martedì 16 febbraio 2016

Figlio della lavandaia


Salve. Mia madre faceva la lavandaia, ma non dovete pensare certo all'iconografia delle belle ragazze che lavano i panni al fiume tutte giulive e con gesti ariosi. Mia madre lavorava in una lavanderia industriale per parecchie ore al giorno, ed è morta. Accidenti se lo so, che è morta; innanzitutto perché era mia madre, e poi perché l'ho seppellita io, di persona, con le mie mani. A dire il vero, forse, qualcuno se la ricorderà questa storia, perché diversi anni fa è stata raccontata, con un certo successo, da un mio amico che allora aveva una trentina d'anni e faceva l'impiegato in ufficio pubblico, non mi ricordo se le poste o le imposte dirette, insomma qualcosa con “poste”. Lo dico subito: sono morto pure io e non ho fatto una gran bella fine, anche se sicuramente un po' insolita. Nemmeno al mio amico impiegato è andata granché bene; è andato a finire in galera per un bel pezzo, per una cosa che ha combinato dopo che sono morto; e siccome non gli bastava, ha pensato bene di aggiungerci anche una bella partecipazione a una rivolta carceraria, cose di quegli anni. Insomma, ora non chiedetemi per favore se sia o meno ancora al gabbio; spero soltanto che almeno gli abbiano pagato i diritti d'autore, visto che sulla sua storia uno ci ha fatto, pensate un po', delle canzoni. Ma dico io. Che diavolo ci sarà stato da cantarci sopra, sulla storia di quel povero bischero; eppure dico la verità. Il bello è, appunto, che in una di queste canzoni ci sono finito pure io. Una strofa intera. Lo avesse saputo mia madre, povera donna, almeno ci si sarebbe fatta un sorriso mezzo inorgoglito; mio figlio in una canzone, chissà come mi invidieranno la Carla del terzo piano e la Marisa del quarto.

Ora, però, 'sta storia, visto che sono morto e non ho proprio null'altro da fare, ve la vorrei raccontare io com'è andata sul serio. Del resto, oramai sono passati tanti di quegli anni che se ne può parlare tranquillamente, non dico con distacco, no, ma ragionando in modo pacato e pigliandola magari anche un po' sul ridere. L'unico problema è che non so davvero da dove cominciare; se dalla storia del mio amico impiegato, o dalla mia. Forse sarà meglio dalla mia, d'accordo, tanto così per calare subito l'asso della mia strana fine. Come qualcuno magari ricorderà, io sono morto arrugginito. Proprio così. Ossidato, se si preferisce un termine un po' più elegante. Non c'è stato nulla da fare e, già da morto, mi son dovuto pure beccare le battute dei becchini che mi dicevano che avrei dovuto portarmi dietro due chili di vernice al minio. Naturalmente, essendo là stecchito e pronto per essere seppellito, non ho potuto risponder loro “meglio morto che arancione”; e comunque, tutto sommato, mi è andata pure bene perché le leggi di allora in materia di smaltimento erano molto meno severe di ora, e che oggigiorno non sarei stato seppellito in terra consacrata bensì in una discarica abilitata allo stoccaggio e allo smaltimento dei rifiuti tossici. Magari mi avrebbe beccato pure qualche Ecomafia, vattelappesca; e comunque così è andata, bisogna anche perdonare qualche battutaccia a quei pover'uomini che fanno quel lavoro di merda. Poi, del resto, merda è ogni lavoro. Fare il becchino non è peggio che fare l'impiegato o la lavandaia; mia madre e il mio amico ne sanno qualcosa. Quanto a me, io facevo il fannullone, senza pretesa di volere strafare. Dormivo al giorno quattordici ore, saranno stati anche un po' cazzi miei, ci avevo sempre sonno.

Ora, secondo la storia raccontata dal mio amico, e anche -ohimè- dalla canzone, io stavo seppellendo mia madre in un cimitero di lavatrici. Del tutto vero, ineccepibile; però, come dire, la storia è stata buttata lì alla brutto dio, senza una minima spiegazione, come fossi stato un matto da legare che piglia la salma della mamma e va a buttarla in una discarica di elettrodomestici usati. Ennò perdio. Sappiate che stavo adempiendo ad una precisa volontà di mia madre, espressa poco prima che morisse. “Figlio mio”, mi aveva preso un giorno da una parte, “devo parlarti”. Con il dovuto rispetto, la avevo ascoltata seppure con una certa inquietudine.

