”, che sarebbe il suo nome in tutto il
Mediterraneo (anche in Catalogna dicono volantí).
Ma all'Elba si dice bolentino e, anzi, mio padre raddoppiava pure la
elle e diceva bollentino;
quindi bolentino è e bolentino rimane. La cosa è semplice: si
piglia una lenza bella robusta, ma non una gugliata. Ce ne vogliono
novanta o cento metri come minimo. Poi ci si attaccano, a distanze
fisse (diciamo a un mezzo metro l'uno dall'altro), gli ami che
porteranno le esche e il piombo finale perché la lenza deve stare
diritta. E' una delle operazioni più noiose che ci siano sulla
faccia della terra, e va fatta il giorno prima; il pescatore a
bolentino si mette in mare alle quattro di mattina. E poiché ci ha
cento metri di lenza con gli ami attaccati, deve andare dove si
presume che il mare sia più profondo della lenza; un po' al largo,
appunto, e dove non ci sono scogli, perché sennò la lenza può
impigliarsi ed è capace anche di arroversciarti la barchetta.
Non
glielo aveva detto, perché sennò con la lenza lo avrebbero
strozzato. Così aveva detto alla moglie e ai figlioli che sì, se ne
sarebbe andato a pescare non oltre la punta Bardella di Galenzana, e
con la canna. Per convenienza non stavano in paese, ma sopra il Pozzo
al Moro, un po' in campagna; così potevano farsi anche un po' d'orto
e un po' di vigna. Il vecchio F. aveva pure la macchina; una
Bianchina panoramica del 1964, targata, e se ne ignora il perché,
Piacenza. Tenuta impeccabilmente quanto a motore e carrozzeria, col
sedile anteriore pulito e in ordine, ma con i sedili dietro tirati
via e con l'intero abitacolo posteriore trasformato in magazzino
degli arnesi. A destra del vano, il reparto agricolo; a sinistra,
quello ittico. Il vecchio F. era un uomo ordinato, anche quando
sparava una balla ai familiari; perché il giorno prima, con una
scusa, aveva preso la Bianchina dove aveva accuratamente nascosto
centoquindici metri di lenza da bolentino Tubertini, gli ami già
infilati e preparati il giorno prima sempre di nascosto, il piombo
finale e tutto il resto. Le esche (bachi, pezzettini di polpo) le
aveva nascoste in frigorifero coi panini; in bella vista nella
Bianchina, la canna da pesca, la cassetta e il retino. Dé, ci
andassero quegli altri sul molo o vicino a riva a pescare alla canna;
lui ci aveva bisogno del mare. Quello sul serio. E così, verso le
tre e mezzo, senza svegliare nessuno, s'era avviato verso il paese e
verso la foce del fosso, all'inizio della spiaggia, dove teneva la
barchetta. La Bianchina, come sempre, la lasciò nella piazzetta
all'inizio delle Scalinate, dedicata a Giovanni da Verrazzano ma che
lui continuava a chiamare Piazza del Tembien,
come qualche ventennio prima; quando a volte andava a ripigliarla,
d'estate, dentro ci saranno stati settanta gradi e diceva che almeno
lui lo trovava sempre, il posto al sole. Mai una volta all'ombra.
Anche quel giorno sarebbe stato così, verso le dieci e mezzo o le
undici del mattino; la pesca a bolentino ha bisogno di acque calme,
calme, calme. Quando cominciano a passare motoscafi e altre barche,
si torna a casa.
Siccome
ne' romanzacci si dice sempre che era una notte buia e tempestosa, in
questo raccontaccio si dirà che la notte era dolcissima e senza un
filo di vento, e che il mare sembrava talmente un olio che veniva
quasi la voglia di condirci l'insalata. A fine estate, bisogna farci
comunque parecchia attenzione; mai fidarsi del tutto di Sua Maestà
il Re Salato, l'unico sulla cui testa il vecchio F. non intendeva
marciare. Usciti fuori dal golfo, l'onda lunga è sempre in agguato
anche nelle temperie più pacate; e l'onda lunga ha una sola
funzione, quella di rovesciare le barchette dei bischeri che non
sanno andar per mare. C'era solo un problema, qualcosa che disturbava
parecchio ma che non aveva proprio nulla a che fare col mare, ma col
cielo. Non mi si fraintenda, perché pure il cielo era sgombro e
splendeva dorata la luna nonostante le pedate di Neil Armstrong;
però, puttana dell'eva, c'era un elicottero che girava e rigirava.
E, per essere in volo notturno, doveva cercare qualcuno. E se quel
qualcuno lo cercavano con l'elicottero a quell'ora, doveva esser
successo qualcosa. E se poco dopo il bivio della Piastraia c'era pure
il posto di blocco dei Carabinieri (che non lo avevano bloccato;
figurarsi se non li conoscevano, lui e la Bianchina piasintëina),
la ricerca non doveva essere d'uno uscito per andare a far funghi. E,
intanto, l'elicottero girava con tanto di fotocellula; e il vecchio
F. cominciò, ancora guidando, a recitare una lenta e ragionata
litania di bestemmie, non risparmiando nemmeno santi assai poco noti
(che lo ringraziarono di cuore, perché sennò non li nominava mai
nessuno). Se continuava così, addio bolentino e per un sacco di
motivi; non ultimo perché quelle cose là lo innervosivano. Non
sopportava i braccaggi. Non tollerava lo Stato alle calcagna di
qualcuno. Se qualcuno gli avesse nominato Sciarl Bodlèr, avrebbe
chiesto se era un tipo di lenza oppure il commissario che sparò a
Mesrine (lui, sì, lo conosceva); ma era l'incarnazione dell'uomo
libero che ama il mare. Mi spiace per Mauro Corona, ma la montagna
era tanto amata da Julius Evola (tiè, ok, non c'entra un cazzo col
racconto ma era tanto che ci avevo la voglia di dirlo,
'iosagrataccio!)
