martedì 29 gennaio 2019
martedì 22 gennaio 2019
Yellow jackets
Nel video sopra si vedono vedevano diversi gilet gialli, anche se la scena, dice, si svolge a Liverpool. Un operaio, col suo escavatore, distrugge prima la vetrata d'ingresso dell'hotel Travelodge appena finito di costruire e pronto per l'inaugurazione; poi entra dentro, sempre ruspa alla mano, e si dedica coscienziosamente a sfasciare la hall, con tutte le sèggiole ancora incellofanate, tra le urla dei colleghi (quelli, appunto, che nel video si vedono col gilet giallo) che, con tutta probabilità, gli stanno urlando roba del tipo "Ma sei matto....!!!! Fermati !!!! Nooooo !!!!". Motivo addotto per il gesto: l'escavatorista intendeva così, pacatamente ancorché in modo fattivo, stigmatizzare il fatto che la ditta per la quale lavora non gli aveva pagato 600 sterline (a occhio e croce dovrebbero essere, credo, 1800 euri) per la prestazione di manodopera. E così il Travelodge, mi sa, dovrà rifare di sana pianta l'ingresso e la hall, e rimandare l'inaugurazione. Dopo la sua efficace iniziativa, sembra che l'operaio escavatorista sia scappato via a piedi e che sia attualmente ricercato; è sicuramente possibile che i danni apportati superino di parecchio le 600 sterline dovutegli e non corrisposte. Dal che si evince che i' su' padrone (his master, o his employer), magari, la prossima volta ci penserà due o tre volte prima di non pagare qualcuno, perché può anche darsi che a quel qualcuno salti in testa di applicare il logico principio della causa e dell'effetto, e di colpire il caro, vecchio padrone invece che l'immigrato o lo zingaro. A prescindere, naturalmente, dal gilet che indossa. Certo, va detto: i colleghi ingilettati non gli danno una mano, ma neppure provano minimamente a fermarlo nonostante gli urli. Dal che si evince anche che passare dai gilet gialli alle ruspe arancioni sarebbe piuttosto ganzo. Non credo sia così difficile imparare a manovrare una ruspa, quando anche un demente qualsiasi impara a manovrare un SUV più o meno delle stesse dimensioni per il quale si è indebitato fino al 2050.
lunedì 21 gennaio 2019
La Francia strutta l'Afica
Repubblica Online, 21.01.2018, screenshot delle 17.17.
I casi sono due:
1) O siamo di fronte al capolavoro assoluto di un anonimo redattore;
2) O Di Maio e Er Dibba sono in possesso di clamorose notizie su torbide e indicibili pratiche sessuo-culinarie commesse dal governo francese.
Di Maio, con la sua espressione decisamente birichina, sembrerebbe confermare quest'ultima ipotesi.
Nel qual caso sarebbe opportuno non farlo sapere al sig. Ministro dell'Interno.
Altrimenti ci si fa subito il selfie mentre la spalma su una fetta biscottata ITALIANA.
Almeno quella!
Nel qual caso sarebbe opportuno non farlo sapere al sig. Ministro dell'Interno.
Altrimenti ci si fa subito il selfie mentre la spalma su una fetta biscottata ITALIANA.
Almeno quella!
mercoledì 16 gennaio 2019
Bonnefoy
Qualcuno,
in Rete, ha detto che lui non è secondino a nessuno. Qualcun altro,
che finalmente hanno comprato pure a lui il costumino di carnevale
per la pagliacciata di Ciampino (poi si 'ndìgnano se Cesare Battisti
ci aveva il “ghigno”; ma dico, provate voialtri a non ghignare
vedendo quei due con quelle facce e vestiti a bischero, anche se
state per andare all'ergastolo). Al ministro Bonafede, dunque, hanno
comprato la divisa della “Polizia Penitenziaria”; però cerco di
immaginarmelo per un momento come vero secondino di qualche tempo fa,
coi carcerati che gli avrebbero dovuto dare di “Superiore”.
Oppure, ritrovarselo a fronteggiare la rivolta nel supercarcere di
Trani, o di fronte a Pasquale Barra 'O Animale e a Vincenzo Andraous.
Vabbè.
Disgraziatamente,
col Photoshop o roba
del genere sono più che un disastro; una cupa catastrofe, oserei
dire. I miei tentativi di manipolare fotografie, sono sincero, fanno
più ridere del ministro Bonafede in divisa da secondino. Non per
questo voglio rinunciare ad alcune interessanti proposte
per la prossima divisa sfoggiata dal Guardasigilli
pentastellato; magari, chissà, qualcuno ben più bravo di me saprà
metterci le mani. Oppure, meglio ancora, il ministro Bonafede ci si
travestirà davvero. Stia quindi pur tranquillo: non reclamerò alcun
copyright o diritto
d'autore.