Vedi, figliolo, sai che per tutta la vita ho lavorato in mezzo alle lavatrici. Ma non come quella di casa; erano dei mostri con dei cestelli enormi, in qualcuna ci sarebbe stata dentro una famiglia intera a pranzo. Alla fine, voglio fartela breve, ho imparato a capirle, le lavatrici. Il loro più minuto linguaggio, le sfumature degli zììììììììììììììrl e dei guòòòòòòòòòsh, degli spràààààààm e dei chluchlù-chluchlù. Alla fine ci parlavo e mi rispondevano, erano le uniche cose con cui sfogarmi, e anche io avevo imparato a fare zìììììììììììììrl e chluchlù-chluchlù....mi prenderai per matta, lo so. Ma prova tu, figliolo, a stare dieci ore al giorno dentro una lavanderia industriale. (Io pensavo: mamma, ti ringrazio per tutto quel che hai fatto per me, ma col cavolo). Insomma, figlio mio, ti chiedo di rispettare le mie ultime volontà: quando morirò, mi devi seppellire in un cimitero di lavatrici. E voglio tutto in regola: mi pigli, mi avvolgi in un lenzuolo, cerchi il relitto di una -ségnatelo- Washmonster Turbomatic 666 e mi ci infili dentro con tutto il sudario, e non avere paura perché tanto c'entrerebbe dentro pure un orso bruno. Giurami che lo farai, figlio mio.”

Che cosa potevo fare? Sinceramente, pensai che a mia madre, sì, fosse andato di balta il cervello. D'altronde, mi misi a riflettere rapidamente, con quel poco che guadagnava stando alle sue lavatrici mostruose aveva campato me, le mie mille favole di gloria e di vendette, e pure quella sciagurata di mia moglie, che alla prima occasione buona s'era messa a darla ddiqquà-e-ddillà. Oddio, poveraccia, aveva anche fatto bene, non lo nego. Un certo qual senso di autocritica l'ho sempre avuto, non crediate. Insomma, alla fine, mi decisi: “Sì, mamma, rispetterò il tuo volere. Sarai seppellita nella tua lavatrice preferita avvolta nel lenzuolo bianco ricamato dalla zia Giuseppa.” Misi la mano sul cuore; vidi mia madre prima sorridere commossa, e poi mi abbracciò; fu un momento che definire toccante sarebbe un eufemismo. Com'è e come non è, la mia povera mamma un brutto giorno passò a miglior vita; e dovetti agire con un po' di circospezione, poiché ciò che mi accingevo a fare non era, forse, pienamente legale. D'accordo che ci sono stati miliardari texani che si sono fatti seppellire dentro una Lincoln Continental del '61 o roba del genere, ma una lavatrice non sarebbe stata presa molto bene dalle autorità.

Il giorno fissato per l'operazione mi sentivo parecchio strano. Ci avevo, porca eva, un prurito leggero su tutto il corpo, e non facevo che grattarmi; eppure mi ero lavato a dovere, diamine, stavo per infilare la mia povera mamma morta in una lavatrice gigante e mi sembrava il minimo. Dopo averla infilata nel lenzuolone candido della zia Giuseppa, con un po' di fatica e maledicendo il prurito, infilati quel bizzarro bagaglio nel baule della mia Fiat 124 e andai alla discarica prescelta, dov'ero certo di trovare quel che la mamma 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La trovai, infatti, facilmente la Washmonster eccetera; uno spettacolo. Non avevo mai visto nulla del genere; più che una lavatrice, sembrava un'astronave di quelle dei film tipo Ed Wood. Mentre mi accingevo a infilare la mamma nel cestello, rispettando così il suo ultimo desiderio, avvenne l'irreparabile e l'inspiegabile. Sentii come una specie di zìììììììììììììììrl, come se il mostro si fosse rimesso a funzionare; poi, dentro di me un grììììììììììììnd; e, infine, ecco, beh, lo sapete. Mi ritrovai completamente arrugginito. Non in senso figurato, sapete, come quando si dice “mi sento un po' arrugginito” se non si riesce a fare la corsetta per acchiappare l'autobus. E nemmeno come quando si dice che l'inglese che si è imparato a scuola è arrugginito. No, no. Proprio arrugginito, trasformato in una cosa marrone e dall'odore metallico che comincia rapidamente a disfarsi. Accorgendomene, feci appena in tempo a buttare la mamma dentro il cestellone, che si richiuse con un bòng. Poi non mi ricordo più niente. Mi sembrò quasi che la lavatrice partisse per davvero; ma, a quel punto, ero già bell'e e che morto. Arrugginito, appunto.