Decise,
ciò nonostante, d'andare avanti. Aveva perso tre ore, il giorno
prima, a incoccare gli ami, e poi figuriamoci se uno come lui tornava
indietro per un elicottero che svolazzava e un posto di blocco. Al
massimo non pigliava manco un pesce; e poi, chissenefrega del pesce.
Quello che gl'importava davvero, era starsene lontano, in mezzo al
mare, ascendendo pian piano dal buio all'aurora, dall'aurora
all'alba, dall'alba al giorno fatto; e a quegli ami abboccassero pure
scarponi bucati. Era mescolare la profondità del sotto con la
vastità del sopra. Era fumare una Nazionale ripensando a tutto. Era
percepire il minimo movimento di centoquindici metri di niente,
abituandosi al silenzioso esercizio dei sensi. Era, non sempre ma
quella mattina ci aveva fatto la bocca, riplasmarsi un mondo su una
piccola barca, e un mondo come lo si vuole per davvero almeno fino
alle undici la mattina. Di questo gli importava, e di tutta un'altra
serie di cose; e siccome così m'immaginavo mio padre, seppur
confusamente, da bambino quando lo vedevo preparare i bolentini per
il giorno dopo, m'immagino pure il vecchio F.; chissà, magari è
lui.
Nulla
di tutto questo, porca della schifosa di quella baldracca, con
quell'elicottero di merda. Parcheggiando in piazza del Tembien, ebbe
voglia di tirare una sportellata da svegliare mezzo paese; poi pensò
che un colpo del genere avrebbe spaccato in due l'eroica e vetusta
utilitaria. Prese tutta la roba, nascondendo però la canna da pesca
e la cassetta sotto una coperta talmente militare che doveva aver
fatto la guerra d'Abissinia, e s'incamminò verso la barca
canticchiando una canzoncina dove si diceva d'imitare tali Bresci e
Ravasciòl; forse, chissà, l'aveva scritta Alighiero Noschese.
La
barchetta era lì, e sarebbe stata nel buio assieme alle altre se non
fosse stato per una fotocellulata che la prese in pieno per due
secondi. Aveva pure lei un nome, ma considerando che la usavano i
nipoti (un ragazzo di vent'anni e un'altro di diciassette) per andare
nelle calette dietro Capo Poro, tipo le Cavine, assieme alle
pischelle, i loro genitori s'erano imposti sul nonno che la voleva
chiamare Luisa Miscèl.
Era stata quindi, orrore!, battezzata “Chicca”. Ogni volta che
vedeva quel nome scritto sulla barchetta, il vecchio F. pensava che
“Chicca” si poteva chiamare una gatta, non una barca; indi per
cui, una gatta di casa, chiaramente tutta nera, era stata chiamata
Luisa Miscèl, ché tanto i gatti il loro vero nome lo sanno solo
loro -come ebbe a scrivere un certo Iliot, o Ilio, come Ilio
Barontini che era un brav'omo anche se era comunista. Concedendosi un
ultimo moccolo (U.M.), sistemò la roba nella Chicca e s'apprestò a
spingerla in mare; quando udì un sussurro. Una voce d'omo, bassa
bassa ma altissima al tempo stesso; diceva, “Shtare fermo, mi zerkano”. Il vecchio F. aveva, fortunatamente, la capacità di
capire al volo. Si fermò subito e non disse mezza parola. Non era
lui che doveva parlare; il sussurro si fece ancor più basso, e al
tempo stesso ancor più alto. Disse, con uno strano accento:
“Ascolta, non mancio da più t'un ciorno. Tu afere manciare ?”
Il
vecchio F. si mise a sedere sulla rena e, dal sacchetto, tirò fuori
i due panini con la frittata di pomodori che si era portato,
passandoli a una mano nascosta sotto il telo della barca. Sentì
mangiare una fame nera, e parlare una sete mortale anche se questa
non aveva detto ancora nulla. Nel sacchetto c'erano due bottigliette,
una piena d'acqua gassata e l'altra di vino bianco della sua vigna.
Aveva, quel vino, sedici gradi e era torbo come quello avvelenato che
la Donna Lombarda voleva far bere a suo marito becco. Passò tutto a
quella mano, continuando a stare a sedere sulla sabbia e facendo
attenzione all'elicottero.
“Ascolta,
fattene e non ti mettere in kuai”, disse la voce senza la mano.
“Sono scappato ta Porto Zurro. Sono quello ke ha mazzato....”, e
disse un nome che il vecchio F. capì molto male. Poteva essere la
moglie, un impiegato dell'Agenzia delle Entrate o il presidente della
Repubblica; il vecchio, in un istante, si decise a dire pure lui
qualcosa dimolto sottovoce, e pure dimolto alta. “Non me ne vo.
