martedì 21 luglio 2015

Piazzale Est


La stazione di Bologna, la più grossa stazione di transito d'Italia (non terminale, cioè, come sono Roma Termini o Firenze Santa Maria Novella), per far partire i localacci e gli interregionali ha bisogno dei piazzali: Est e Ovest. E se per caso , per cambiare un trenaccio in un luglio africano, tocca scendere al piazzale Ovest (quello famoso per i treni per e da Poggio Rusco, che sarebbe come se in Liguria un posto si chiamasse "Poggio Rumenta" o in Lazio "Poggio Monnezza") per andare a prendere la coincidenza per Prato al piazzale Est,  c'è da camminare. Parecchio da camminare. Succede quando, per risparmiare qualche soldo e disposti veramente a tutto, si viaggia coi treni regionali e interregionali; io sono uno di quelli là, di quelli disposti, appunto. Quelli del Treno a Bassa Velocità. Quelli delle stazioni mai viste da voialtri umani, perché la stazione di Pontenure non sapete nemmeno che esiste. Non vi siete mai fermati a Musiano Pian di Macina, voi del Freccia Club o della Top Class di Italo. Ne sapete un cazzo, voi, della stazione di Populonia Baratti; e nemmeno di quella di San Benedetto Val di Sambro, che poi c'entra qualcosa con quel che mi accingo a raccontare.

Siamo dunque al piazzale Ovest della stazione di Bologna, quello di Poggio Rusco; si scende da un regionale da Piacenza, e comincia la camminata per andare a prendere il 2277 Bologna-Prato, ferma a tutte le stazioni, cinque vagoni, aria condizionata a macchia di leopardo, controllore sbracato, fumatina regolare nel cesso chiuso a chiave perché le ritirate sono ancora di quelle col finestrino a "vasistas". I passeggeri, pochi, tutti ammassati nell'unico vagone dove sembra esserci una parvenza di aria condizionata; negli altri, una temperatura sui 45 gradi. Ma il biglietto costa sette euri e novantacinque; poi, da Prato, si fa a sbafo fino a Firenze perché tanto il biglietto non lo controllano mai. Esistono tutte delle tecniche delle quali non vi parlerò; se però volete andare da Firenze a Bologna senza spendere un centesimo, basta prendere il locale da Rifredi alle 4,41 del mattino e ve la potete dormire certi che, su quel treno, il controllore non c'è nemmeno. Ci sono dei ceffi abbastanza brutti, è vero, ma pur sempre meno brutti del compagno Moretti, l'ex amministratore delegato delle Ferrovie, e, più che altro, che non hanno provocato nessuna strage alla stazione di Viareggio. E che non hanno fatto esplodere, su un treno, nemmeno un raudo fischione.

Ma torniamo alla stazione di Bologna e alla camminata coast to coast dal piazzale Ovest al piazzale Est. Occorre farla, per forza, dal marciapiede del binario 1 centrale; e così, ogni volta, si rifà tutto il percorso. Lo squarcio nella parete, che è stato lasciato mettendoci una vetrata. La fermata alla sala d'aspetto, che è già tanto se c'è ancora una sala d'aspetto in una stazione, visto che in altre le hanno tolte di mezzo sostituendole col Freccia Club o col Club Italo; la lapide con ottantacinque nomi, le immagini che ritornano, i cadaveri portati via sopra l'autobus della linea 37, l'orologio fermo sulle dieci e venticinque. Eppure, oggi, è una giornata normalissima, a parte il caldo micidiale; ma non c'è nessuna fretta. Si deve vedere anche, seppur brevemente, un amico di passaggio da quelle parti. Tempo anche di constatare che, nella sala d'aspetto, ora c'è pure la Stanza delle coccole, uno spazio per far giocare i bambini. E si ripensa, magari, a Angela Fresu, di anni tre, che un due di agosto di tanti anni fa non ha avuto nessuna coccola. Si ripensa a tante cose in questo maledetto paese, e ci si pensa ovunque si metta piede viaggiando dove si fermano treni lenti e scalcinati.