Così andò; e qui la famosa canzone del mio amico impiegato ricomincia fortunatamente ad essere un pochino esatta. Vero è che parecchie particelle di ruggine, dissolvendosi, partirono per l'aria, e fu una sensazione non sgradevole, a dire il vero. L'aldilà? Lo avevo sentito definire in mille modi, e scoprivo ora che era ossido di ferro. Eh, vabbè, una cosa come un'altra, sarà mica peggio di Caron Dimonio o di quell'anodina pallosità chiamata “paradiso”. E' senz'altro vero che ne parlarono parecchi giornali, di questa cosa; insomma, è comprensibile. Mica tutti i giorni succede che uno muoia arrugginito, eh. Pensate un po' se allora ci fosse stata “La vita in diretta” o roba del genere, anche se vedere la faccia di Alda d'Eusanio di fronte alla mia salma ossidata sarebbe stato uno spasso. Secondo me, ci butto, sarebbe prima o poi venuto anche Voyager con tanto di Templari, Maya e Rennes-les-Châteaux. Però è assolutamente falso che io sia scappato via prima di arrugginire: avevo una promessa da mantenere alla mia povera mamma e non accetto che la mia memoria si arrugginisca fino a tal punto. E poi, scappato per cosa? Beh, il prurito gratta-gratta ce lo avevo, ma non pensavo certo di arrugginire a morte. Nemmeno voi ve lo aspettereste mai; a me è toccato. Assolutamente sacrosanto che mi sia fermato solo un attimo per dire due paroline al Padreterno e ti pareva che non volesse scassare la minchia persino a uno che aveva fatto arrugginire? Però qui la canzone risente della castità del tempo; altro che “fatti suoi” Gli urlai, al vecchio barbogio, proprio di farzi i cazzi suoi, altro che “fatti”; però la canzone, credo, l'avrebbero censurata all'istante. Infine, per concludere la mia vera storia, è pur vero che dopo poco si mise a piovere, e che una certa quantità della mia ruggine sia caduta addosso ai becchini insieme all'acqua; forse anche per questo, poi, mi dicevano le battutacce sul minio. La “gente che si lascia piovere addosso”, però, non l'ho mai capita; forse sarà stata qualche immagine poetica, boh. A quanto mi risulta, ci avevano tutti quanti l'ombrello, casomai ci sarà stato qualche problema se aveva il puntale di metallo.

Però, insomma, la cosa che proprio non mi riesce capire, è come io sia andato a finire, sia pure arrugginito, dentro la storia del mio amico impiegato (e dentro la relativa canzone, va da sé). Io, proprio, non ci avevo nulla a che vedere. Oh, d'accordo, io sarò stato quel che sarò stato, ma di qui a infilarmi in una storiaccia di bombaroli solitari e di rivoluzioni francesi, ce ne corre. Io mi chiedo che cosa gli sia passato per la testa, al mio amico; ci aveva un buon impiego, contare i denti ai francobolli non sarà granché divertente però è sempre meglio che spaccarsi la schiena in miniera o fare il becchino. Diceva “grazie a Dio” e “buon Natale” con squisita educazione, aveva una bella fidanzata che lavorava in un negozio di fiori finti e lui, pàff, cosa ti fa? Si mette a ascoltare le canzoncine del “maggio francese”, tutti quei casinisti che poi, in gran parte, sono finiti a fare gli impiegati esattamente come lui, passati i bollori giovanili. Per non dir di peggio, tipo a votare a loro volta l'ordine, la sicurezza e la disciplina; oppure a servire e leccare il padrone con lingue ben più grandi della lavatrice della mia povera mamma. Nulla da fare. Si è messo a sognare, e che sogni! Prima quello di mettere una bomba a un ballo mascherato, io dico, che accidenti gli avranno fatto le mascherine? Poi di stare in tribunale davanti a un giudice che gli dice di essere il “potere” e gli chiede pure se vuole essere giudicato, assolto o condannato. Bella fica, lui! E mica funziona così nei tribunali! Poi, infine, sogna di ammazzare suo padre e di dare fuoco a ogni cosa, persino a un quadro di Guttuso costato degli spaventomilioni. E ce lo avessi avuto io, quel quadro! Avrei fatto seppellire la mamma in una lavatrice nuova di pacca, e magari non sarei arrugginito; e invece no, lui sogna di dargli fuoco. Lui, sempre nel sogno, “discute l'amore” con sua moglie, e sai cosa c'è da discutere. E' andata a finire come doveva: a un certo punto è capitato in casa un tipo parecchio strano, magro, con dei capellacci arruffati e parecchio più attempato di lei. E lui lì, a berciare dal Commissario mentre quello lì gli intortava la moglie con discorsi sulla Wertkritik, che la sua povera moglie deve aver preso per una collega della Wertmüller. No, vero; farsi fregare la moglie perché l'altro ha più soldi, perché è parecchio più bello, perché ci ha la spider mentre tu ci hai la seicento, per qualche stracatacazzo di motivo; ma farsela fregare a base di Robert Kurz e Anselm Jappe dev'essere stato parecchio duro e capisco un po' perché, a un certo punto, al povero mio amico dev'essere saltata qualche rotella nel capino. Il suo ultimo figlio? Lasciamo perdere, l'ho conosciuto. Quello, a diciassett'anni, si faceva già delle pere più grosse d'una conference, altro che “primo hashish”. E ci credo, poi; col padre in galera e la madre scappata con un altro, che ti vuoi aspettare. Insomma, si vede che il mio amico impiegato proprio voleva finirci, in tribunale; ma non deve avere trovato il giudice che aveva sognato. Ha preparato la sua bella bomba con tanto di ragionamenti anche profondi e giusti, lo ammetto, però prima di ragionare forse avrebbe dovuto imparare, che so, un po' di balistica, o semplicemente avere un po' più di gnegnero. E così, invece del Parlamento, ha fatto saltare in aria un'edicola, fortunatamente vuota. Epperò, bel modo di finire in gattabuia, aver fatto esplodere centoventi copie del Corriere della Sera, un pacco di Settimane Enigmistiche e un quintale di fumetti porcherecci tipo Lando o Corna Vissute, sapete, di quelli che i chioschi di giornali tengono sempre sul retro per non farli vedere ai bambini e alle monache.