Senno so' peggio che morto.” Per un poì ci fu silenzio;
l'elicottero stava puntando di nuovo il fanale in quella direzione, e
era passata anche una pattuglia della stradale di Portoferraio. Forse
andava a fare la multa agli ergastolani evasi. Quando tutto fu di
nuovo al buio, il vecchio F. disse alzando il telo della Chicca per
due centimetri: “Io 'un me ne devo andà, bambolo. Sei tu che te ne
devi andà. Ti garba la pesca a bolentino?”
La
mano era quella di Simon Altdörfer, da Caldaro sulla Strada del
Vino, o meglio Kaltern an der Weinstrasse, provincia autonoma di
Bolzano o meglio Südtirol; e la pesca a bolentino non sapeva nemmeno
che cosa fosse. Aveva ammazzato, in modo squisitamente premeditato,
il sindaco del paese, Wilhelm-Klaus Perathoner, per una questione
amministrativa: lo aveva trovato a letto con la figlia di sedici anni
e mezzo. Scontava l'ergastolo da otto anni e mezzo e sarebbe uscito
di galera, come tutti sanno, il 99/99/9999. “Peska a kosa...?”
“Lascia stare, amico. Ora la impari alla svelta. Fra du' minuti
devo levà ir telo, ma se torna l'elicottero ti monto sopra. Capito?”
La mano fece un cenno che voleva dire sì, e siccome le mani pensano,
pensò che erano circa otto anni e mezzo che nessuno lo chiamava più
amico, né Freund, né filos, né niente. Il vecchio F. spinse
rapidamente la Chicca verso la battigia; poi la mise in mare, tolse
il telo e saltò sopra sempre spingendola visto che a Marina di
Campo, in quel punto, prima di trovare un metro d'acqua bisogna fare
mezzo chilometro. Alla fine il vecchio F., quando l'acqua fu un po'
più alta, saltò in barca e si mise a remare; in mezzo alle
burrasche sul peschereccio Sacco e Vanzetti magari non era più
buono, ma a remare sì; e in men che non si dica passò il molo a
forza di braccia. Poi verso punta Bardella, all'estremità della
spiaggia di Galenzana; si vedeva una finestra, una sola, illuminata
alla Villa. L'ammiraglio era mattiniero. L'elicottero, invece, pareva
essersi stufato e magari aveva pure finito il carburante. Dopo tre
quarti d'ora di remata, mentre ancora si rifiutava d'albeggiare, il
vecchio F. aveva trovato il punto giusto per buttare giù il
bolentino; cominciò a infilare le esche, che puzzavano parecchio. Ai
pesci, però, sembra che piacciano.
L'efaso
altoathesino stava sempre giù e non parlava. Faceva pure parecchia
fatica a parlare in italiano, però in galera aveva imparato ad
esprimesi discretamente nel dialetto di Bitti (Nuoro), da un compagno
che gli avevano messo in cella. Maledizione, poi; non si ricordava
come si dice “jetzt” in italiano; gli ci volle un po'. “E
ora...?”
“E
ora nulla, amico. Stai giù che devo pescare un po' e a bolentino si
sta zitti”, rispose il vecchio F. Teneva la lenza arrotolata in
modo strano tra il polso e le nocche della mano sinistra; non era
mancino, ma trovava che a bolentino ci sentiva meglio con la mano del
diavolo. Ora, anzi jetzt, sì che cominciava a albeggiare; volendo,
il vecchio F. avrebbe potuto vedere che faccia avesse il criminale;
non lo fece e non si voltò. Simon Altdörfer faceva il meccanico di
motorini; in certi casi è bene che su una barca in mezzo al mare ci
siano un meccanico e un pescatore. Ci fossero stati un professore di
filosofia e un filologo germanico, avrebbero potuto pericolosamente
convenire che si trattava di una situazione assurda, e dalle
situazioni assurde si viene fuori non pensandoci nemmeno per un
istante e, ancor meglio, non rendendosene conto. Il vecchio ritirò,
all'improvviso, la lenza; a un amo aveva abboccato un prelibato
scatolone di biscotti Ringo, fornitura per catering, buttato in mare
probabilmente da un traghetto. Echeggiò la risata più silenziosa di
questo mondo.
“E
ora...?”, ripeté all'improvviso l'efaso; “E ora”, rispose il
vecchio, “si guarda spuntare il sole. E' il primo, e ci aiuterà, a
tutti e due. Perché, sai, non ho due figli cretini; a volte cerco di
fregarli, però il problema è che li ho tirati su parecchio furbi e
lo sanno che io non mi accontento di fare le giratine sottocosta. Poi
li ho tirati su senza un particolare amore per l'ordine costituito,
sai amico. E li ho tirati su che è già la quarta volta, porcaccia
della schifosa dell'eva, che cerco di andare a pescare a bolentino di
nascosto, e che mi vengono a ripigliare col peschereccio. Poi stamani
ti ci sei messo pure tu, e a pensarci bene ora ci ho pure una fame
boia e mi hai mangiato e bevuto tutto, acqua e vino...”
“Io...io
stare strata del fino....”; Simon Altdörfer aveva capito la metà
di uno che non capisce nulla, in quel che il vecchio gli aveva detto;
solo che, dopo un'altra mezz'ora, bello al largo del Capo Poro,
duecentoottantasette metri di profondità, il nove settembre di un
anno che non mi ricordo, vicino alla Chicca comparve un peschereccio
d'altura dedicato a un tizio di Torremaggiore e a un altro di
Villafalletto; e questo vorrà pur dire qualcosa. “Babboooo !!!!”,
urlo T.; il vecchio non si mosse mentre il grosso peschereccio,
procedendo al minimo de' minimi, si accostava alla barchetta.