- Bonafede in divisa da Guardia Svizzera.
Nonostante l'aspetto del ministro non ricordi propriamente un pio
giovanottone dei Quattro Cantoni originali, si tratta di una divisa
assai originale e pittoresca che, non c'è da dubitarne, non sarebbe
mai venuta in mente a Salvini. Resterebbe ovviamente da risolvere il
problema dell'alabarda: nonostante l'antichità, si tratta comunque
di un'arma rispettabile il cui eventuale maneggio da parte di
Bonafede potrebbe seriamente danneggiare i presenti.
- Bonafede in divisa da Paperinik.
Cade
la notte, e il prode Bonafedik ingurgita due pillole car-can che lo
rendono invincibile e che fanno dimenticare l'inetto e sfortunato
Bonafede di tutti i giorni. A bordo della sua 313 Navigator volante
garantisce da solo la sicurezza di Paperopoli e il deposito di zio
Casalon de' Casaloni dagli attacchi della Banda Bassotti.
- Bonafede in divisa da Base Lunare Alpha (Spazio 1999)
1999:
per una serie di incontrollate esplosioni nucleari, la Luna si stacca
dall'orbita terrestre e inizia a vagare nello spazio. Nella base
lunare Alpha, il ministro Bonafede (in visita ufficiale in vista
della Moonexit), che si è compiaciuto di rivestirsi della divisa
indossata da Martin Landau e Barbara Bain, assume in pieno la gravità
del momento, fa un ultimo tweet sfoderando il migliore dei suoi
sorrisi, mentre sulla base lunare tutti si mettono le mani nei
capelli. Ci mancava pure questa!
- Bonafede in divisa del Palermo.
Nonostante
i particolari colori dell'Unione Sportiva “Città di Palermo”, è
indubbio che il rosa-nero doni a Bonafede (siciliano di nascita, tra
l'altro) un che di simpaticamente civettuolo che lo rende così gradito al pòpolo. Nessuna possibilità, del resto, di indossare la divisa
del Milan (riservata a Salvini). Però Salvini, come si può vedere, ci aveva già pensato...
- Bonafede in divisa da Ispettore Varga.
Salvini
non potrà mai aspirare a comparire negli enigmi polizieschi della
Settimana Enigmistica: la celebre e misteriosa rivista, come è noto,
non accetta pubblicità nelle sue pagine, e non potrebbe quindi
ospitare Nutelle, sughi Star e quant'altro. Bonafede ha qui la scelta
di poter comparire sia nella classica divisa dell'ispettore con il
cappello e la cravattona, sia da poliziotto d'altri tempi con la
bandoliera e il berretto con la “P”. Il tutto vagamente
sudamericano, in omaggio all'amico Bolsonaro.
martedì 15 gennaio 2019
Bologna che sa stare in piedi (cit.)
Bologna, piazza Verdi, mattina del 15 gennaio 2019.
Ovviamente insorgono tutta una serie di personaggi che allignano anche nell'antica Felsina, e che non è necessario nominare per non far impennare lo squallòmetro. Tra di essi, comunque, si distacca tale Bergonzoni Lucia, leghista, nonché -dice- "sottosegretaria ai beni e alle attività culturali" nel governo grilloverde.
Commentando, afferma la tizia: "Li metterei a fare compagnia a Cesare Battisti. Vedrai poi come studiano i fatti e smettono di scrivere cavolate". Ecco, studiare i fatti. Sentire una come questa Bergonzona, sottosegretaria alla cultura, una che dichiara quasi orgogliosa di non aver letto nemmeno un libro per tre anni, dire ad altri di "studiare", è uno degli squisiti paradossi di questo tempo.
Vada piuttosto a imbergonzonàrsi di Nutellona e di sugaglia come il suo capetto panzone, e non si occupi di cose che non le competono.
lunedì 14 gennaio 2019
Non è primavera
In questi giorni del mese di
gennaio Cesare Battisti è di nuovo prigioniero, mentre vent'anni fa,
nella bottiglia d'orzata, moriva
per la prima volta Fabrizio De André.
Poi,
è andata a finire che De André è morto e rimorto, quasi
quotidianamente. Nella normalizzazione che ne è stata fatta. Nei
monumenti, nelle strade e nelle piazze che gli sono state dedicate,
quasi altrettante che a Cesare Battisti (quello impiccato nel 1916 a
Trento). Nella sua costante e capillare neutralizzazione come una
sorta di poeta nazionale, quando era ed è stato quanto di meno
“nazionale” si possa immaginare (la qualifica di “poeta”,
così tanto amata quanto vuota, non mi interessa). Nella rassicurante
imposizione che è stata diffusa: deve piacere a tutti, bovinamente e
in quanto tale. Nella sua pressoché sacralizzazione. In origine,
quando si veniva dichiarati sacri (sacer esto,
“sia fatto sacro”, si leggeva nelle Leggi delle XII Tavole
dell'antichità romana) significava essere messo a morte in
sacrificio a un qualche dio, in esecuzione di una ben precisa condanna.