Dalla sala d'aspetto e dallo squarcio, accanto al quale un'altra lapide ricorda come vi si sia fermato a pregare anche Giovanni Paolo II (quello che pregava ovunque, anche sui balconi assieme ai dittatori cileni), ancora lungo è il cammino per il piazzale Est. Specialmente col solito zaino in spalla dove c'è tutta la casa, si può dire. Noialtri viaggiatori alla God Hangman (= alla 'ioboia, ndr) non si scherza mica; si piglia un trenaccio per andare a Genova in una piazza, si canta la canzone di Sotiris Petrulas, ragazzo ammazzato dalla polizia, insieme alla madre di un ragazzo ammazzato dalla polizia; si balla su una canzone scritta in galera da uno che è morto, poi, di cancro, e si ripiglia un altro trenaccio da Brignole passando, sotto un sole cocente, per via Tolemaide che magari questo nome a qualcuno ricorderà qualcosa; ma mica per tornare a casa. Si va a Milano Rogoredo, dove alle nove della sera ci saranno trentasei gradi. E poi a Piacenza, 33 gradi alle undici e mezzo la sera. Il giorno dopo, cioè oggi, altri treni dimenticati. Lo zaino coi libri di fantasmi (compresa la Carmilla di Le Fanu, che non è on line ma in un vecchio libriccino da mille lire), la Settimana Enigmistica, la macchinetta fotografica, le matite e le penne nell'astuccio con Titti il Canarino, l'asciugamano cubano, le sigarette, le chiavi, le magliette di ricambio, il coltellino svizzero, l'ombrello tascabile, il cavatappi e la bottiglietta d'acqua brodosa.

Con quello zaino in spalla, magari a un'età non più da ragazzino, piano piano si esce da quella che, generalmente, si definisce "stazione di Bologna". Formalmente, certo, è la stessa stazione; ma, a un certo punto, scompaiono i tabelloni hi-tech, le tabaccherie, la macchinette vendi-ogni-cosa, i vacanzieri, i simil-manager in simil-giacca e simil-cravatta, tutto. Come passare da una città a un paesino dimenticato da dio. Viene quasi da pensare che, quel due di agosto, dal piazzale Est non si sia sentita nemmeno l'esplosione e che sia partito, pure in orario, un locale per Prato. 

Il Piazzale Est è un mondo a parte, a world apart. Quattro binari per destinazioni del tipo Monzuno o Portomaggiore. Trenini fermi a aspettare chissà chi; e persino un ingresso separato, che dà su una via dedicata a tale Masini. Al posto delle macchinette automatiche, dei gadget e di tutte le altre stazionàggini, una vera, autentica fontanella che butta acqua pigiando il rubinetto. Si avvicina un ragazzo africano, magari di un paese dove in questo momento c'è una gradevole temperatura di venti gradi, e si fa un'accurata pulizia del viso e delle braccia; poi torna a risistemarsi su dei materassini, poco più in là, assieme a degli altri ragazzi come lui. Tutti stesi all'ombra della tettoia del binario 4, da dove l'ultimo treno dev'essere partito quindici anni fa. Compostissimi, si riposano senza fare nessun rumore e danno un senso di pulizia. Lo imito; puzzo che avello, sudato fradicio, e una rinfrescata ci vuole proprio. L'acqua è pure fresca e sostituisco la melma che oramai ho nella bottiglietta. Tre persone in tutto a aspettare il treno per Prato, il 2277, che tra non molto piglierà la strada dell'Appennino come fosse un partigiano; e il paragone non è di fuori, visto che dal piazzale Est partono pure i locali per Marzabotto.

Un operaio sta a leggere le stronzate del "Resto del Carlino" seduto su un muletto Jungheinrich, che vorrebbe dire "giovane Enrico". Potrei stendermi da qualche parte, dopo aver dato una sigaretta a una ragazza che mi dice che "dorme per la strada". Le rispondo che la sigaretta gliela avrei data anche se dormiva allo Sheraton, e ci si fa una risata. Che si fa? Potrei stendermi da qualche parte; ma se mi stendo da qualche parte, mi addormento. E allora si esplora ben bene il piazzale Est, quel mondo a sé dentro la grande stazione che ne ha viste di tutte tranne, appunto, il piazzale Est. E così, dopo un po', scopro una cosa: questa qua sotto.