“Un'altra volta! Ma lo sai se ti piglia una burrasca qui, testaccia
di legno...?” L'altro figlio, R., non diceva nulla; era stato il
primo a notare che nella Chicca c'era un'altra persona, e aveva
capito immediatamente. Con una manata zittì il fratello, che aveva
cominciato a dirne di tutti i colori al padre immobile, che non si
guardava neppure intorno. Fu a R. che, alla fine, là in mezzo al
mare che doveva pur pullulare, da qualche parte, di motovedette e
altre belle invenzioni, disse poche parole secche: “Questo è
scappato dal Forte. Lo cercano da stamani presto. Ora lo pigliate, vi
mettete in assetto da gran pescata e fate un salto in Corsica. Di
volata. Se non lo fate, vi ammazzo a tutti e due. E lo nascondete
anche nel posto più merdoso, nella cella frigorifera, gl'infilate
ventisei maglioni, fate voi. Di corsa e ci si vede stasera a casa. Se
non tornate si vede che siete in galera anche voi e ci si vede fra
qualche anno, i figlioli so' grandi, le mogli ve le tromba qualcun
altro e ora andate.” Quando Simon Altdörfer fu fatto salire in due
secondi sul peschereccio “Sacco e Vanzetti”, non si era nemmeno
reso conto che lo stavano facendo scappare all'estero; “Che ne
facciamo di questo, in Corsica?”, disse T.; “Lo lasciate da
qualche parte vicino a un paese. Lo buttate in mare. Sai nuotare tu,
amico?” “No...”, rispose; “Beh, tu impari, sennò crepi. Poi
in Corsica so' cazzi tuoi, ti arrangi, tu provaci e vedrai che ce la
fai con du' soldi che ti danno questi due e magari anche una cosina
che hanno a bordo e fa pum pum. Ce la avete sempre, no...?”
S'era
fatto giorno pieno, e era ora di tornare a casa. Ci aveva, il vecchio
F., da affrontare la moglie e spiegarle un po' di cose, tipo che i
figli avevano deciso d'andare a pescare in Corsica. Nulla di strano;
altro che Corsica, col Sacco e Vanzetti qualche volta erano arrivati
in Sardegna e fra poco facevano a fucilate coi pescatori del posto,
che non sono molto accomodanti coi forestieri. Per questo motivo, a
bordo, di cosine che fanno pum pum non ne avevano una sola. Il primo
sole aveva fatto strada al secondo, che picchiava nonostante il
settembre, e non c'era ombra; il vecchio F., sudando, tornò a remi
alla spiaggia senza aver preso nemmeno un pesce. La lenza Tubertini
si era tutta attorcigliata e per sbrogliarla ci sarebbe voluta una
razione supplementare di moccoli; lo scatolone dei Ringo era rimasto
sulla barca, disfatto, e, come se non bastasse, sulla spiaggia si
accorse che lo aspettavano due gendarmi a cavallo. Pure quelli
avevano chiamato. Con calma rispinse la Chicca dove stava e i due
gendarmi, stando in sella, gli fecero qualche domanda.
“Senta,
è lei S.F.?”
“Sono
io. Desiderano?”
“E'
sua la Bianchina targata Piacenza parcheggiata in piazza da
Verrazzano...?”
“E'
mia. Qualcosa non va?”
“C'è
già un ordine di rimozione forzata. Se si sbriga a toglierla, forse
se la cava con una multa e basta...”
“Accidenti!”,
e si tirò un finto nocchino sulla fronte perché se fosse stato vero
si sarebbe suicidato. “Corro! Vi ringrazio per la gentilezza! Posso
solo una domanda...?”
“Ma
prego.”
“Come
mai c'era tutta quella confusione stamani presto presto...? Posti di
blocco, l'elicottero...Uscivo a pescare e non so nulla...”
“Eh...è
evaso un assassino da Porto Azzurro. Per caso ha notato qualcosa di
strano...?”
“Io?
No....”
“Stia
attento, quello è uno pericoloso. Corra adesso, sennò le portano
via la macchina!”
Fece,
il vecchio, una specie di sorriso. Così imparavano a disturbagli la
pesca con quel cazzo di elicottero. Così imparavano a mettere la
gente all'ergastolo. Ci aveva, però, una fame che si sarebbe
mangiato un bove con tutte le corna; evadessero, porca puttanaccia,
portandosi dietro almeno tre panini e un tetrapak di Tavernello;
invece no. Gli era pure toccato versare il vino e spezzare il pane a
chi diceva ho sete, ho fame; andò a ripigliare la Bianchina e, poi, dal Bertelli a farsi mezzo chilo di schiacciata all'olio. La sera, al
penultimo sole quando sarebbero tornati i figli, ci sarebbe stata, a
casa, una burrasca peggiore di quella di qualche anno prima; aveva
dei figlioli meravigliosi.