In
queste ore sta girando, in una serie di ghetti della “grande Rete”
(siti, blog, pagine Facebook...), un'immagine, quella che si vede
sotto il titolo (che riprendo dalla
Militant).
Un giovane Cesare Battisti dietro alle sbarre, e dei versi di
Fabrizio De André (da “Nella mia ora di libertà”, album Storia
di un Impiegato, 1973). Nulla da
dire sull'immagine; qualcuno la avrà materialmente prodotta, ma sono
certo che sarà venuta in mente a chiunque condivida, in tutte le
diversità, gli amori e gli odi possibili e immaginabili, uno
straccio di percorso, un brandello di storia, un grido di ribellione
strozzato nella repressione, nella standardizzazione, e sovente nella
solitudine e in destini più o meno ridicoli.
Per
questo parlo di ghetti. Ghetti personali, ghetti di piccole
organizzazioni, ghetti di singoli frequentati da altri singoli
sparsi, ghetti di qualsiasi genere che la “Rete” ha fabbricato a
migliaia e migliaia, e che non di rado vengono chiamati “oasi”.
Un'oasi, come si sa, è circondata dal deserto. Si tratta, appunto,
di una perfetta desertificazione. Anche questo blog, per quello che
possa valere, è un ghetto dove, da stamani, gira conseguentemente
l'immagine di Cesare Battisti coi versi di De André. Ci girerà, tra
un po', anche un grido di libertà scritto perbene, in tutte
maiuscole come da prassi o da consuetudine.
C'è
una sola cosa con la quale non mi riesce proprio essere d'accordo: la
primavera. Tante le grinte, le ghigne i musi, ma non c'è, purtroppo,
nulla da spiegare. Non è primavera. Occorrerebbe, forse, spiegare
bene che è un lungo e duro inverno di cui non si vede la fine. Un
inverno che può avere anche i trentadue gradi di Santa Cruz de la
Sierra, Bolivia. Un inverno che si twitta e si fa i selfie. Un
inverno che ha mille e mille facce, grinte, ghigne, musi; e non solo
quelle che, più o meno, ci si aspettano. Non ha solo la faccia di
Salvini, di Trump, di Bolsonaro, di questo o quel fascista. Ha anche
la faccia di Evo Morales. Ha la faccia dei queruli pennaioli e
tastieranti di “Repubblica” che infilano tra gli articoli le
tiratine sulla “libertà di stampa”, sulla “scomodità” e
sulle “fake news”, quando la menzogna informativa e servile è
oramai generalizzata ed eletta a necessario sistema. Ha la faccia di
tutti gli zombies chini sui telefonini -che, tra le altre cose, a
parecchi servono pure per accedere ai propri ghetti e a diffondere le
immagini di Cesare Battisti, di De André e del gattino miao, gli
appelli, i filmini raccapriccianti, edificanti, divertenti,
interrogativi. Le verità rivoluzionarie e le morali. Gli insulti e
le “condivisioni”. Non c'è mai stata un'epoca come questa,
quando si “condivide” ogni cosa e non esiste più nemmeno un
milligrammo di solidarietà, di empatia, di assunzione reale di ciò
che si dice e si fa.
Per
questo, o anche per questo, è inverno pieno. E' inverno quando ti
propinano che l'accanimento su Cesare Battisti non sarebbe “vendetta,
ma giustizia” (ancora una volta, farina del sacco di “Repubblica”,
come dubitarne). No, no, è proprio vendetta, vendetta cieca e assai
mirata. Capillare e ben al di là di Cesare Battisti e delle sue
vicende. Dietro a quelle sbarre, quelle dell'immagine, non deve
stare soltanto lui; ci deve stare chiunque abbia, nei modi più
disparati possibili, condiviso realmente qualcosa, che abbia o meno
impugnato le armi per un periodo della sua vita in una guerra che ha
avuto dei vincitori e dei vinti. Gli appelli a “liberare gli anni
'70”, così come si legge in queste ore, sono giocoforza destinati
a cadere nel vuoto. Al massimo, a girare tra i luoghi dove già
girano da tempo, vale a dire nei ghetti fisici e virtuali (che,
oramai, si confondono appieno). Prova ne sia che qualsiasi tentativo
di parlarne, con la presenza o meno di qualche “protagonista” (o
deuteragonista, o tritagonista, o nullagonista), viene stroncato e
delegittimato a colpi di grancassa mediatica, “social” e
poliziesca (a tutti coloro che si sono infilati a orgasmico capofitto
nei “social” mi premerebbe ricordare la primaria funzione di
controllo e di polizia che hanno, specie quando ripetono come automi
“dipende dall'uso che se ne fa”).