Silver Sirotti, il 4 agosto 1974, ha immolato la giovane vita ai più alti ideali di umana solidarietà. Traduzione: dev'essere saltato in aria sul treno Italicus. E sto lì a guardare quella lapide davanti alla quale non si dev'essere fermato a pregare nessun papa, al massimo il parroco di via Masini. Nessuno squarcio vetrato nel muro; a Silver Sirotti, ferroviere del personale viaggiante di Bologna, è stato riservato un angolino del piazzale Est. Non ne so nulla, di Silver Sirotti. Uno qualunque che era a lavorare assieme a degli altri qualunque che viaggiavano su un treno esploso in una galleria. Poi quel treno, e me lo ricordo bene anche se avevo solo undici anni, fu tirato fuori e portato, sventrato, alla stazione di San Benedetto val di Sambro. Una di quelle dove ferma il locale per Prato; poi fa la galleria e sbuca a Vernio-Montepiano-Cantagallo. Mi ci fermai anche io, a quella stazione, con un'ambulanza; era il 23 dicembre 1984 ed era, provate a immaginare, saltato in aria un treno. Ed è così che Silver Sirotti è diventato una targa metallica attaccata su un muro del piazzale Est. Cinquecento metri a valle c'è l'enorme lapide sulla quale hanno scritto: Vittime del terrorismo fascista. Per Silver Sirotti, nessun terrorismo e nessun fascista. Solo il nome di un treno e una data. E, dimenticavo, la giovane vita immolata ai più alti ideali di umana solidarietà.

Non so che cosa abbia fatto e come sia morto esattamente, quel giorno, Silver Sirotti. Non so perché e come si sia immolato. Credo che, come i passeggeri che si trovavano dentro quel treno, avrebbe fatto volentieri a meno di immolarsi; anche perché, in Italia, spesso e volentieri non ci si immola affatto. Ti immolano loro. Per una strategia, per intrighi, per giochi di potere, per ricatti, per tentati golpe, per pressioni, per mafie, per battaglie aeree, per qualsiasi cosa. Poi si fanno i depistaggi, i processi bis ter quater fino ad esaurire gli avverbi numerali latini, le condanne, le cancellazioni, gli appelli, le cassazioni, i comitati dei familiari che chiedono giustizia, e la "giustizia" tutt'al più consiste una lapide più o meno grande. O in una targa metallica al piazzale Est. Al piazzale dell'Est, per due soldi, una targa il Sirotti si beccò; e i due soldi, naturalmente, erano quelli del suo stipendio di ferroviere. E sono passati, quanti? Ah, ecco: quarantuno anni. In un paese che, ora, di solidarietà e di umanità non ne ha più. In un paese carogna dove i fascisti scorrazzano e fanno affaroni. E così, finalmente, mi metto a sedere appoggiato al lastrone terminale di uno dei quattro binari.

C'è da pensare a cose più pratiche e urgenti. Trovare il vagone con l'aria condizionata ad esempio; che privilegiati che siamo diventati. Nel '74, su un treno che non era poi certamente un localaccio, l'aria condizionata non esisteva. Bisognava aprire i finestrini, perché il 4 di agosto faceva caldo di certo e si andava a saltare in aria col vento in faccia. Bisogna sistemarsi alla bell'e meglio, in mezzo a conversazioni telefoniche in lingue sconosciute. Si tirano fuori dallo zaino i libri dei fantasmi, ma di fantasmi, qua, ce ne sono parecchi più che nei libri. Quelli dei libri, poi, sono quasi tutti nobili. Conti, baronesse, eteree fanciulle di alto e antico lignaggio. Hanno nomi esotici, tipo Carmilla. I fantasmi dei treni, invece, sono operai. Ferrovieri, casalinghe, bambini, studenti. E si chiamano, magari, Angela. O Silver. I fantasmi dei libri, alla fine trovano la loro pace o la loro giustizia; quelli dei treni non la trovano. Diventano lapidi o targhe al piazzale Est, ci scusiamo per il disagio.  Stevenson o Le Fanu non avrebbero saputo che farsene; si accontentino di uno che scrive un blog e che passa, sudato, puzzolente e con una bottiglietta d'acqua Lilia, per il piazzale Est per tornare a casa in un'estate rovente.