martedì 26 agosto 2014
Il muro di Capalle
Per alcuni anni, nelle edicole della Toscana, ci abbiamo avuto questa roba qua sopra. Qualcuno se ne ricorda? Si tratta del Giornale della Toscana, il foglietto privato dell'on. Denis Verdini, ex macellajo di Champs sur le Bisence (come diceva i' pòero Monni) divenuto poi un fedelissimo di Silvio Berlusconi nonché "coordinatore nazionale" di tutta la pappa di forzitàglie e popolidellalibbertà tirata fuori nel tempo dal Cavaliere. Poiché, a livello nazionale, c'è il Giornale di famiglia, quello dei Feltri, dei Belpietri e dei Sallustij, in Toscana -regione dove notoriamente tutto il potere è ai Soviet- ci doveva essere la propaggine locale; e, così, per un certo tempo hanno imperversato impareggiabili locandine gialle a base di pallone, pallone, ancora pallone e, infine, anche un po' di pallone. Nel mezzo al pallone, ogni tanto, dosi mirate di degrado, di sihurezza, di zingari, di moschee (la Toscana è piena di moschèe, e più che altro di zanzarèe) e di foibe, come si evince da questa primapàgina nella quale compare anche il famoso Farina, ovvero l'agente Betulla. A fianco del Giornale della Toscana, l'on. Verdini si era concesso un'ulteriore foglietto ancor più locale, centrato sulla natìa Campi Bisenzio: si chiamava Metropoli (minchia che popò di metropoli!), e si faceva notare per deliziose locandine come questa qua sotto, nella quale si manifestava l'uso squisito e impeccabile della lingua italiana:
Un bel giorno, questi fulgidi esempi della libera stampa di cui gode questo paese, sono stati praticamente spazzati via. Non hanno semplicemente chiuso: sono stati letteralmente cancellati dalla faccia della terra. Gli è che qualcuno si è vagamente accorto che quella stampa faro di Lybertà nella Тоскана in preda da sempre al gelo rosso, coacervo di gulag e difesa da un manipolo d'irriducibili eroi (tra i quali, va da sé, l'on. Verdini), in realtà, serviva ad una sola cosa: a truffare lo Stato per ottenere pubblici finanziamenti. Nell'imminenza della cancellazione, i redattori del Giornale della Toscana e della Banda Verdini provarono pure a chiedere solidarietà, poiché stavano per perdere il loro prezïoso lavoro consistente nel dar conto di pallonate, foibe e astenzionisti; credo che avrebbero ottenuto assai maggiore solidarietà Landru o la Leonarda Cianciulli (detta la Saponificatrice).
Per un momento, però, vorrei mettermi nei panni di chi, quotidianamente o saltuariamente, acquistava il Giornale della Toscana e, magari, pure se lo leggeva. In Toscana alligna una bizzarra genìa di cittadini che si sentono assediati da ogni cosa; in primis dai homuništi. Ora come ora, di homuništi in Toscana ne saranno rimasti, a dir bene, una quindicina; e posso dirlo, perché praticamente li conosco tutti di persona. Al massimo, come dire, potrebbero assediare un pollaio a Sant'Angelo a Lecore e non è detto che ce la farebbero se incontrassero un par di galli (non quelli della Lista) particolarmente cazzosi. Peu importe; "Finalmente ci abbiamo un baluardo contro i homuništi!", avranno indubbiamente pensato. E, in sottordine, anche contro tutti i compagni naturali dei homuništi: islamici, zingari, centrisociàli, balordi, vuccumprà, mendicanti, donsantòri, e via discorrendo. Di questi buffi personaggi ne ho conosciuti alcuni, i quali infilavano i homuništi pure nei discorsi sul tempo che fa. Parlando con me, naturalmente, non tardavano a voler "provocarmi", o quanto meno stuzzicarmi: la categoria dei homuništi, per queste persone, non riconosce né sfumature e né distinguo storici, politici e di qualsivoglia altra natura. E così mi son ritrovato homuništa parecchie volte, con tutto quel che comporta. La prima cosa che ne consegue, naturalmente, sono le battute su Renzi, definito "mio amico": per gli antihomuništi toscani, infatti, il comuništa si identifica automaticamente col PCI / PDS / DS / PD. E non importava minimamente specificare, pure gentilmente e con grandi sorrisi, che il qui presente è un frequentatore di centri sociali, di entità antagoniste, di matrice fondamentalmente anarchica e antistatale, libertarie e magari non di rado persino comuniste, di ex terroristi, di stranissimi figuri e quant'altro; l'universo dei homuništi si ferma a Renzi e al PD.
Mi garberebbe di sapere, ora come ora, come si sentono venendo a sapere che il Giornale della Toscana, autentico baluardo nonché capillare informatore sulle serate di Adrian Mutu, è equiparato, persino dalla Corte dei Conti, ad una fabbrica di truffe ripetute e aggravate. Che la Società Editoriale Toscana e la Settemari scarl di Denis Verdini non erano minimamente interessate alle foibe, al degrado e neppure al pallone, ma a rubare soldi e basta. Che i loro campioni di libertà altro non erano che dei volgarissimi ladri. Che il Verdini è un crac semovente (di banche e di giornali), in procinto di diventare carne da carabinieri, da guardia di finanza, da Corte dei Conti. Mi garberebbe sì di saperlo, ma non lo saprò. Questi qui resteranno antihomuništi, 'io diàscolo. Truffa sì, ma in fondo era per una buona causa: difendere il mondo libero dal pericolo rosso. Mi chiedo cosa sia cascato a fare il Muro di Berlino, ma da queste parti ce n'è uno ben più saldo: il Muro di Capalle. E' saldo, tra le altre cose, perché da entrambe le sue parti ci sono gli stessi. Comuništi e antihomuništi. E non c'è nemmeno bisogno delle Trabant, basta prendere il bus 30 da via degli Orti Oricellari.
domenica 24 agosto 2014
W for Water: La curiosa fine del giudice Thayer
Il giudice Webster Thayer (1857-1933) |
Webster Thayer, il "giudice" e macellaio di Sacco e Vanzetti, era nato a
Blackstone, nel Massachusetts, il 7 luglio 1857. Era il più classico
prodotto della upper class americana di sempre: nato dalla classica ottima famiglia, diplomato alla Worcester Academy, laureato al Dartmouth College in giurisprudenza. Classicamente, eccelse
al college sia nel classico baseball, sia nell'ancor più classico
football (ebbene sì, eran fatti con lo stampino anche allora).