L'inverno
consiste nel fatto di non avere, attualmente, nessun'altra
possibilità che esporsi con dei mezzi che permettono un controllo e
una repressione immediata e capillare. Secondo quanto si legge,
persino Cesare Battisti è stato beccato mentre cercava un wi-fi per
le strade di Santa Cruz. E probabilmente, ciò è avvenuto perché
attualmente, in una fuga, non si hanno altri mezzi per cercare in
qualche modo di sfuggire: uscire da un luogo più o meno sicuro per
cercare di mettersi in contatto con qualcuno che ti aiuti e ti
sostenga. Si tratta di un'impasse nella quale ci troviamo tutti,
attualmente, anche chi non è certamente costretto a fuggire e a
nascondersi. Anche chi non è braccato da uno Stato, dall'Interpol,
dai fascisti mediatici e dal “popolo”. Anche chi non ha mai
toccato un'arma in vita sua. Anche chi desidererebbe esprimere un
semplice pensiero, un'idea, una proposta che vada contro a ciò che,
oramai, non si può più nemmeno definire “maggioranza”: è,
realmente, una massa planetaria ben plasmata e felicemente
intrappolata in dèi, legalità, telefonini, sport, cuochi, vittime,
ammòre, fiction e razzismi.
E'
inverno, e occorre andare a spiegarlo in modo a mio parere assai
brutale e chiaro, perché la primavera è morta. Cinguettiamo come
uccellini, ma coi “tweet” e coi cinguettii di Whatsapp. Per il
resto siamo pienamente in gabbia, e non cantiamo per amore, ma per
rabbia. Liberare gli anni '70? Bisognerebbe liberare la Storia, tutta
quanta, e invece ce la facciamo raccontare in TV da Paolo Mieli, mi
scappa da ridere. “Assaltare il cielo”, come si legge sulla
Militant? Dai ghetti si assalta poco o punto, i ghetti sono fatti di
mura, di chiusura, di ingressi rigidamente controllati a chi vuole
entrarvi, e di uscite impossibili per chi è dentro. Viviamo quindi
tranquilli e beati nei nostri ghetti, nel blogghino, nella paginetta
Facebook, in qualche “spazio libero” che tanto fra due o tre
giorni verrà chiuso e sgomberato con tante belle denunce fresche
fresche, nella stanzetta o nella baracca, nell'oasi e nell'illusione
di sfuggire. Stiamo anche noialtri cercando un wi-fi. Fra poco ci
estradano. In quel Cesare Battisti dietro alle sbarre ci siamo tutti,
in dei casi senza nemmeno rendercente conto. In altri casi, sotto
sotto forse nemmeno del tutto scontenti perché di “compagni” che
ho sentito dire che “se l'è andata a cercare” ne ho sentiti più
di uno.
CESARE
BATTISTI LIBERO!
LIBERIAMO GLI ANNI '70.
domenica 13 gennaio 2019
sabato 12 gennaio 2019
giovedì 10 gennaio 2019
Compagno Baglioni, presente!!!....
mercoledì 9 gennaio 2019
La parola Lavoro
- Esposizione.
La
parola “lavoro” è, in sé, ambivalente. Può indicare sia
un'opera compiuta, sia l'attività esercitata per compierla. Nella
realtà storica delle lingue indoeuropee i due concetti, come è più
che naturale, vanno sia di pari passo, sia si confondono; l'opera
realizzata e la fatica spesa non sono separabili. Non esiste in ogni
caso, a livello originario, una qualsiasi nozione che riporti al
“lavoro intellettuale”, ed è qualcosa di assolutamente naturale:
prima della creazione e dello sviluppo delle culture scritte,
dell'elaborazione filosofica e scientifica, della composizione
letteraria e dell'indagine storica, il “lavoro” è la fatica
necessaria e imposta per compiere qualcosa di materiale,
indipendentemente o, come è infinitamente più comune, sotto un
padrone.