Ha fatto un po' scena al processo, d'accordo. Sebbene fossi già ampiamente morto e la mia ruggine oramai avesse cessato di fare notizia (capirai, la storia ha retto due o tre giorni poi se ne sono dimenticati tutti), mi ricordo dell'aria fiera e dignitosa che il mio amico aveva al processo. Ciò, naturalmente, non è servito a non fargli prendere vent'anni di galera. E nemmeno per un sacrosanto motivo come quello di tale Michele Aiello, detto “Michè”, che aveva ammazzato uno stronzo che voleva fregargli la fidanzata e che poi s'era impiccato in cella. E così, mentre la sua fidanzata (o moglie che sia) se la filava col tipo magro, che ci aveva già i passaporti pronti, nonché una valigia piena di libri di Giorgio Agamben, lui, eh, prendeva coscienza e partecipava alla rivolta carceraria prendendo in ostaggio dei secondini, tra i quali Baffi di Sego che era il primo e al quale infilarono persino un manico di scopa nel culo. E vabbè. E che vi devo dire. Magari avranno fatto pure bene, anche se sospetto che, nei lunghi anni di galera che sono susseguiti, il mio disgraziato amico si sia prima o poi ritrovato a contare i denti ai francobolli, dicendo “grazie a Dio” e “Buon Natale” al direttore del carcere, e sperando in una liberazione per buona condotta. Beh, non s'è ammazzato come quel Michele Aiello, e è già qualcosa; nel frattempo le rivoluzioni, mi sembra, sono andate a farsi fottere, parti des rouges, parti des gris, e mi piacerebbe poter dire, arrivati quasi alla fine, che io -non so come e non so perché- sono ancora vivo. Invece no, non lo posso dire. Io sono morto. Arrugginito, oh yea.

Ripeto: come io ci sia finito, in questa storia, non lo so proprio. Osservo; però, evidentemente, le mie capacità sono parecchio limitate. Faccio parte, lo confesso, di quella schiera di persone terra-terra, anzi ruggine-ruggine, che non sono mai protagoniste di nulla. Forse, chissà, il mio amico impiegato avrà voluto, col suo gesto, essere protagonista di qualcosa almeno per un po'; e forse ha voluto infilarmici dentro per farmi una specie di regalo. Forse starà per arrugginire anche lui, e ci ritroveremo a fare un bel cocktail di ossido, sai carini; o forse ancora, chissà, anche questo è un altro dei suoi famosi sogni. Dove sono finito? Quando ho finito di sfaldarmi accanto alla lavatrice dove avevo infilato la mamma, purtroppo ho inquinato qualche ruscello diluendomi poi in un fiume più grande. Qualche mia rugginosa particella dev'essere arrivata pure in mare. Da me non cresceranno alberi né fiori; eppure qualcosina di me deve ancora vagare, e chi lo sa. Un granello di ruggine in lontanissime isole. Un altro granello a sbirciare le bagnanti sulla Plage de la Corniche. Un altro ancora ad assistere al delirio di Gauguin e Madeleine Bernard. Che sbadato, mi ero dimenticato di presentarmi. Piacere, mi chiamo Berto, figlio della lavandaia. E la lavatrice, dicono, gira, gira senza smettere mai.