Politicamente fu, manco a dirlo, classico: prima fu democratico, e poi
repubblicano. Fece poi la classica brillante carriera fino a
essere nominato, nel 1917, giudice presso la Corte Suprema del
Massachusetts a Dedham. Fu là che, nel 1920, si svolse il "processo" a
Sacco e Vanzetti.
Il problema era che, nello stesso anno 1920, il classico giudice Webster Thayer aveva tenuto un discorso presso una classica istituzione, "New American Citizens", denunciando il pericolo che il bolscevismo e l'anarchismo rappresentavano per le istituzioni americane; gli Stati Uniti vivevano ciò he fu chiamato il "Triennio Anticomunista", una sorta di maccartismo ante-litteram, e il giudice Thayer (noto anche per le sue idee razziste), applicò a perfezione quei suoi princìpi. Del resto, si tratta di princìpi assolutamente classici nel "paese della libertà".
E' peraltro del tutto errato descrivere Nicola Sacco e Bartolomeo Vanzetti come una specie di santi paracattolici: erano due anarchici e due combattenti che andavano a morire per questo, pur non avendo commesso il fatto specifico per i quali venivano condannati a morte. Bartolomeo Vanzetti ebbe a scrivere, in inglese non perfetto: "I will try to see Thayer death [sic] before his pronunciation of our sentence". Non mancò, lo stesso Vanzetti, di chiedere ai compagni anarchici, "revenge, revenge in our names and the names of our living and dead."
E gli anarchici, italiani e americani, non stettero a grattarsi. Per parecchi anni dopo la morte di Sacco e Vanzetti non fecero letteralmente dormire sonni tranquilli né al giudice Thayer, né ai giurati che avevano pronunciato la sentenza di morte. Tutti i giurati ebbero delle brave bombe piazzate presso le loro abitazioni, che esplosero regolarmente; lo stesso capitò a un (falso) testimone dell'accusa e persino al boia che aveva azionato la sedia elettrica, Robert G. Elliott. Il 27 settembre 1932, infine, toccò a Thayer stesso: un bel pacco contenente non pochi candelotti di dinamite fu sistemato presso la sua abitazione di Worcester, e la casa fu classicamente rasa al suolo. Nell'esplosione il giudice Thayer rimase illeso, ma rimase gravemente ferita sua moglie ed anche un domestico.
Da allora, il giudice Webster Thayer visse il resto dei suoi giorni al suo classico club, guardato a vista 24 ore su 24 dalla sua guardia del corpo personale e da alcuni poliziotti. La vendetta richiesta da Bart Vanzetti stava però per compiersi in modo curioso, e a cura del destino: il giudice Thayer non morì una morte propriamente classica, dopo tutta una vita da classico stronzo e da ancor più classico servo.
Il 18 aprile 1933, infatti, fu colto da un ictus (allora ancora noto come "embolia cerebrale") mentre stava cacando presso il suo esclusivo club. Morì sul cesso, insomma; la vendetta del ridicolo, in mezzo al puzzo della sua merda. L'anarchico italiano Valerio Isca sostenne per primo che, in questo modo, Sacco e Vanzetti avevano ricevuto una specie di vendetta; "così la sua anima se n'è andata direttamente nelle fogne", aggiunse Isca.
Il problema era che, nello stesso anno 1920, il classico giudice Webster Thayer aveva tenuto un discorso presso una classica istituzione, "New American Citizens", denunciando il pericolo che il bolscevismo e l'anarchismo rappresentavano per le istituzioni americane; gli Stati Uniti vivevano ciò he fu chiamato il "Triennio Anticomunista", una sorta di maccartismo ante-litteram, e il giudice Thayer (noto anche per le sue idee razziste), applicò a perfezione quei suoi princìpi. Del resto, si tratta di princìpi assolutamente classici nel "paese della libertà".
E' peraltro del tutto errato descrivere Nicola Sacco e Bartolomeo Vanzetti come una specie di santi paracattolici: erano due anarchici e due combattenti che andavano a morire per questo, pur non avendo commesso il fatto specifico per i quali venivano condannati a morte. Bartolomeo Vanzetti ebbe a scrivere, in inglese non perfetto: "I will try to see Thayer death [sic] before his pronunciation of our sentence". Non mancò, lo stesso Vanzetti, di chiedere ai compagni anarchici, "revenge, revenge in our names and the names of our living and dead."