Le
varie lingue indoeuropee non sono state univoche per indicare il
“lavoro” quanto alle radici di derivazione che sono arrivate fino
alle lingue moderne; il lavoro non appartiene ai concetti
fondamentali della relazione umana, della sua struttura e della sua
percezione dell'ambiente circostante (due esempi per tutti: le
relazioni familiari e i termini relativi alla terra e all'acqua). Con
la nascita e con lo sviluppo dell'agricoltura, del commercio e della
costruzione, il “lavoro” si connota basandosi su radici parecchio
varie, vale a dire di differente origine semantica; quel che però,
ad un certo punto, viene percepito in maniera assolutamente comune, è
il lavoro come fatica, come costrizione, come imposizione forzata. Si
potrebbe dire che l'espressione “lavori forzati”, intesa come
estrema e terribile pena giudiziaria, riflette un'antichissima
tautologia. In tutte le radici indoeuropee che hanno dato luogo ai
termini per “lavoro” ed “opera”, pur nella loro varietà,
esistono i concetti basilari di “fatica” e “costrizione”; ne
consegue che, se il lavoro viene imposto per il profitto di pochi
padroni (parola che reca in sé la derivazione da “padre”),
coloro ai quali esso viene imposti sono gli schiavi. E il concetto di
“schiavitù” per “lavoro” è comunissimo. Il lavoro è
schiavitù, e le parole non mentono mai quando si sviluppano
liberamente nelle coscienze delle comunità storiche.
L'italiano
lavoro risale direttamente al
latino labor “fatica”;
il verbo derivato laborare
significa “durare fatica” e, fin dall'antichità, indica la
fatica per eccellenza: lavorare la terra. Il termine permette di
andare direttamente ad una delle grandi “aree del lavoro” delle
lingue indoeuropee: quella che risale alla radice indoeuropea *rabh-
/ *robh- / *rbh- dal significato
primario di “afferrare”, “prendere con la forza”. A tale
riguardo, è necessario seppur sommariamente specificare che, a
livello indoeuropeo, le liquide [r] e [l] sono assolutamente la
medesima cosa, un'evoluzione del medesimo fonema consonantico (per
cui, ad esempio, la radice della “luce” compare come lux
o light
in certe lingue, e come roz
o roká- in altre,
perlopiù indoiraniche; il capodanno iranico, il celebre newroz,
significa “luce nuova”). La radice *rabh-
si ritrova direttamente nel sanscrito rábhate “divengo
padrone; mi impadronisco”, rábhas
“movimento violento dell'anima o del corpo; impeto, forza;
violenza”; nel suo sviluppo ulteriore con la liquida [l] anche nel
comune verbo lábate “prende”,
“cattura” (in sanscrito, fin dai tempi del grande grammatico
Pànini, i verbi si nominano alla III persona singolare del presente
indicativo). Il lavoro sarebbe
quindi una “cattura”, un “impadronirsi con la forza”. La
medesima radice indoeuropea, nella sua “variante con la [l]”, e
munita nel sistema del presente di un infisso nasale, è alla base
del comunissimo verbo greco λαμβάνω
[lambánō]“prendo”,
aoristo ἔ-λαβον
[élabon]
“presi”,
nel greco moderno λαβαίνω,
έλαβα
[lavéno,
élava]; ma lo è anche del termine, assai meno comune, λάφυρον
[láphyron]
“preda di caccia” ; “spoglia del nemico ucciso”.
Le
lingue slave mostrano già la naturale evoluzione semantica che va
dall' “impadronirsi” alla “schiavitù”, alla riduzione in
servaggio. Nella più antica forma pervenuta di una lingua slava,
l'antico bulgaro o antico slavo ecclesiastico, la radice ha dato
luogo in primis a рабъ
[rabŭ],
che significa tout court “schiavo, servo”: è parola panslava
(bulgaro роб [rob],
russo раб-ыня
[rabynja],
con derivazione, ecc.). Passa quindi automaticamente al “lavorare”:
già nel suddetto antico bulgaro, работа
[rabota]
copre i campi semantici del “lavoro”, della “schiavitù” e
della “servitù della gleba”. La situazione si evolve
ulteriormente nel cèco storico, dove robit
significa soltanto “lavorare”, e robota
“lavoro
[materiale]”; come tutti sanno, da questo termine Karel Čapek
derivò il termine robot
per
il suo dramma utopistico fantascientifico R.U.R.
(1920),
ovvero Rossumovi
Univerzální Roboti
“Robot Universali della Rossum” (ove il nome dell'azienda
produttrice degli automi-schiavi, la Rossum, deriva da rozum
“ragione”).
Il termine slavo per lo “schiavo” passa peraltro così com'è
nella lingua ungherese, di tutt'altra origine: rab
(si pronuncia [råb] ed è presente nel primo verso
dell'Internazionale
in
ungherese, Fel,
fel ti rabjai a földnek
“Su, su, voi schiavi della terra”). In altre lingue slave, come
il serbocroato,
il
verbo robiti
si è genericizzato: significa, più che altro, “fare”. Uno di
quei casi in cui la storia di una parola fa venire qualche bordone:
per una data evoluzione storica, qualunque cosa si “faccia”
riporta ad un'antica schiavitù.
