venerdì 17 marzo 2017

Diarsera posi un giglio



Se sulla prima, Maremma amara, non c'è alcun dubbio, sulla seconda ci potrebbe essere una qualche contesa. Sto parlando delle canzoni popolari toscane più famose, lo avrete capito: sono uno, del resto, che ha sempre fatto gran giri per il mondo per poi tornare sempre dalle mie parti, alle quali sono abbarbicato come una pianta di rosmarino.

Vada come vada, prima o seconda che sia, c'è qualcuno, anzi qualcuna, che c'è sempre di mezzo. Si chiama Caterina Bueno, e il sedici di luglio di quest'anno saranno dieci anni che se n'è andata, con certezza a fare la “Raccattacanzoni” in qualche ignota dimensione o galassia, con la sua vecchia 500, il registratore, il taccuino e le sigarette. 

A modo mio, oppure in qualche modo, ho inteso anche io, nella mia vita, fare il Raccattacanzoni. Dovessi rendere questa parola, inventata da Caterina, in una qualche lingua, mi sarebbe del tutto impossibile; raccattare canzoni come si raccatta un cencio per terra, un oggetto buttato via, una monetina da due centesimi scivolata da una tasca. Raccattare canzoni come si raccatta un qualche sogno dimenticato, e le parole e le musiche che, in un qualche tempo o momento, hanno potuto far sognare, divertire, incazzare, pensare, amare, odiare.

Ma si parlava delle canzoni toscane, e di quale sia la seconda più famosa. Tra le contendenti, questa qua ha parecchie possibilità di prendersi la medaglia d'argento; però, molti che la conoscono (tra i quali, per esempio, Francesco De Gregori e Roberto Vecchioni) sono tentati di assegnarle la medaglia d'oro per la più bella. Naturalmente è una canzon d'amore; come si dice nel gergo di noialtri raccattacanzoni, sarebbe un Rispetto, quanto a forma poetica e musicale.

E cinquecento catenelle d'oro, la Caterina, la infilò per la prima volta in un suo disco del 1968, chiamato La veglia, pubblicato nei “Dischi del Sole”. Negli anni '60, in Toscana o altrove, si potevano ancora raccattare canzoni per le campagne, magari sulla scorta di vecchi libracci polverosi scritti da preti o da maestri elementari; ora non è più possibile. Il raccattacanzoni del Dumila e rotti raccatta tutto su Internet, a parte qualche fortuito caso personale oppure se lo assiste la memoria. Su Internet lo raccatta, comunque, e su Internet lo rimette.

Girava per le Maremme e per il Valdarno, la Caterina, e da qualche parte si dev'essere sentita cantare di queste catenelle d'oro, che ha reso famose tanto da penetrare nella canzone d'autore. Cinquecento la bagnarola della Caterina, cinquecento le catenelle d'oro, e Cinquecento, con tutta probabilità, anche gli anni che deve aver girato questa canzone prima di approdare al registratore, al taccuino e alla chitarra della Caterina che girava per le campagne toscane nel decennio della rivoluzione, dei Beatles, del rock e della fantasia al potere, andando a cercare vecchie contadine che si ricordavano di qualche canzone che avevano magari imparata da bimba, così come da bimba l'aveva imparata sua nonna che gliela aveva cantata. Da qualche parte c'era il maggio francese, e lei cercava qualche Calendimaggio a Arcidosso o a San Giovanni Valdarno.

Poi faceva i dischi, del Sole o della Luna. Con quella sua vociaccia senza filtro, viene quasi da dire che si fumava due pacchetti di canzoni al giorno. Certo che, poi, le canzoni che raccattava, le rimetteva un po' in sesto. I contadini valdarnesi non ci avevano di certo la chitarrina e non sapevano che quel che stavano cantando era un “rispetto” o qualcos'altro; cantavano con voci ora fioche, ora che rassomigliavano a una zappa. Poi la Caterina, quando faceva i dischi, rendeva “ascoltabili” quegli strazi secolari.

E così, anche le meravigliose catenelle d'oro, sono meravigliose perché ci ha messo mano la Caterina. Ha sempre funzionato così, quando il canto popolare e rurale è stato dato in pasto ad un'epoca che non è più la sua. Se si ascoltassero le registrazioni originali della Caterina e di chiunque altro abbia raccattato canzoni, non si resisterebbe nemmeno cinque minuti; se volete, provate, che so, a ascoltare il contadino Pietro Zeppi di Bivigliano (Firenze) mentre canta Su fratelli pugnamo da forti. Si dice che per la prima volta, lo Zeppi cantò quella cosa alla Caterina dopo essere sceso giù da un ulivo che stava potando; poi, nel 1964, la Caterina lo portò a Milano e lo mise a cantare davanti a Roberto Leydi che registrava, e gli era un gran viaggio di nulla. Dopodiché lo si confronti con la versione che, della medesima canzone, hanno fatto Les Anarchistes quando ancora ci sonava e cantava Marco Rovelli.

La Caterina, a volte, metteva mano anche alle parole. I canti popolari sono quasi sempre più lunghi di quelli che si ascoltano. Quelli originali, a volte, sono delle lungagnate spaventose che, da soli, occuperebbero un lato intero del vostro disco, vi pungesse vaghezza di inciderne uno (a vostre spese, ovviamente, perché cose del genere non le pubblica più nessuno). I canti popolari, quando vengono proposti, sono generalmente abbreviati; si cantano solo alcune strofe, quelle magari che più “colpiscono”. Le catenelle d'oro della Caterina ne sono un esempio, anche se il testo originale non è in questo caso lunghissimo.