E gli anarchici, italiani e americani, non stettero a grattarsi. Per parecchi anni dopo la morte di Sacco e Vanzetti non fecero letteralmente dormire sonni tranquilli né al giudice Thayer, né ai giurati che avevano pronunciato la sentenza di morte. Tutti i giurati ebbero delle brave bombe piazzate presso le loro abitazioni, che esplosero regolarmente; lo stesso capitò a un (falso) testimone dell'accusa e persino al boia che aveva azionato la sedia elettrica, Robert G. Elliott. Il 27 settembre 1932, infine, toccò a Thayer stesso: un bel pacco contenente non pochi candelotti di dinamite fu sistemato presso la sua abitazione di Worcester, e la casa fu classicamente rasa al suolo. Nell'esplosione il giudice Thayer rimase illeso, ma rimase gravemente ferita sua moglie ed anche un domestico.
Da allora, il giudice Webster Thayer visse il resto dei suoi giorni al suo classico club, guardato a vista 24 ore su 24 dalla sua guardia del corpo personale e da alcuni poliziotti. La vendetta richiesta da Bart Vanzetti stava però per compiersi in modo curioso, e a cura del destino: il giudice Thayer non morì una morte propriamente classica, dopo tutta una vita da classico stronzo e da ancor più classico servo.
Il 18 aprile 1933, infatti, fu colto da un ictus (allora ancora noto come "embolia cerebrale") mentre stava cacando presso il suo esclusivo club. Morì sul cesso, insomma; la vendetta del ridicolo, in mezzo al puzzo della sua merda. L'anarchico italiano Valerio Isca sostenne per primo che, in questo modo, Sacco e Vanzetti avevano ricevuto una specie di vendetta; "così la sua anima se n'è andata direttamente nelle fogne", aggiunse Isca.
sabato 16 agosto 2014
Urgente: Programma abbattimento controllato per leghisti
Vicino a Pinzolo, in Trentino, devono allignare dei geni. Tipo quel famoso cercatore di funghi che ieri, mentre si aggirava per il bosco pronto a raccogliere qualche bella amanita falloide ("ma mangiali i funghi raccolti dallo zio....lui è bravo, li conosce!") si è imbattuto in mamma orsa coi suoi due piccoli. E che ha fatto il nostro bravo fungajolo, che evidentemente deve avere la testa ancor più falloide dell'amanita? Mica si è levato dai coglioni con circospezione estrema; no, si è nascosto dietro un albero per "osservare". Lodevole intenzione; solo che pure a mamma orsa è venuta voglia di osservarlo. E siccome mamma orsa ci ha, direi, dei bei cinque o sei quintali di osservazione acuta, l'intelligentissimo fungaiolo è stato attaccato e, bontà sua, se l'è cavata con qualche ferita e, soprattutto, con l'indelebile marchio di pirla che lo accompagnerà per il resto dei suoi giorni.
La cosa parrebbe, e logica vorrebbe, che fosse finita qui: la classica "brutta avventura" ferragostana che poteva finir bene o finir male. E invece no; poiché non c'è mai limite all'idiozia, ecco che ti spunta, indovinate chi? Ma la Lega Nòrde! Poteva forse lasciarsi sfuggire l'occasione per esercitare l'arte della cretineria di area vasta, in cui essa è maestra? Poteva esimersi dal fornire il suo autorevolissimo parere? Impossibile. E, infatti, non contenta degli immigrati, dei gay, degli zingari, dei mendicanti e praticamente di chiunque, ora ha pensato bene di prendersela persino con gli orsi.
Così la povera orsa Daniza, la quale non è stata "introdotta" nella zona di sua spontanea volontà e deve portare il "radiocollare" per essere sempre localizzata, non soltanto non può avere una reazione normalissima (dato che è un orso) e rischia per questo di essere catturata e eventualmente abbattuta senza pietà dietro apposita e regolamentare ordinanza provinciale e in base al relativo "protocollo"; ma questi qui lo avranno saputo, al momento di reintrodurre gli orsi, che essi si comportano da orsi? Che non sono i gattini di YouTube? No, non soltanto questo. Deve anche beccarsi l'intervento leghista che chiede la fine del programma "Life Ursus" per la tutela e la protezione degli orsi nella provincia autonoma di Trento; ci ha, la Lega, da difendere gli interessi dei coltivatori e degli allevatori (peraltro instancabili devastatori di territori) i cui principali problemi, evidentemete, sono gli orsi che entrano nei loro meleti del cazzo. Fossi l'orsa Daniza, a questo punto, dichiarerei la guerra. Altro che cercatore di funghi; andrei a fare una visitina, che so io, a qualche assessore e, soprattutto, a qualche leghista locale. Senza cuccioli al seguito.
Sono questi i risultati di una politica che ha lasciato proliferare indiscriminatamente "amministratori" e legaioli; si vogliono abbattere gli orsi, quando sarebbe bastato, negli anni passati, abbattere in modo controllato (e, naturalmente, regolamentato da un protocollo) qualche esemplare particolarmente problematico. Si metta ad esempio di essere tranquillamente nel bosco a cercar funghi, e di imbattersi non nell'orsa Daniza, ma in una bestia del genere:
Cosa si dovrebbe fare, considerato anche che non gli è stato applicato nemmeno il radiocollare? Un serio programma di abbattimento controllato e immediato avrebbe preservato da parecchie cose, anche tenedo conto che nei nostri centri abitati, e persino nei nostri parlamenti e nei nostri governi, sono stati introdotti animali come questo:
Ripeto: neppure per i leghisti, e ci tengo a sottolinearlo, sarei mai stato favorevole a un protocollo di abbattimento indiscriminato: assolutamente mirato e controllato. Sono certo che anche gli allevatori e i coltivatori ne avrebbero ricevuto assai più benefici di quanti ne possano avere ammazzando mamma orsa, soprattutto pensando che alcuni esemplari leghisti si sono occupati di politiche agricole, territoriali e comunitarie. Si potrebbe naturalmente obiettare che, al pari dell'orsa Daniza sotto minaccia di abbattimento per aver fatto la bua al fungaiolo, anche i leghisti hanno i loro cuccioli:
In questo caso, oltre a citare un celebre detto labronico (dé, sàrvamene un cucciolo!) ci sarebbe stato da considerare che un serio programma mirato & controllato avrebbe dovuto prevedere, sebbene la cosa possa apparire crudele, l'abbattimento anche di alcuni giovani esemplari oppure, come misura alternativa, la loro reintroduzione in territori lontani, tipo l'Albania (dove avrebbero potuto anche comprare qualche laurea).