Per
il lavoro, il russo sembra divergere dalle sue consorelle slave. In
russo, “lavoro” si dice труд
[trud].
Divergere? Il termine, anch'esso presente nell'antico bulgaro o
antico slavo ecclesiastico трѹдъ [trudŭ], significa: “fatica,
pena, schiavitù, lotta per non soccombere”. Dovunque si vada a
parare, il “lavoro” non appartiene ai concetti piacevoli della
vita: appartiene alla pena, al dolore, alla mancanza di libertà, al
servaggio. L'ungherese, che non è lingua slava e neppure
indoeuropea, per il “lavoro” si è sentita però in dovere di
ricorrere ad un altro prestito slavo, dolog
(da cui dolgozik
“egli lavora” e dolgozó
“lavoratore”), una parola che significa: “necessità, dovere
imposto, costrizione”.
Finita
qui con il *rabh-
indoeuropeo?
Niente affatto. Le radici indoeuropee, oltre al fenomeno
caratteristico dell'apofonia (vale a dire il loro comparire nella
“forma debole” caratterizzata dalla presenza della vocale /a/,
nella “forma forte” caratterizzata dalla vocale /o/ e dalla
“forma ridotta” caratterizzata dall'assenza di vocale e
dall'eventuale presenza di una sonante), nella loro evoluzione
storica presentano ogni sorta di accidente fonetico. Così, ad
esempio, nelle lingue germaniche è stata scelta la forma ridotta
della radice, *rbh-,
la quale, per evidenti difficoltà di pronuncia, ad un certo punto ha
dato luogo a *arbh-
con
la una prefissazione vocalica. Nella più antica lingua germanica
testimoniata, il gotico (sec. IV d.C.), compare già il termine
derivato arbaíþi
[da leggersi: /árbethi/] “fatica, lavoro”. Nell'alto tedesco
antico compare come arabeit,
e nel tedesco moderno come Arbeit,
quello che “macht frei”. Parola, che, dal tedesco (o meglio, dal
basso tedesco) è passata, come prestito, in tutte le lingue
scandinave continentali (danese arbede,
svedese e norvegese arbete).
L'islandese, la “nonna” delle lingue germaniche, ne ha dato uno
sviluppo autonomo: erfiði,
che non significa “lavoro” ma comunque “fatica fisica, pena,
travaglio”.
Prima
di terminare con *rabh-
,
occorre accennare al fatto che la sua forma ridotta *rbh-,
testè vista per le lingue germaniche e con la medesima prefissazione
vocalica, è presente nel greco ἄλφ-ημα
[álphēma]. Cosa significa questa non comune parola? “Mercede,
fatica, lavoro, corvée”. C'est étonnant. E, in ultimo, che la sua
primeva origine come “movimento violento dell'anima e del corpo”
è alla base anche del latino rabies
“rabbia”
(accesso violento che prende, si direbbe ora “raptus” per altro
derivato anch'egli dalla medesima radice), nonché di robur
“ròvere”
(albero di grande forza, da cui il derivato robustus).
Dunque,
“lavoro” = “cattura, riduzione in schiavitù, impadronimento”.
Nelle lingue romanze, o neolatine, il termine labor
si è generalizzato come “lavoro” soltanto in italiano (il rumeno
ha muncă,
un prestito slavo). Nelle altre lingue significa piuttosto “fatica”
e, quindi, “lavoro della terra” (francese labeur;
labourer “lavorare
la terra”, spagnolo labrar,
labrador
-che è anche il nome della penisola e del cane-, portoghese lavrar,
lavrador).
Per il “lavoro” in senso generico, molte lingue neolatine hanno
preferito un altro piacevole termine, quello del nostro “travaglio”,
del francese travail,
dello spagnolo trabajo,
del catalano treball,
del portoghese travalho,
del sardo traballu.
In
questo caso non si risale affatto all'antichità indoeuropea, ma a
una forma e a uno strumento di tortura: il tripalium.
Tre pali, disposti uno in verticali e gli altri due a X, ai quali il
torturando veniva legato; viene, tra gli altri, menzionato da
Cicerone nell'orazione In
Verrem (“Contro
Verre”, 70 a.C.) come forma di tortura nata da un sistema per
immobilizzare bestiame riottoso e riservata, naturalmente, agli
schiavi ribelli (come tale, viene descritta allo stesso modo in un
testo molto posteriore, il Concilio
di Auxerre del
582 d.C., specificando che si trattava di una procedura talmente
crudele che ai chierici veniva proibito di assistere alle sessioni di
tortura col tripalium).
Questa simpaticissima punizione riservata agli schiavi è stata
associata al lavoro, alla pena fisica e morale, alle doglie del parto
e alle tribolazioni del viaggio (è alla base, mediante il
franconormanno, anche dell'inglese travel).