E cinquecento catenelle d'oro passa per una stupefacente canzone d'amore eterno; ma, in origine, era un canto nuziale e non era affatto l'innamorata che lo cantava all'innamorato, o viceversa, in qualche segreto convegno perché all'epoca le ragazze stavano rinchiuse in casa, e se le beccavano a cantarsi le canzoncine con l'innamorato, le monacavano. Di origine cinque o seicentesca, era un canto che le amiche della sposa, o le donne di casa, intonavano mentre le preparavano il letto per la prima notte di nozze, quello dove la fanciulla avrebbe cessato di essere tale per diventare una cacafigli (continuando, magari, a spezzarsi la schiena nei campi e in casa). Il canto si chiamava, propriamente, Diarsera posi un giglio, e in certe sue strofe, quelle centrali, diventa stranamente dolente. Stranamente ma non troppo: quelle strofe parlano d'un giglio che sboccia, la fanciullezza alla quale si vuole tanto bene. Il giglio cresce, e cresce, e cresce; e, alla fine, bisogna ricordarsi del bene che gli si è voluto. E così, mentre le donne preparano il letto alla sposa, si rammentano che su quel letto si comincia a appassire. Poi riattaccano con le catenelle.

Quand'ero ragazzino, di fronte a me, in città, stavano due vecchi contadini inurbati. Lui Torello, lei non mi ricordo come si chiamava. Lui la zappa e tre guerre, lei la zappa e cinque figli. Una volta, lei raccontò del suo matrimonio, avvenuto alle Sieci nel 1920 o giù di lì. Le Sieci, prima di Pontassieve, nel 1920, non erano “campagna” rispetto a Firenze: erano campagna lontana. Tant'è che dopo il matrimonio, durato il tempo della messa e d'una bicchierata di vino fra gli uomini (mentre la sposa riceveva i regali: “tre pentole tutte nòve”, e fine), lo sposo la portò a fare il viaggio: un giorno a Firenze, che lei non aveva mai visto, portati su un carro. Poi via nei campi e a fare figli, e chissà se le su' amiche gliele avranno cantate, le catenelle, alla nonna Cencetti (il nome non me lo ricordo, ma il cognome sì; morì un bel po' prima del marito, che ha campato fino a centotré anni).

E così, la Caterina, quelle strofe centrali di cui dicevo prima, non ce le ha messe mica. E non ce le mette mai nessuno, o quasi, almeno a mia conoscenza. Il canto nuziale ha mantenuto solo le catenelle che lo hanno reso canto d'amore, e di quelli che sciolgono chiunque lo ascolti non solo dalla stupefacente raucedine tabaccosa di Caterina, ma anche dalla Ginevrona Di Marco e di chissà quant'altre e altri. Qui sotto, ad esempio, ve lo faccio sentire in virile e possente versione dalla bella voce baritonale di Alessandro Giobbi, detto “Il Menestrello”, che ora, a quanto ne so, fa il babbo a Cecina pur essendo fiorentino DOC. Prima, si sente Carlo Monni.


Insomma, come dire: noialtri Raccattacanzoni, a volte, si “bara” un po'. Si sa quel che c'è dietro, perché i sogni del canto popolare non sono mai del tutto lieti, quando e se lo sono. Viene dai poveri, e i poveri non sono mai stati bene. Quando approda ad un'altra epoca, rimaneggiato o meno che sia, non è mai del tutto quel che era per davvero (con l'unica eccezione, forse, dei canti politici e sociali un po' più recenti). Poi, naturalmente, rimane l'ambiguità di fondo di chi si strugge nell'ascoltar d'amore eterno e di catenelle d'oro che dovrebbero legare per sempre due esseri umani in un mondo dove le relazioni umane, ivi comprese quelle “amorose”, hanno cessato di essere assolute per aspirazione ideale venendo sostituite, casomai, dal possesso.

Ma, in ogni caso, quel che si canta, che si sia un individuo o una comunità, maschera sempre. Figuriamoci se non lo sapeva Caterina Bueno! E così si prendono anche le catenelle d'oro, cinquecento di numero, mentre si sta abbracciati con occhioni sognanti alla persona amata, o mentre si rimpiange qualcosa che è finito, o mentre ci si appronta a stringere una di quelle catenelle al collo dell'amore eterno fino a strangolarlo. E poi si va a raccattare altre canzoni.

Però sto facendo gran discorsi notturni, lo so. Come se tutti quelli che leggeranno (molto eventualmente) queste cose non facciano altro che cantarsi di catenelle toscane da mane a sera al posto dei karma occidentali e dell'ultimo successo rockettaro americano. Magari non la conoscete nemmeno, 'sta canzone; e allora, spendeteci quei tre minuti che dura, che ora sapete che è pure abbreviata. Se vi va, naturalmente; viene da un'altra epoca, da un altro mondo. Ora non ci sono più le catenelle d'oro, ci sono le catene di montaggio.

E cinquecento catenelle d’oro
Hanno legato lo tuo cuore al mio

E l’hanno fatto tanto stretto il nodo,
Che non si scioglierà né te, né io

E l’hanno fatto un nodo tanto forte
Che non si scioglierà fino alla morte

Diarsera posi un giglio alla finestra
Diarsera ‘l posi e stamani gli è nato

O giglio, giglio, quanto sei crescente
Ricordati del ben ch’io ti vo’ sempre

O giglio giglio quanto sei cresciuto
Ricordati del ben ch’io t’ho voluto

E cinquecento catenelle d’oro
Hanno legato lo tuo cuore al mio

E l’hanno fatto un nodo tanto forte
Che non si scioglierà fino alla morte.