Ma oramai il danno è fatto; e così l'orsa Daniza si ritrova a farne le spese. Ma occorrerebbe ricordarsi che non è mai troppo tardi, e che il tempo e lo spazio per studiare finalmente un serio programma di abbattimento controllato dei leghisti ci sarebbe, magari estendendolo in via eccezionale ad alcuni amministratori locali di altre congreghe.
La cosa parrebbe, e logica vorrebbe, che fosse finita qui: la classica "brutta avventura" ferragostana che poteva finir bene o finir male. E invece no; poiché non c'è mai limite all'idiozia, ecco che ti spunta, indovinate chi? Ma la Lega Nòrde! Poteva forse lasciarsi sfuggire l'occasione per esercitare l'arte della cretineria di area vasta, in cui essa è maestra? Poteva esimersi dal fornire il suo autorevolissimo parere? Impossibile. E, infatti, non contenta degli immigrati, dei gay, degli zingari, dei mendicanti e praticamente di chiunque, ora ha pensato bene di prendersela persino con gli orsi.
Così la povera orsa Daniza, la quale non è stata "introdotta" nella zona di sua spontanea volontà e deve portare il "radiocollare" per essere sempre localizzata, non soltanto non può avere una reazione normalissima (dato che è un orso) e rischia per questo di essere catturata e eventualmente abbattuta senza pietà dietro apposita e regolamentare ordinanza provinciale e in base al relativo "protocollo"; ma questi qui lo avranno saputo, al momento di reintrodurre gli orsi, che essi si comportano da orsi? Che non sono i gattini di YouTube? No, non soltanto questo. Deve anche beccarsi l'intervento leghista che chiede la fine del programma "Life Ursus" per la tutela e la protezione degli orsi nella provincia autonoma di Trento; ci ha, la Lega, da difendere gli interessi dei coltivatori e degli allevatori (peraltro instancabili devastatori di territori) i cui principali problemi, evidentemete, sono gli orsi che entrano nei loro meleti del cazzo. Fossi l'orsa Daniza, a questo punto, dichiarerei la guerra. Altro che cercatore di funghi; andrei a fare una visitina, che so io, a qualche assessore e, soprattutto, a qualche leghista locale. Senza cuccioli al seguito.
Sono questi i risultati di una politica che ha lasciato proliferare indiscriminatamente "amministratori" e legaioli; si vogliono abbattere gli orsi, quando sarebbe bastato, negli anni passati, abbattere in modo controllato (e, naturalmente, regolamentato da un protocollo) qualche esemplare particolarmente problematico. Si metta ad esempio di essere tranquillamente nel bosco a cercar funghi, e di imbattersi non nell'orsa Daniza, ma in una bestia del genere:
Cosa si dovrebbe fare, considerato anche che non gli è stato applicato nemmeno il radiocollare? Un serio programma di abbattimento controllato e immediato avrebbe preservato da parecchie cose, anche tenedo conto che nei nostri centri abitati, e persino nei nostri parlamenti e nei nostri governi, sono stati introdotti animali come questo:
Ripeto: neppure per i leghisti, e ci tengo a sottolinearlo, sarei mai stato favorevole a un protocollo di abbattimento indiscriminato: assolutamente mirato e controllato. Sono certo che anche gli allevatori e i coltivatori ne avrebbero ricevuto assai più benefici di quanti ne possano avere ammazzando mamma orsa, soprattutto pensando che alcuni esemplari leghisti si sono occupati di politiche agricole, territoriali e comunitarie. Si potrebbe naturalmente obiettare che, al pari dell'orsa Daniza sotto minaccia di abbattimento per aver fatto la bua al fungaiolo, anche i leghisti hanno i loro cuccioli:
In questo caso, oltre a citare un celebre detto labronico (dé, sàrvamene un cucciolo!) ci sarebbe stato da considerare che un serio programma mirato & controllato avrebbe dovuto prevedere, sebbene la cosa possa apparire crudele, l'abbattimento anche di alcuni giovani esemplari oppure, come misura alternativa, la loro reintroduzione in territori lontani, tipo l'Albania (dove avrebbero potuto anche comprare qualche laurea).
Ma oramai il danno è fatto; e così l'orsa Daniza si ritrova a farne le spese. Ma occorrerebbe ricordarsi che non è mai troppo tardi, e che il tempo e lo spazio per studiare finalmente un serio programma di abbattimento controllato dei leghisti ci sarebbe, magari estendendolo in via eccezionale ad alcuni amministratori locali di altre congreghe.
venerdì 15 agosto 2014
venerdì 8 agosto 2014
Iscriviti a:
Post (Atom)