Da notare che, il più delle volte, al tripalium
con
il relativo tripaliatus
veniva,
che quest'ultimo fosse o meno già morto, dato fuoco. Ad un certo
punto, nella coscienza popolare, il “lavoro” è stato paragonato
ad una cosa del genere.
La
lingua greca, sia antica che moderna, ha sviluppato appieno la
distinzione tra l' “opera” (il lavoro compiuto) e il “lavoro”
come attività. Per il “lavoro” come “opera” c'è poco da
dire, anche la relativa radice, quella di ἔργον
[érgon],
da
*ϝέργον
[wérgon;
la “ϝ” è il digamma
indicante
il fonema /w/, ancora presente nelle fasi più antiche del greco e in
Omero, ma scomparso nelle fasi storiche del greco
sebbene
conservatosi in uno sperduto dialetto ancora parlato, lo zacònico],
è panindoeuropea, *werg-
/ *worg- / *wrg-, quella
del semplice “fare”. Analizzarla significherebbe perdersi in un
oceano, dalle lingue germaniche (inglese work,
tedesco
Werk)
all'armeno gorc;
anche
se va detto che ha anch'essa degli sviluppi un po' sinistri, visto
che la ritroviamo anche nel greco ὀργή
[orghé]
“rabbia,
collera”, nell'antico bulgaro vĭrša
“rete per acchiappare i pesci al passaggio”, nell'antico
irlandese ferg
“rabbia,
ira” (irlandese moderno: fearg)
e nel tocario wark
“frusta, scudiscio” (il tocario è una lingua indoeuropea i cui
documenti su tavolette sono stati scoperti nel XX secolo nel
Turkestan cinese, più o meno dove ora stanno gli Uiguri). Da dire
comunque che, in greco -anche moderno- il verbo “lavorare”
presenta un'interessante dicotomia. Da un lato c'è il “lavorare”
come attività produttiva organizzata e industriale, espresso
mediante il classico ἐργάζομαι
[ergázomai,
mod.
ergázome].
Il “lavoratore” in senso elevato, cosciente, è un ἐργαστής
[ergastēs,
mod.
ergastís]
o un ἐργαζόμενος
[ergazómenos].
Dall'altro c'è il “lavoro” come termine generico, basso, crudo:
in greco moderno è δουλειά
[dhouliá],
mentre lavorare è δουλεύω
[dhulévo].
Entrambi i termini risalgono a quelli classici per “schiavitù”,
δουλεία
[douléia],
e “sono schiavo”, δουλεύω
[douléuō].
Non è certamente un caso che i termini “elevati” siano stati
filtrati dalla “lingua ufficiale” arcaizzante, la katharévousa,
rimasta in uso formale fino al 1974 (quando fu abolita dopo la fine
della dittatura dei Colonnelli; il dittatore Papadopoulos, quello
della “Grecia dei Greci cristiani”, si esprimeva praticamente in
greco antico!): la lingua dell'élite, della Chiesa, della
burocrazia, dei padroni. La dhimotikí,
il neogreco popolare, diceva e dice tuttora di essere schiavo quando
va a sgobbare. Interessante notare che per la “schiavo” in senso
proprio, il neogreco può usare sia il termine classico, δούλος
[doúlos],
sia, più comunemente, il prestito veneziano σκλάβος
[sklávos],
propriamente derivato dagli “slavi”, popoli schiavi assoggettati.
“Schiavitù” è sia σκλαβιἀ
[sklaviá],
sia il classico δουλεία,
pronunciato
[dhoulía], che si distingue dal “lavoro” [dhouliá] solo per la
posizione dell'accento.
L'evoluzione
forse più originale e interessante, per quanto riguarda il “lavoro”,
si ha però in quei pochi paesi del Salento dove ancora si parla il
griko,
il greco salentino che, assieme a quel pochissimo che ne resta anche
in Calabria (il grecanico)
rappresenta le ultima vestigia storiche del greco della Magna Grecia.
Pur avendo sotto molti aspetti seguito l'evoluzione del greco di
Grecia e dei suoi dialetti moderni, il griko salentino ha
-ovviamente- caratteristiche tutte sue. Non soltanto per la presenza
massiccia di termini salentini, ma anche per sviluppi particolari dei
termini di pura origine greca (alcuni dei quali sono, come è normale
nei linguaggi isolati, arcaismi notevoli). Bene, nel griko salentino
di Calimera, “lavorare” si dice polemáo.
Vale a dire: nel Salento griko non si va al lavoro, si va alla
guerra. Il “lavoro” come sostantivo è però il pugliese fatía,
propriamente il “lavoro come bracciante” (“fatica”).
- Esercizio.Sostituire, nel seguente brano, il termine “lavoro” con termini desunti dall'Esposizione.Esempio: “Il nuovo fanatismo della schiavitù”...
“Il
nuovo fanatismo del lavoro, con cui questa società reagisce alla
morte del suo idolo, è lo stadio finale di una lunga storia.
Dall'epoca della Riforma, tutte le forze propulsive della
modernizzazione occidentale hanno predicato la sacralità del lavoro.
Soprattutto negli ultimi 150 anni, le teorie sociali e le correnti
politiche sono state addirittura possedute dall'idea del lavoro.
Socialisti e conservatori, democratici e fascisti si sono combattuti
fino all'ultimo sangue, ma per quanto fossero nemici mortali si sono
sacrificati insieme all'idolo 'lavoro'. Il verso dell'inno dei
lavoratori dell'Internazionale che recita : 'Non c'è posto per gli
oziosi' ha trovato un'eco macabra nell'iscrizione 'Il lavoro rende
liberi' sopra l'ingresso del lager di Auschwitz. Poi le democrazie
pluralistiche del dopoguerra hanno fatto solenne giuramento di
difendere l'eterna dittatura del lavoro. Perfino la costituzione
della cattolicissima Baviera, proprio nel solco della tradizione di
Lutero, insegna ai cittadini: 'Il lavoro è la fonte del benessere
del popolo e si trova sotto la particolare protezione dello Stato', e
il primo articolo della costituzione dell'Italia, culla del
cattolicesimo, recita: 'L'Italia è una Repubblica fondata sul
lavoro. Alla fine del XX secolo, tutti i contrasti ideologici sono
praticamente svaniti nell'aria. In vita è rimasto lo spietato dogma
comune che il lavoro è la vocazione naturale dell'uomo.”
[Robert
Kurz, Norbert Trenkle, Anselm Jappe (Gruppo Krisis): Manifesto contro
il lavoro, ed. italiana, 2003 Derive/Approdi, pp. 14/15]
mercoledì 2 gennaio 2019
Nuova ballata in onore delli imbecilli di tutti i Paesi
Conosco l’Imbecilli delle Antologie, colle malinconie
di castrare le statue e le liriche,
e di sciupare, nella melma, i fiori.
Ho visto l’Imbecille a discutere Iddio
senza averlo cercato ne’ fornelli chimici.
Ho visto molti Imbecilli canori come sciacalli
che giuocavan, sui dadi, la prima nota e l’ultima
di certe canzoni peregrine non composte ancora.
Ho visto l’Imbecilli letterati, spudorati
per le loro sciocchezze, menarne vanto,
come un incanto d’errori di sintassi e di gramatica.
Ho visto l’Imbecille al Finimondo,
l’Imbecilli politici, statisti e arringa-popoli,
sfacciati ed imprudenti, stolti e paralitici.
Tra l’Imbecilli e i Coccodrilli è poca distinzione:
la Storia Naturale spiega il Natale
dell’una e dell’altra bestia:
dal fango delle inondazioni.
L’Imbecilli si soffiano il naso:
noi non siam persuasi della loro onestà.
Soffiansi il naso ed asciugansi l’occhi:
queste lustre alli sciocchi fanno di sicurtà.
Piangono l’Imbecilli; non ci credete;
la cattiveria tira le cuoja all’ignoranza,
ma sopra a quanto avanza,
combinano un grazioso giuocherello;
preparano il giubbetto a chi diffida,
al rosso farsetto
stiran le vertebre.
L’Imbecilli hanno il catarro:
essi aggiogano al carro, invece de’ pazienti buoi,
l’eroi dell’a venire.
Ho veduto dei grandi Imbecilli
girar poc’anzi a stuolo per il mio paese,
molte pretese sciorinando al Sole.
Ho veduto l’altr’jeri a concistoro in un palazzo antico
molti Imbecilli foggiare un intrico contro il Pensiero.
Ed ho veduto un Generale ameno
ricondurre il sereno sulle tombe
col buon ajuto della cannonata,
beata partecipazione del moschetto alla galera,
lezion buona e severa a chi verrà.
L’Imbecille è crudele.
Bestia rara! Le più rare s’accovaccian dentro all’are,
le preclare vanno a torno a buggerare,
le più care sono preste a malignare,
le più avare danno fondo al fondo mare.
Ora il mar, che fan seccare, stenta un poco a preparare
funerali e bare; ma verrà, quando verrà, la calamità.
Piangeranno, grideranno! Chi sa quanti in quel mattino
strilleranno in un cantuccio, per la triste avversità.
Poco furbi, o troppo tardi?
Per colmare la tormenta si saran raccomandati
alla comoda prudenza dei cerotti immostardati
dai magni economisti gagliardi e liberisti.
Gian Pietro Lucini
1867-1914
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